Francesca Lazzarato
Gita Wolf ha fondato la Tara Publishing nel 1994, e in dieci anni la casa editrice (che ha sede a Chennai, vicino a Madras) è diventata una delle “piccole imprese” più ammirate del mondo, grazie allo splendore della grafica e delle illustrazioni di libri costruiti artigianalmente, spesso stampati a mano su carta fatta a mano, in cui si ritrovano tutta la tradizione visiva dell’India contadina, ma anche le sue leggende, i suoi personaggi, i suoi animali. Alla produzione per bambibni si sono aggiunte di recente la narrativa per adulti e memorabili libri dedicati all’arte e all’iconografia popolare indiana. Dal primo libro con le figure, una fiaba femminista intitolata Mala, all’ormai celebre Very Hungry Lion del 1995 al recente One Two Tree! , illustrato da Durga Bai, un artista tribale di straordinaria bravura, la Tara ha messo insieme un bellissimo catalogo che vende in dieci paesi, dall’Europa all’Australia, dagli Usa alla Corea (tra quelli italiani ci sono Adelphi, Corraini e MC). Nonostante i premi vinti e gli ottimi affari conclusi all’estero, però, la Tara è e vuole restare un editore piccolo, che si regge sulle idee e la collaborazione di un gruppo di amici affiatati ed è aperto a sempre nuove collaborazioni, incluse quelle venute da lontano.
La Tara, così artigianale e sofisticata, rappresenta un’eccezione o un’anomalia rispetto all’editoria indiana di oggi, oppure esiste una tradizione alla quale vi ricollegate?
Direi un’eccezione, se non proprio un’anomalia, perché gli Indiani urbanizzati sono soprattutto interessati a progetti che parlino di un’India futuristica e tecnologica. Ma nelle zone rurali passato e presente convivono e il disegno tradizionale ha ancora un ruolo importante. In passato, il disegno tradizionale non si è mai veramente sviluppato al di fuori dell’ambito della tessitura e non si è mai adeguato ai gusti e alle tendenze di oggi, per molte ragioni. Nelll’India libera e post coloniale, però, questa tradizione ha ripreso vigore. Lo sviluppo dell’illustrazione, comunque, da noi è storicamente limitato. La sua lunga stasi è dovuta anche al fatto che era appannaggio di determinate caste considerate davvero marginali. In tempi di estetica industriale, tuttavia, c’è stato un revival che fa un po’ pensare a William Morris, il socialista inglese vissuto nel XIX secolo, che fece rinascere una tradizione pre-industriale e artigianale capace di inserirsi nella modernità. Da noi riproporre questa tradizione significa anche combattere la scarsa immaginazione della borghesia indiana. Abbiamo recuperato questa tradizione visiva rurale e tribale a beneficio dell’infanzia, senza condiscendenza alcuna, nel segno dell’eguaglianza e dell’apertura nei confronti di qualsiasi cultura.
Realizzate splendidi libri fatti a mano: in Europa sarebbero oggetti per pochi, costosissimi e da collezione. In India è la stessa cosa?
I libri fatti a mano sono solo una parte della nostra produzione, facciamo anche dell’altro. Per quel che riguarda questi libri, va detto che sono molto apprezzati da bibliofili di ogni specie, inclusi molti appartenenti alle classi lavoratrici e artigiane che vi riconoscono i segni tipici della propria cultura, e alla classe classe media indiana, che solo in tempi recenti ha preso a considerare il libro un “oggetto culturale”. Il prezzo di libri così speciali non è alto, se si considera che sono il frutto di un grande lavoro in cui è impegnata molta mano d’opera. Gli artigiani che li stampano e li rilegano sanno di fare qualcosa di unico e sono fieri dei molti premi internazionali che abbiamo vinto e dell’attenzione che riscuotiamo. E per un bambino è importante possedere libri così belli, sapendo per di più che nascono dalla tradizione culturale del proprio paese e dall’impegno di tante persone.
Che cosa ne pensate dell’editoria “globalizzata” e massificata che oggi si rivolge ai ragazzi, creando fenomeni che coinvolgono il pubblico di tutti i continenti?
In India ci sono sette giganti editoriali che offrono libri a prezzi molto bassi e ricorrono a energiche strategie di marketing per promuoverli. Ma la globalizzazione ha anche un’altra faccia, per esempio ci dà la possibilità di intrattenere relazione produttive e creative con editori e illustratori non indiani. Mi sento davvero felice ogni volta che i nostri libri vanno in giro per il mondo, e di recente ho acquistato i diritti di una serie di comics giapponesi su Hiroshima, Barefoot Gen. Non ho nessuna obiezione contro questo tipo di globalizzazione. Sfortunatamente, lo strapotere delle grandi multinazionali dell’editoria tende a soffocare le differenze culturali, a omologarle. In molti paesi occidentali è davvero difficile essere un editore indipendente, la libertà è piuttosto limitata dalla presenza e dall’azione dei “giganti”. In India, per fortuna, al momento esiste ancora uno spazio per lavorare a modo proprio.