27 Aprile 2004
Micromega n°2/04

Diritto ad una scuola che assomigli al mondo

Parla Retescuole: la maestra, la mamma, il prof
Antonella Loconsolo, Patrizia Quartieri, Michele Cors

Nel mondo ci sono le terre ed i cieli
Non sono divisi in scaffali
Nel mondo ci sono le fiabe e le arti
Non sono divise in reparti
Nel mondo c’è un nido, che è la tua classe
Uscendo non trovi le casse
Nel mondo ci sono maestri un po’ maghi
Ci sono, non solo se paghi
Nel mondo il sapere che vuoi si conquista
Nel supermercato si acquista
E allora rispondi con una parola
Com’è che la vuoi la tua scuola?

Bruno Tognolini da Scrittori per la scuola di tutti (www.sestocircoloquartu.it/scrittoriperlascuoladitutti.htm)

Non è possibile raccontare l’esperienza di ReteScuole e contemporaneamente farvi comprendere cos’è.
Per raccontare è necessario usare la razionalità del cronista, per comprendere l’affettività delle relazioni. Non abbiamo lo spazio per fare entrambe le cose quindi scegliamo quella cui più teniamo, e lo faremo con una scrittura collettiva, come collettiva e condivisa è stata la nostra esperienza fino ad oggi.

