Maria era praticante in una clinica psichiatrica. Cominciò a studiare i frenastenici, individuò le responsabilità delle istituzioni e della società nell’esclusione dei bambini «anormali» e finì per denunciare i meccanismi di esclusione che facevano diventare anormali anche i «normali». Da qui nasce il metodo Montessori
Maria Montessori è la prima donna laureata in medicina. Ci ha insegnato, più di cent’anni fa, che dietro l’«anormalità» ci sono ragioni sociali, di classe. E ha inventato un metodo
Stefania Ficacci
E’ imbarazzante scoprire alla mia età di essere stata educata come una bambina deficiente. Il significato letterale di questo termine è «mancante». Sono stata dunque una bambina «mancante di qualcosa»? L’assenza o meno di questo «qualcosa», caratterizza la differenza fra normalità e anormalità. In sostanza, si potrebbe concludere, che essere deficiente significa non essere normale. La straordinarietà che porta con sé l’infanzia è la incapacità dei bambini di cogliere questa «biologica» sfumatura fra la normalità e l’anormalità. Alle prese con un castello di sabbia o una caccia al lombrico non mi sono mai posta il problema.
Positivismo e pazzia
Agli inizi del Novecento l’anormalità ha attirato l’attenzione dei governi nazionali e della comunità scientifica occidentale. Il positivismo, da un lato godeva dei progressi nel campo della psichiatria, dall’altro inorridiva di fronte all’aumento dei ricoverati nei manicomi. I frenastenici, bambini con handicap psicomotori dovuti a carenze di natura «esclusivamente» biologica, degeneravano nelle cliniche psichiatriche, in un isolamento forzato, agonizzando nell’inedia. Una ragazza di poco meno di trent’anni, Maria, fresca di studi in medicina, prestava praticantato nella clinica psichiatrica dell’Università di Roma e aveva, fra i suoi compiti, quello di individuare, fra i degenti dei manicomi cittadini, pazienti idonei al ricovero nella struttura clinica in cui prestava servizio volontario. In una delle sue visite Maria vide, rinchiusi in una stanza, gettati a terra senza far nulla, dei bambini «deficienti» (ovvero mancanti dei normali requisiti biologici), i cui unici eventi nella giornata erano i pasti. Finito di consumare il loro cibo, queste creature si gettavano sul pavimento raccogliendo briciole di pane: con le dita le accarezzavano, le portavano alla bocca. Per essi quelle briciole erano gli unici oggetti di svago presenti nella loro esistenza, mostrando così che la loro mente desiderava impegnarsi in un compito.
L’impegno verso quei bambini «deboli di mente» rapì le sue energie. Sottoposti ad un ambiente che li stimolasse e li sviluppasse intellettualmente e fisicamente, Maria riuscì a far sostenere loro l’esame di stato, non in classi speciali ma insieme ai loro coetanei normali, sottoponendoli alle prove di lettura, scrittura, aritmetica. Qualcuno di loro risultò persino più bravo dei, così detti, «bambini normali». Nel 1897 Maria, durante un Congresso aazionale di medicina svoltosi a Torino, lanciò la sua prima, esplicita accusa, alla società, alle sue strutture economiche, politiche e morali, della quale ella stessa era stata e continuava ad essere vittima. Invitata a pronunciarsi sulle cause della delinquenza minorile, Maria spiegò che il motivo principe risiedeva nella mancanza di cure e di assistenza verso i bambini ritardati e disturbati, da lei identificati come potenzialmente a rischio. L’origine biologica non era la sola responsabile dei problemi psicofisici dei bambini frenastenici; vi erano cause sociali, ambientali e storiche del disagio mentale, dovute soprattutto alle pessime condizioni di vita (situazioni igieniche precarie, miseria fisica e morale). La maggiore responsabilità di questa degenerazione sociale degli individui già, naturalmente, deboli, era la scuola, ossia l’impianto educativo, sia fisico che morale, improntato sul binomio punizione-ricompensa. Gli insegnanti, vittime essi stessi di questo sistema, punivano e castigavano i bambini frenastenici fino a giungere alla espulsione dalla scuola, che aveva come traguardo unico la strada, lo sfruttamento, la prigione o il manicomio. La società, rappresentata dallo stato, tornava ad occuparsi di loro solo quando alcuni finivano per diventare delinquenti. Così spiegava Maria: «Noi con l’opera educativa vorremmo prevenire le conseguenze ultime della degenerazione e della morbilità: se l’antropologia criminale ha saputo nella società moderna trasformare una pena, noi dobbiamo proporci nella scuola futura di trasformare un individuo».
