1 Dicembre 2004
Pedagogika n°6 anno VIII (nov dic 2004)

DFonne e uomini: paradossi, desideri di parzialità e nuove virtù

 

Barbara Mapelli

E’ forse necessario, innanzitutto, spiegare perché io renda centrale alla mia riflessione il termine ‘parzialità’.
La consapevolezza di parzialità si muove – nei percorsi delle donne degli ultimi decenni – dalla ‘scoperta’ della differenza femminile, alla declinazione al plurale, le differenze tra donne, all’incontro e confronto, ora rinnovato e inedito poiché ‘nuovi’ sono i soggetti femminili, con il tema della maschilità, cogli uomini che intendono e desiderano, anch’essi in una prospettiva di genere, discutere e provarsi nella loro parzialità.
Anche se gli sviluppi di pensiero cui accennerò hanno avuto una progressione temporale, o perlomeno li presenterò necessariamente in una sequenza, vi sono nella storia di questi decenni alcuni termini evocativi di senso, aree semantiche dense di significato, che in realtà convivono e non possono considerarsi le une superamento delle altre. Pari opportunità, differenza sessuale o di genere, sono state e sono universi complessi di riflessioni e pratiche, di scambi e di conflitti nel movimento delle donne, che mantengono nel tempo valore per quello che significano e sottendono, e sono tuttora anime vive e vitali. Vitali anche perché non acquisiti come ‘conquiste’ che appartengano alla consapevolezza diffusa, ai modi del vivere tra i sessi nel sociale e nel privato. Le pari opportunità ci ricordano – mentre elaboriamo il nostro sapere ‘differente’ e un universo simbolico che significhi la ‘nostra’ lettura di realtà – che discriminazioni e stereotipi segnano e determinano ancora le relazioni tra donne e uomini. La differenza femminile – mentre il nostro sforzo è nella direzione di nominare le differenze tra le donne – è tuttora e spesso negata, in nome di un universalismo dell’essere umano o, all’opposto, di un relativismo confusivo che somma senza distinguerle tutte le differenze.
Se considero allora in questo momento centrale la riflessione sulla parzialità, non penso che questa nozione superi quanto l’ha preceduta e resa possibile, ma sia più che altro la visione più efficace per definire il punto cui è arrivato il nostro percorso e quella che consente l’assunzione di un punto di vista interpretativo ancora generativo di sviluppi.
La differenza delle donne, che mette in discussione la presunta universalità e neutralità dell’essere e pensarsi UOMO, impone un pensiero duale: essere umanità significa essere donne e uomini, avere ed avere elaborato storie, esperienze, saperi, simbolici e immaginari differenti proprio perché donne e uomini.
Il passaggio successivo si indirizza nella direzione della molteplicità: donna significa donne, differenti per culture, etnìe, classi sociali, generazioni.
Il rischio, denunciato innanzitutto dalle donne del ‘black feminism’, del formarsi di un movimento ‘bianco’ diviene consapevolezza, per quanto riguarda il nostro Paese, con l’arrivo di donne da altri luoghi e culture, e altri pericoli di autoreferenzialità del movimento si frantumano nel confronto necessitato con le donne giovani, delle generazioni successive alla nostra, la generazione delle donne giovani negli anni Settanta. Le donne invece nate negli anni Settanta, o dopo, incarnano e vivono il cambiamento che abbiamo generato, con desideri e attese di sé e di sé nel reale, legittimamente diversi da quanto noi potessimo immaginare.
Le giovani donne ci insegnano, o reinsegnano, la nostra parzialità: se pure abbiamo cambiato il mondo – e di questo sono convinta – ciò che siamo, abbiamo pensato, detto e scritto appartiene comunque alla nostra storia, individuale e collettiva, è la storia di ciascuna e di alcune donne di una generazione, una narrazione in cui chi vuole andare oltre e altrove può trovare radici, riferimenti o insegnamenti, con cui comporre – ma scegliendo ciò che vuole – la propria biografia, individuale e collettiva.