La maestra
Insegnante di scuola elementare per scelta e per passione, accompagnare nella crescita le nuove generazioni ha dato senso al mio lavoro di ogni giorno, connotandolo come un privilegio e una responsabilità non concesse a tutti. Vivo questa avventura umana quotidiana arricchendomi di esperienze, di saperi, di vissuti, di emozioni che diventano patrimonio spendibile nel farsi confronto continuo con l’altro. Alunni, genitori, colleghi, territorio.
Anche per questo ho sempre cercato e sostenuto il rapporto con le famiglie dei miei alunni.
Anche per questo.
Oggi non è più così: la grande alleanza che si è stabilita tra genitori e insegnanti supera il farsi carico comune del processo formativo di un bambino. Assume dimensioni che oltrepassano la professionalità specifica delineata da ruoli e compiti. Una cittadinanza comune, genitori e insegnanti si è fatta strada tra i macigni della riforma.
Ritrovo nella partecipazione al movimento il senso del mio essere persona, cittadino, educatore.
La consapevolezza di agire per il bene dei figli miei e degli altri mi indica strade di determinazione, di impegno, di volontà, strade che incontrano a volte la solitudine, l’ostruzionismo, l’indifferenza ma sempre più spesso si aprono in piazze di condivisione, di partecipazione, di confronto. In quelle piazze s’incontra la voglia sopita di fare, di stare con altri a pensare, di dar voce a valori poco esibiti, ma che oggi reclamano di essere urlati.
A novembre, per dar voce ad un malessere che sentivo salire dentro di me e ritrovavo nelle battute tra colleghi, ho chiesto di realizzare, nel plesso in cui lavoro, una serata informativa aperta a genitori e insegnanti che si ponesse come obiettivo null’altro che stimolare una riflessione su questa riforma così lontana dalla scuola, al punto da essere quasi del tutto sconosciuta; era già nell’aria, ma se ne stava lì in qualche circolare, tra un articolo isolato di qualche giornale e, per molti di noi, non aveva ancora una fisionomia riconoscibile. Quella sera di novembre, è stata un gran sera. L’auditorium della scuola era pieno, pieno di genitori, più che di insegnanti.
Qualche dubbio su come si sarebbe svolta la serata mi accompagnava: non conoscevo a fondo le due relatrici di ReteScuole che con il Dirigente avrebbero condotto l’incontro. E invece, con un susseguirsi di domande sempre più mirate, con interventi sempre più incisivi è esplosa la voglia di saperne di più, il bisogno di ritrovarsi, di confrontarsi, di riflettere. Finalmente di pensare, di pensare alla scuola, che non è solo quella del proprio figlio o dei propri alunni, ma alla scuola come bene della polis, alla scuola che corre il pericolo di diventare altro, di non essere più scuola di tutti e per tutti. Così con spirito nuovo, anche fra colleghi, con un parlarsi ormai avviato, si sono cercate e costruite le occasioni per saperne di più, per confrontarsi con altre realtà, per diventare parte attiva. Un seminario del Cidi al quale alcuni di noi hanno partecipato è servito per allargare lo spazio della riflessione. Le perplessità, le prese di posizione, le critiche mosse da studiosi, esperti, organismi istituzionali dal CNPI all’ANCI, hanno dato valenza di verità ai nostri dubbi, alle nostre supposizioni più nere. Le battute tra colleghi sono diventate conversazioni, confronti, discussioni e hanno portato a rifiutare in massa le agende che il Ministro ci ha gentilmente fatto pervenire poco prima di Natale. Questo piccolo gesto si è rivelato invece molto importante, ha di fatto permesso di contarci, di dirci che eravamo in tanti a sentirci a disagio nel vederci recapitare qualcosa di non richiesto e che trasudava mera pubblicità. Proprio in quel periodo, abbiamo avuto la conferma definitiva che il numero degli insegnanti destinati ad aiutare l’inserimento dei bambini stranieri passava da tre a uno.
Ovvie le considerazioni in merito. Una mozione unitaria del Collegio Docenti in difesa del tempo pieno e della scuola pubblica ha sancito il nostro no, come insegnanti, alla riforma. Due genitori, del resto è sempre così, all’inizio, solo due genitori “normali” non militanti, non politicizzati, due genitori normali hanno avuto il coraggio, il grande coraggio di credere che quella sera tanti, anche se silenziosi, partecipavano alla costruzione di un discorso che aveva bisogno solo trovare il suo incipit.
Così i passa parola, i caffè bevuti insieme dopo aver accompagnato i bambini a scuola, il dialogo riavviato con i propri insegnanti, le domeniche passate a stampar volantini a preparare assemblee, hanno tessuto una rete che è riuscita ad abbracciare tutta la scuola.
Anche noi insegnanti ci siamo rimaste impigliate, anche noi abbiamo sentito il bisogno esserne parte perché non avesse buchi quella rete e diventasse sempre più resistente. Certo non tutti gli insegnanti, non tutti i genitori ne sono ancora parte attiva, ma l’espandersi continuo della partecipazione mi può solo far ben sperare.
Al primo Forum delle scuole di Milano, ho capito che si stava realizzando un senso , un sentire comune senza legami di appartenenza partitica, sindacale, un sentire forte e unitario, nel quale chi prendeva la parola non si presentava come genitore o insegnante, ma cittadino portavoce di una zona della città. In gennaio, ci siamo ritrovati in tanti in piazza della Scala a chiedere al Comune di farsi interprete delle nostre richieste. Facendo parte della delegazione che è stata ricevuta ho potuto constatare di persona quanta poca attenzione c’è, da parte di chi ci governa, per i problemi dei propri cittadini.
” ma come, insegnanti e genitori insieme???”
è stato il commento stupito di un consigliere comunale.
Nessuna domanda sul perché questi due mondi si fondevano in uno.
Peccato, peccato davvero che Milano, nei suoi rappresentanti, per primo il sindaco, non abbia ritenuto di ascoltare, facendola propria, l’esigenza che l’85% dei suoi cittadini che frequenta la scuola elementare, gli ha manifestato.
E sì, sono proprio tanti i bambini che a Milano frequentano il Tempo pieno. I loro genitori sono elettori di destra e di sinistra, sono del centro e della periferia… Queste porte chiuse in faccia non ci hanno demotivato. Così come non ci ha demotivato il silenzio di stampa e giornali, le frammentazioni dei sindacati, le deboli prese di posizione dei partiti. Siamo andati avanti, ci siamo incontrati sempre più numerosi, senza sigle, senza bandiere. Se una bandiera ci sarà, sarà la nostra.
Sono nati i comitati in quasi tutte le scuole elementari di Milano, ogni zona ha creato un suo coordinamento; internet e la forza di andare avanti hanno fatto il resto.
ReteScuole da luogo virtuale si è trasformato in una valanga umana che ha attraversato festosamente Milano il giorno di san Valentino.
Finalmente ci siamo guardati in faccia, noi 40 000 persone con nel cuore la nostra scuola.
Abbiamo camminato fianco a fianco in una giornata di sole.
Eravamo emozionati, sì io mi sono commossa quando ho visto la piazza del Duomo della mia città che brillava di persone normali, di gente comune, di uomini, donne, bambini contenti di stare insieme per un oggi e un domani condivisibile.
Il decreto attuativo è comparso sulla G.U. e i comitati sono sempre più numerosi, ora ci sono anche le scuole medie, fanno capolino le superiori. L’università protesta.
Io continuo a rileggere Don Milani.