Nacque così Il metodo, non tanto una teoria pedagogica, quanto una pratica educativa, attraverso la quale il bambino frenastenico, sottoposto a stimoli continui e invitato a compiere lavori manuali ed intellettuali, acquisiva competenze professionali attraverso le quali sarebbe divenuto utile a sé ed alla società. Tuttavia, l’interesse di Maria non era solo indirizzato ai bambini con difficoltà mentali. «Mentre tutti ammiravano i progressi dei miei idioti, io cercavo i motivi per cui i bambini sani e felici della scuola pubblica restavano su un piano talmente basso che i miei allievi infelici li uguagliavano nei test d’intelligenza». Maria guardava oltre quel miracolo. Guardava ad una società che non riconosceva come diritto fondamentale dell’individuo la possibilità di realizzare la propria persona mediante le personali capacità. Bisognava cambiare il bambino per trasformare la società. Quel metodo, che si era rivelato così efficace per stimolare «alla vita» i suoi piccoli pazienti, applicato su bambini normali «avrebbe liberato la loro personalità in modo meraviglioso e sorprendente».
Le ragioni di classe
Ma c’era qualcosa in più. Maria aveva colto un’analogia. L’ambiente misero della campagna e della città, lo sfruttamento della classe proletaria, l’ignoranza e l’analfabetismo erano caratteristiche di un ambiente che favoriva la degenerazione fisica e morale anche di bambini normalissimi. E non solo dei bambini. Sì, perché dietro a un bambino sporco, malato, affamato, sfruttato, c’era una famiglia sporca, malata, affamata, sfruttata e, prima fra tutti, una madre. Le cause che facevano degenerare i bambini «anormali» erano le stesse che impedivano uno sviluppo sereno della personalità dei ragazzini «normali». Era la società a essere «deficiente», a giacere in un’ignoranza secolare, costretta a raccogliere briciole, condannata all’inedia.
Maria, nata a Chiaravalle, nella provincia anconetana, il 31 agosto 1870, è stata la prima donna in Italia a conseguire la laurea in Medicina, subendo l’ostilità degli uomini verso una donna così audace da sfidare persino le leggi scientifiche, che avvaloravano la tesi dell’inferiorità biologica del sesso femminile: era come se «essere donne» ed «essere deficienti», all’epoca, fosse la stessa cosa. Per questo la scuola di Maria si basò, prima di tutto, su una rivoluzione sessuale: maschi e femmine lavoravano insieme, svolgevano gli stessi compiti, si sottoponevano agli stessi esercizi fisici e intellettuali, imparavano le stesse cose. Le classi separate, abolite in Italia solo negli anni Settanta del XX secolo, per Maria erano la proiezione della futura società. Sui banchi di scuola s’imparava la violenza, la fobia per il diverso, la negazione della propria personalità, la legge della punizione e del castigo.
Da perseguitata, Maria abbracciò con entusiasmo la causa femminista che stava nascendo sulla fine del XIX secolo. Scagliandosi contro la sentenza «emessa nel nome della scienza: che la donna è biologicamente, cioè totalmente inferiore, che il volume del suo cervello è destinato da natura a una inferiorità contro la quale nulla si può», Maria intuì che l’emancipazione femminile avrebbe potuto realizzarsi attraverso una nuova «pedagogia della diversità».