Così, proseguendo nella storia, l’insegnamento che ci viene dall’incontro con il maschile. Anche qui occorrerebbe una riflessione generazionale, che tralascio, pensando soprattutto a quegli uomini, pochi e per lo più giovani, che stanno elaborando il pensiero di sé in una prospettiva di genere e, quindi, di parzialità, ponendo a critica universalità, virilità normativa, culture del patriarcato e cercando in sé, ma anche nel passato dell’essere uomini quei percorsi che hanno significato uno scarto dalla norma, gravosa anche per il genere maschile e che ha cancellato anche quelle differenze maschili dalla memoria storica, dal sapere accreditato.
Queste storie di donne e uomini, che ho brevemente raccontato per suggestioni e accenni, narrano dunque la necessità del plurale – differenze-generi-generazioni – e il nostro affacciarci, a partire dalla differenza, sulla necessità e coscienza di parzialità, come soggetti, come donne e uomini, come generazioni.
E la coscienza di parzialità genera per tutti e tutte positivi paradossi.
Per le donne, quelle della mia generazione in particolare, la rinuncia a un ‘pensiero forte’, che ancora una volta eriga un sistema che tutto spiega, un universo di significati sotto l’ombrello rassicurante, ma opacizzante, dell’unicum ‘in quanto donna’, e da questa rinuncia, e solo da essa, si genera la possibilità di incontrare e comunicare con altre donne, con le differenze e i desideri, e i problemi e i progetti, che le rendono diverse da noi. Una rinuncia che solo apparentemente rende più deboli, ma in realtà apre alla possibile pluralità del ragionare ‘in quanto donne’, declinazioni plurime della libertà femminile che abbiamo per prime dichiarato e cercato di praticare.
Ma anche per gli uomini la rinuncia a vissuti e pensieri di universalità, genera la possibilità di libertà nuove rispetto al passato: “La questione che oggi mi trovo davanti, come uomo, non è solo di rispondere alle domande di potere e libertà delle donne, ma di interrogare il maschile nel suo ‘essere parzialità’. Di leggere e interpretare la mia esperienza concreta di vita prima di definire e di interpretare il mondo. Una prospettiva inedita che il sapere che abbiamo prodotto non ci aiuta a leggere” .
Ed è a partire dalla coscienza di parzialità, una conquista per ciascuno e ciascuna, che occorre elaborare, o apprendere a rielaborare, nuovi modi di essere e di essere in relazione tra donne e uomini. Nuove qualità o capacità del sentirsi e vivere in rapporto con l’altro/altra, che preferisco chiamare ‘virtù’, poiché le considero innanzitutto modi di essere, da cui si generano azioni e pratiche, forme dell’entrare in relazione con le diversità.
Le prime virtù, coraggio e umiltà. Paiono contrapposte, roboante il primo, dimessa la seconda , ma in realtà cercando altri significati – e in questo può venirci incontro la riflessione filosofica – possiamo trovare una loro declinazione comune .
Il coraggio anzi appare come prima condizione di tutte le altre virtù, in particolare dell’umiltà.
“La connotazione del coraggio, che noi ora riteniamo una qualità indispensabile, è praticamente già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di iniziare una propria storia. E questo coraggio non è unicamente o anche principalmente legato al proposito di accettare le conseguenze dell’agire; il coraggio e anche l’audacia sono già presenti nel lasciare il proprio riparo e mostrare chi si è, svelando ed esponendo sé stessi” .
Il coraggio, nei significati che presenta Hanna Arendt, è la virtù di essere e divenire sé stessi e sé stesse, dell’agire libero sulla scena del mondo, nelle relazioni con altri e altre.
Nella particolare accezione cui avviano le nostre attenzioni il coraggio diviene il sapersi leggere in quella parzialità delle appartenenze di genere e generazione, che ci offre le radici su cui innestare il percorso individuale. Il ‘chi si è’ che cerca di svelarsi a sé e nel mondo, può trovare nelle storie delle comuni appartenenze alcuni dei significati per divenire donna o uomo, risorse per l’invenzione necessaria del proprio essere, che può scoprirsi e rivelarsi nel coraggio e a questo ammaestrare – con l’esempio – chi è più giovane.
Ci vuole coraggio, si diceva, per essere umili.