La mamma
Quel sabato 14 febbraio, alla manifestazione di affetto per la scuola pubblica, mi guardavo intorno e non mi sembrava vero. Un mare di persone, belle, colorate, solidali, che avevano scelto di occuparsi della scuola. Abbiamo una straordinaria organizzazione? Ci piacerebbe darlo a intendere: invece, semplicemente, è accaduto.
Non è una cosa da poco: di questi tempi della scuola non si occupa nessuno. Non se ne occupano le Provincie e i comuni, Milano in testa, che lasciano che le scuole cadano a pezzi, prive dei più elementari criteri di sicurezza, inadeguate, fatiscenti.
Non se ne occupa la Regione, almeno così è in Lombardia, che le priva con una legge, la legge regionale n° 12, anche dei più elementari presidi sanitari.
Ed ora lo Stato dà il colpo di grazia, con una riforma che riforma non è, trattandosi in realtà di un taglio gigantesco a spese e risorse, condito in una salsa di affermazioni di principio melense e vuote, quando non addirittura inquietanti.
Questi genitori se ne occupavano eccome: sono entrati nelle scuole, senza permesso, senza dirigenti politici o sindacali, senza coperture, e senza, da parte nostra, confessiamolo, indicazioni molto precise. Hanno cominciato un’occupazione “illegale” divertendosi parecchio a costruire striscioni, cartelloni, strumenti musicali per la manifestazione del giorno dopo, insieme a maestre e bambine e bambini. In tante scuole hanno portato da mangiare e da bere, in alcune hanno tirato fuori il sacco a pelo e, sembra, siano quelli che si sono divertiti di più. Il giorno dopo c’era chi trascinava (stile schiavo egizio addetto alla costruzione delle Piramidi) un Pinocchio gigantesco, in equilibrio precario sul pavé, c’erano nonni con il naso da Pinocchio e famiglie intere con i cappelli da asino. 12.000 spillette pungi-Moratti, con la scritta “No alla riforma” luccicavano sui cappotti, mentre i 38 000 che non ce l’avevano continuavano a chiedere chi le vendesse.
Tutti ingannati dalle nostre menzogne, come sosterrà poi il sottosegretario Valentina Aprea sul TG1? Ma allora saremmo dei maghi della comunicazione, se si tiene conto dei nostri potenti mezzi, cioè un sito, www.retescuole.net, qualche volantino fotocopiato di sfroso negli uffici e tante chiacchiere fuori dai cancelli, in attesa dei figli.
Il problema è che ciò che diciamo noi ha il sapore della verità, mentre le brossure patinate della ministra, piene di fotografie di bambini rigorosamente bianchi e assolutamente sani, fanno squillare nei genitori un sinistro campanello d’allarme.
Se fosse una buona riforma infatti, non avrebbe bisogno di alcun lancio pubblicitario. Forse la ministra non se ne rende conto, ma ognuno di quei libretti che troviamo in Topolino, Io donna, Venerdì di Repubblica, fanno montare la nostra rabbia. Ma come, si buttano via i soldi così e noi mandiamo i figli a scuola con il rotolo della carta igienica nello zaino, perché il bilancio della scuola ormai non consente più nessun acquisto? Ma come, si fanno spot televisivi “La scuola cresce, proprio come te” e poi la direttrice manda un invito all’Associazione genitori di fare tante feste, perché abbiamo alcuni insegnanti gravemente ammalati e non si sa più come fare a pagare tutti i supplenti?
Noi genitori sentiamo ogni momento di più puzza di bruciato: è come vedere la televendita dello scioglipancia di Wanna Marchi: qualcuno ci casca, e compra il “pacco”, ma altri fanno partire la denuncia al movimento consumatori. Noi, genitori di ReteScuole, siamo di quelli che il “pacco” non lo comprano, e continueremo ad avvertire gli altri genitori, affinché non ci caschino nemmeno loro. Siamo anche noi fanatici delle tre “I”: internet è diventato il pane quotidiano anche di chi non sapeva nemmeno come si accende un computer. L’impresa l’abbiamo costituita per produrre e diffondere spille, bandiere, volantini e, pur senza copyright sforniamo canzoni, slogan e messaggi e poesie a ritmo serrato. Quanto all’inglese, in effetti, ci è stato utile. Ciascuno di noi ha scritto in un angolo del suo cuore la frase che Don Milani aveva impresso sul muro della sua scuola: “I care”, mi prendo cura. Il contrario di “me ne frego”, insomma. Letizia, mi dispiace, per te saranno cavoli amari.