La donna doveva assumersi compiti pubblici, doveva entrare nella società ribadendo il proprio ruolo, la propria identità, il proprio pensiero.«È finito il tempo in cui la donna era passiva, in cui bastava ch’ella non facesse il male, in cui ogni sua virtù importava una negazione: sii ignorante della vita; non ti occupare della cosa pubblica; non lavorare; non ti prendere responsabilità pei figliuoli; non ti occupare dell’amministrazione dei beni; sii passiva, annichila la tua volontà a favore del marito; non vivere per altro che per lui, ma senza occuparti di comprenderlo; pensa solo a non fare il male, e il male consiste nel non fare ciò che piace al marito. Dal così opprimente negativismo la donna si è scossa ed è passata al moto e all’azione “Lavora! fa’ il bene!”».
Il femminismo, quello politico, la prese con sé e, nel 1899, fu rappresentante delle donne Italiane a Londra. Poco fiduciosa della politica, credeva nell’importanza della scienza nella lotta contro l’ignoranza, specie riguardo alla sessualità. L’educazione sessuale, che tentò di far introdurre nella riforma Gentile chiedendo sostegno a un imbarazzato Mussolini, era lo strumento di prevenzione delle malattie di origine biologica, nonché un valido aiuto nell’affermazione della libertà della donna: «Non solo sarà libera nella scelta dell’uomo; ma diverrà anche la vera compagna di lui, la collaboratrice, l’amica, la sorella sociale». Pur battendosi per la «conquista dell’indipendenza economica» delle donne e per «l’esperienza e la coscienza conquistate nelle lotte sociali», temeva che la politicizzazione del movimento rompesse la necessaria unità che le donne sapevano mostrare di fronte alla lotta. Fedele alle sue idee sul lavoro, lo fu anche nella vita. Maria non si sposò e nascose al mondo il figlio avuto dal suo amato compagno.
La cartella arancione
Avevo appena tre anni e una cartella arancione che era la fine del mondo. Stranamente mi piaceva l’asilo. Ogni mattina sui banchi di fòrmica trovavo dei cesti con delle costruzioni: mattoncini, cilindri, forme non identificate, sempre quotidianamente diverse. Prima però timbravo il mio cartellino: un piccolo quadrato di cartone sul quale erano disegnate due ciliegie. Riponevo il cappotto nel mio armadietto ed entravo. A ricreazione giocavo in colorate casette su misura sparse nel grande parco: maschi e femmine, senza distinzione, curavano la loro casa, andavano a fare la spesa, giocavano a «fare la famiglia». Solo poco tempo fa ho scoperto di essere stata educata secondo il metodo Montessori. All’improvviso sentii il forte legame che mi univa a quella donna raffigurata sulle vecchie, amate, mille lire. Forse ho capito perché odio così tanto l’euro: la lira mi ricordava l’infanzia.
Maria Montessori è stata una donna pratica. C’era qualcosa in lei che la spingeva a credere che solo l’esperienza, l’immissione nel circuito di stimoli nuovi, diversi da quelli tradizionali, potesse cambiare il sistema, proprio come era accaduto ai suoi amati bambini. Maria è stata soprattutto una donna e come tale ha subìto l’ostracismo della diversità. Da diversa ha sperato di cambiare la società.
Oggi la scuola italiana ha adottato il metodo Montessori, anche se, mi sembra, ancora solo parzialmente. I bambini imparano insieme alle bambine, è tollerato sporcarsi il grembiule di tempera e si incoraggiano i piccoli a esprimere le loro emozioni attraverso l’arte: si dipinge, si canta, si balla. Quel che più fa bene al cuore è vedere le classi piene di ragazzini di ogni razza, di ogni religione, giocare insieme. Non mancano bambini down, autistici o con problemi psicomotori. Eppure, c’è ancora chi vorrebbe le classi «sessualmente» separate, per non parlare di tanta, dilagante, xenofobia.
Maria Montessori ci ha insegnato che la diversità è quello stimolo che può cambiare la società, che può farla progredire in meglio. E questo è un compito assegnato soprattutto alle donne, alle quali ha insegnato che solo l’unità delle idee e delle energie può distruggere i pregiudizi sul sesso, sulla morale e sulla libera espressione del proprio pensiero. Una lezione che la nostra classe dirigente e, a volte, il femminismo stesso, dovrebbero ricordare un po’ più spesso.