Il racconto continuo di sé cui autorizza il coraggio, non consente più il muoversi nell’aria rarefatta di ideali e saperi e norme che hanno sciolto i legami col mondo. Il coraggio di essere umili può aiutare a trovare posto nel mondo, disposti e disposte ad accogliere altre parzialità, ad aiutarle nella loro ricerca, pur se differente dalla nostra.
L’umiltà porta con sé rispetto e fiducia nelle persone e nelle cose, capacità di ascoltare voci, che possono apparire anche esili e incerte, se immediatamente confrontate con verità e percorsi orgogliosi di ciò che è stato fatto, detto, pensato.
Consente, l’umiltà, di ritrovare anche l’ironia, che la vita può regalare qualora si apprenda a muoversi tra il proprio essere e ciò e chi è differente da noi e ci svela anche quello che non siamo. “La vita umana è di per sé ironica; dove inizia l’umano inizia l’ironia (…) gioco di specchi tra essere e non essere” .
L’ironia è una virtù ‘leggera’, che segnala le distanze, ma propone anche possibili terreni di incontro. “L’ironia contesta le forme universali, la categoria dell’unicità, gli assoluti della ragione, perché è consapevole della pluralità con cui la realtà si esprime. Una pluralità che si esprime anzitutto nella dualità di maschile e femminile, e che racchiude tratti, gesti, percorsi di libertà differenti. E finchè questi tratti non saranno riconosciuti, la forma più immediata per esprimere la sua libertà e autonomia, sarà il sorriso ironico di chi contesta senza allocuzioni” .
Coraggio e umiltà spianano la via, aprono la possibilità al riconoscimento e alla necessità della dipendenza.
Virtù relazionali ed educative insegnano che la conquista della libertà autentica, anche per le donne che ne hanno fatto esperienza in storie millenarie di minorità, è quella che sa riconoscersi nella dipendenza dagli altri, nell’autonomia personale che sa apprendere a non negarsi nello spazio condiviso con altre soggettività. E la libertà femminile, che un’intera generazione ha inseguito, definito, resa immanente e trascendente all’essere donna, può giocarsi, senza che se ne perda alcuna parte, da altre donne in altre forme, con altre parole e gesti, riconquistando anche lo spazio, e il desiderio, di confrontarsi con l’altro genere. Occorre insegnare – e apprendere – questo gioco vitale tra dipendenza e libertà.
La cura, virtù di attenzione e ascolto, virtù dimessa come l’umiltà, propone, attraverso la qualità della relazione attenta, che dà valore, la possibilità del dirsi delle differenze, che compongono il passaggio tra l’insegnare e l’apprendere.
E vi è infine la virtù che a mio parere tutte le comprende, accogliendole nelle trame della condivisione, che non trova spazio se non nelle emozioni e nei sentimenti positivi: la pietà. Interpreto la pietà, che considero forse la virtù più alta, attraverso i significati che le offre la filosofa Maria Zambrano, collocandola al di là dei sensi più comuni.
Pietà è “forse il sentimento originario, il più ampio e profondo, quasi la patria di tutti gli altri (…) il genere supremo di una classe di sentimenti: i sentimenti amorosi e positivi (…) il sentimento diffuso, gigantesco, che ci situa in modo adeguato tra tutti i piani dell’essere, tra gli esseri più diversi. Pietà è saper trattare con il diverso, con quello che è radicalmente altro da noi (…) Pietà è il sentimento dell’eterogeneità dell’essere, della qualità dell’essere” .
Il sentimento della pietà supera quella che pare essersi imposta, soprattutto nel contemporaneo della cultura occidentale, come una concezione contrattuale delle relazioni umane, in cui le differenze stesse si appiattiscono nella ricerca di un terreno comune, che non è tanto luogo di confronto o dialogo, quanto patteggiamento, regolazione che rende possibile l’incontro tra domanda e offerta e che non apprezza le qualità dell’essere, ma le traduce in quantità.