Il prof
Lavoro alle superiori e, diciamolo, noi delle superiori abbiamo sempre nutrito un certo complesso di superiorità verso le “maestrine” del tempo pieno. “Eccesso di mammismo”, “troppi bacini”, tutta quella concentrazione di donne: maestre, mamme, bidelle… Mah! Che fossero in fondo alla tabella delle retribuzioni salariali della scuola, non ci è mai parsa una gran ingiustizia. Poi in tanti, davvero tanti, abbiamo cominciato ad osservarle più da vicino, queste “maestrine”. Per ragioni generazionali, perché i figli che sono andati alle elementari ormai ce li abbiamo avuti quasi tutti. E poi, certo, anche il movimento, i movimenti, che hanno attraversato in questi anni la scuola del milanese, e, immagino, non solo quella milanese: e così abbiamo conosciuto la loro tranquilla radicalità, la loro distanza dai riti della protesta classica e l’attaccamento alla pratica, l’orgogliosa rivendicazione di un fare scuola fondato sulla relazione. Non potremmo mai comprendere il successo della mobilitazione senza capire che si tratta di una scuola “popolare”: le feste di fine anno sono “gli eventi” del quartiere, molto di più di qualsiasi festa di partito o processione parrocchiale.
Le maestre del tempo pieno hanno influenzato molto questo movimento.
I movimenti hanno una loro genealogia nella scuola. Da dieci anni a questa parte ve ne sono stati quattro nel milanese, ogni volta si sgonfiavano sedimentando un gruppetto che poi portava la sua esperienza a un nuovo movimento: e il primo è stato il coordinamento a difesa del tempo pieno, e le sue modalità organizzative, molto femminili, per nulla gerarchizzate, poco legate alle identità extrascolastiche, hanno segnato anche gli altri movimenti e il “basismo” che li ha caratterizzati. Anche la maniera di proporre il materiale, è molto stile “tempo pieno”. Il nostro sito assomiglia a quelle scuole elementari dove uno entra e trova tutte le pareti tappezzate dei lavori delle bambine e dei bambini: non c’è una gara, chi fa appende. Così il sito non produce in proprio se non pochi materiali: i più sono delle singole scuole che inviano un volantino, una serie di slides, un opuscolo, una spilletta… e i “lavori” vengono “appesi” nel sito, chi vuole li può prendere, copiare, trasformare… Anche la comunicazione ha molto da “maestra”: i materiali sono chiari, concisi, con una costante attenzione alla presentazione piacevole all’occhio, ed anche alla precisione sui contenuti. Non si esagera, non si fa retorica, non si dicono cose non verificabili. Con quella abitudine a dire le cose e poi a farle, quando noi delle superiori siamo abituati a dire dire dire. Insomma, un movimento che “assomiglia” alla parte migliore della scuola che vuol difendere.

