21 Marzo 2008
Quotidiano di Catanzaro

Depenalizzare l’aborto

Franca Fortunato

Uscito con il titotlo Sull’aborto non si faccia inutile “filosofia”

l suicidio del ginecologo genovese, Ermanno Rossi, indagato per aver procurato aborti fuori dalla struttura pubblica, e le indagini dei carabinieri nei confronti delle donne che hanno abortito in violazione della 194, ripropongono, a distanza di quarant’anni, la questione della depenalizzazione dell’aborto. Una questione posta negli anni ’70 da una parte significativa del femminismo italiano, quello della Libreria delle donne di Milano, che, allora, era più favorevole alla semplice depenalizzazione che alla legalizzazione dell’aborto. Il caso drammatico del ginecologo ci dice come l’aborto in Italia non è reato solo se viene attuato negli ospedali pubblici, fuori sì. Questo dimostra che l’approvazione della 194 da parte del Parlamento fu un compromesso tra patriarcato e libertà femminile, fra cultura laica e cultura cattolica, fra de-criminalizzazione e statalizzazione dell’aborto. Da tempo negli ospedali pubblici l’aumento degli obiettori di coscienza (i giovani medici, per carriera o per convinzione, non vogliono praticare aborti) non garantisce più l’applicazione della legge e i suoi nemici aspettano che muoia di morte naturale, ecco perché dicono di non volerla toccare. Molte donne, intanto, sono costrette, se ne hanno la possibilità economica, come quelle di Genova, a rivolgersi a strutture private o andare all’estero. Depenalizzare l’aborto vuol dire, anche, rendere possibile l’interruzione di gravidanza negli ospedali privati convenzionati, garantendone la gratuità e mutualità. Un’altra questione che pone il caso dello sventurato ginecologo genovese è quello della clandestinità degli aborti. La legge 194 è nata per sconfiggere gli aborti clandestini a cui ricorrevano le donne che non avevano i soldi per andare nelle cliniche private o all’estero e, molte di loro, non solo sfidavano il carcere ma morivano dissanguate. Oggi, come ieri, chi ha soldi non rischia di morire ma se interrompere la gravidanza negli ospedali pubblici diventerà sempre più impossibile, come sta avvenendo, è chiaro che chi rischia, ancora una volta, di tornare in mano alle mammane sono le più povere, rappresentate oggi dalle immigrate, che sono quelle che di più, in Italia, ricorrono all’aborto. Altra considerazione. Le donne che si sono rivolte al ginecologo genovese ci confermano quanto è sbagliato pensare che l’aborto sia un diritto. Infatti, dire che l’aborto è un diritto significa dire che una donna lo fa perché c’è una legge che glielo consente e quindi la sua volontà dipende dalla legge stessa. Questo non è vero oggi, come non lo era ieri, perché una donna che decide di non portare a termine una gravidanza lo fa per scelta e non perché qualcuno, lo Stato, una legge, glielo permette o glielo vieta. Nessuno può obbligare una donna a portare avanti una gravidanza non voluta. Questo semplice principio dovrebbe essere riconosciuto da tutti.
Un’altra questione che ripropone il caso di Genova è il fatto che le donne abortiscono soprattutto quando sono sole. Allora mi chiedo, chi c’è dietro ad ogni aborto? C’è sempre un uomo e quasi mai uno che avrebbe voluto diventare padre.
Ma lo sanno o no gli uomini che solo in loro la sessualità procreativa si identifica con il piacere?
Gli uomini, quelli che filosofeggiano sull’inizio della vita, si fermano al feto, a quella fase in cui il bambino è ancora del tutto dipendente da una madre che loro vivono come onnipotente, irresponsabile e crudele. C’è come una fissazione degli uomini all’embrione, al feto per poi, di fatto, disinteressarsi dopo la nascita, visto che nella realtà sono ancora le donne che si fanno carico della crescita della loro creatura. Allora chiedo, gli uomini hanno davvero desiderio di paternità?

 


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