Pietà non è tolleranza, che riconosce e segna le distanze, non è solo ragione, né solo giustizia poiché, ancora Zambrano, “non si vive di solo pane”, pietà è il sentimento dell’alterità, che ci aiuta a riconoscere, forse indistintamente, forse confusamente, il territorio immenso dell’interiorità, che è dentro di noi e nell’apparire ed essere dell’altro e altra, fuori di noi. Nella difficoltà di accettare l’altro, con la sua fatica di essere e cercarsi, il sentimento che ci soccorre è la pietà, che accoglie tutte le altre virtù: il coraggio, la virtù del nostro diventare noi stessi e l’umiltà che accetta le altrui parzialità, poiché riconosce la nostra, la dipendenza che ci situa nelle trame delle relazioni e ci insegna come la nostra libertà sia intessuta nella rete delle libertà altrui. E la cura, l’opera delle donne, che nel tempo si è fatta cultura e modo di essere, trasmissibile, possibilità anche per l’altro genere.
Le virtù possono aiutare il nostro percorso di comprensione delle differenze e della coscienza di parzialità che ne deriva – ma è una ‘ragione del cuore’, direbbe Maria Zambrano – se noi stessi apprendiamo a viverci come differenti, perché ci insegnano a non riconoscere come privazione di valori ciò che non è immediatamente riconducibile ai nostri, ma ci fa sospendere il giudizio e riflettere come gli stessi valori morali abbiano bisogno anch’essi di radicarsi nel mutamento di vite e di culture che la riconosciuta parzialità della nostra esperienza ci ha insegnato a vedere.
Il contemporaneo, che si è aperto alla grande necessità che impongono le differenze, non meno del passato ha bisogno di principi morali, che siano riferimento e diano senso a scelte e progetti, ma questi principi non si collocano al di fuori e al di sopra delle vite, ma in esse.
Se i grandi temi e contenuti che la razionalità morale ha elaborato in termini di giustizia ed uguaglianza appaiono ormai inadeguati a raccogliere le esperienze delle differenze, a coniugarsi con esse, poiché appaiono astratti e lontani da persone e vite concrete, le virtù di cui abbiamo discusso, ma in particolare la cura e la pietà, ci aiutano a ricollocare il nostro stesso giudizio nel mondo delle esperienze e delle persone, a considerare lo stesso giudizio morale come l’esperienza di una vita che si mette in relazione con altre.
Se la ragione che comprende non appare sufficiente, ci soccorre il sentimento della pietà, la sollecitudine e l’attenzione della cura, il racconto della nostra storia che infinite volte facciamo a noi stessi e che ci rende capaci dell’ascolto delle narrazioni altrui. Allora il sentimento morale diviene scoperta – ancora una volta – delle trame di dipendenza, delle responsabilità reciproche, del riconoscimento di parzialità che non divide, ma avvicina.
Questo riconoscimento aiuta gli uomini ad apprendere i nuovi spazi di libertà che l’accettazione della parzialità apre loro, spazi di apprendimento ed espressione dei sentimenti, della sollecitudine e dell’esperienza della cura, che si sono finora preclusi.
Offre alle donne il riconoscimento di un’autonomia che non le isola dall’altro sesso, ma genera trame di dipendenza che non impone minorità.
Sono le esperienze e le ricerche di queste nuove donne e uomini, sono le interrogazioni nuove, che non sanno pienamente formulare. L’esporci a loro nella nostra riconosciuta parzialità di ricerche individuali e collettive, che hanno segnato generazioni differenti, offre spazio ai loro nuovi progetti, alle necessità nuove che la vita loro impone.
L’assunzione della consapevolezza di parzialità, le virtù che genera, l’etica relazionale che si accosta al corpus di norme, diritti e doveri che regolano il nostro vivere comune, aprono a modi differenti anche di concepire i processi della conoscenza. Quella conoscenza etica, secondo l’espressione di Lèvinas, che si realizza nella misura in cui salvaguarda e difende, poiché sa riconoscersi come parziale, ogni altra alterità.
Si apre dunque un altro capitolo, una nuova epistemologia – ancora largamente da esplorare, ancora largamente inaccettata soprattutto per quanto riguarda alcuni saperi – alla quale però ci avviano e ci obbligano i percorsi della parzialità.

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