Sì, lo sappiamo. Non è tutto così il tempo pieno e più in generale non è così la scuola italiana. Se c’è una cosa che non perdoneremo mai alla Moratti, ma anche al centrosinistra, nel suo periodo di delirio pedagogico, è quello di averci stretto nell’angolino della difesa di quel che c’è. Di averci fatto perdere la voglia di ragionare su noi stessi, di criticarci, di litigare tra noi, di sperimentare senza tema che qualcuno ne potesse approfittare per smantellare un altro pezzetto di scuola. Avremmo voglia di smarcarci, di dire e dirci a questi genitori e agli studenti che lottano con noi: “lo sappiamo che potrebbe essere meglio, che noi potremmo essere meglio”. Ma c’è sempre una nuova circolare o l’attuazione di un decreto che ci ricorda che esiste sempre qualcosa di terribilmente peggio all’esistente, e che urge una risposta prima di… E che fatica, una fatica che si aggiunge alla fatica dell’insegnare, mantenere desta una vigilanza che sembra senza fine. Perché il peggio che ci impedisce di pensare al meglio si insinua in maniera sottile nella nostra mente, anche senza che un decreto attuativo l’abbia deciso. Pensate al ruolo che sta svolgendo il programma per computer che gestisce oggi tanti consigli di classe: nei giorni precedenti lo scrutinio gli insegnanti digitano i loro voti, poi quando si riunisce il “consiglio di classe” si attiva il proiettore che mostra una dietro l’altra le schermate di ogni allievo: 7, 6, 7, 5, 4 … I consigli di classe la Moratti li vuole eliminare (ma voleva farlo anche Berlinguer) perché gli insegnanti è sufficiente che “consegnino” il loro voto, poi si somma… e il gioco è fatto. Le vecchie discussioni collettive, le battaglie tra le varie frazioni del consiglio, le lotte per “salvare” qualcuno perché sì, in fondo, perché la famiglia… via via via tutto. Ma il proiettore lo fa senza decreto. C’è un sottile appello al lato oscuro dell’insegnante: perché perdere tre ore di consiglio di classe, quando me la posso cavare in mezzora? Ed ecco materializzarsi il proiettore, non il decreto attuativo: il proiettore. Capite in che forme sottili dovrebbe articolarsi la nostra resistenza al peggio che avanza? Dovrebbe, ad esempio, cominciare col sabotaggio del proiettore.

Sì perché c’è un lato oscuro dell’insegnante. Ci sono interi sistemi didattici basati sul lato oscuro dell’insegnante. Pensate al Giappone. Uno legge le statistiche: media di allievi per classe: 50/60. E uno pensa: ma come fanno? Se nelle superiori quando ci troviamo una prima di 30 ragazzini scalmanati siamo esauriti dopo mezzora di lezione! Poi leggiamo la statistica a fianco: record assoluto dei suicidi scolastici: Giappone. E allora capiamo. Capiamo che in Giappone c’è un sistema scolastico dove i nostri colleghi sono i kapò dell’educazione, dove regna il terrore in classe, dove la scuola non raccoglie il dolore del mondo: lo produce. Non facciamo fatica ad immaginare una scuola così: non era la scuola dei democristiani, quando eravamo piccoli noi: non ci piaceva, ma siamo sopravvissuti. Era quella dei nostri genitori, la scuola del fascismo, quella che pure, aveva 50/60 allievi per classe. I nostri genitori ce ne parlano a volte con nostalgia, spesso in polemica con il “lassimo” della scuola di oggi, con lo stesso spirito con cui un adulto maltrattato da piccolo tesse le lodi della sua educazione “dura ma giusta”: quando chiediamo loro qualcosa sulle forme e i contenuti dell’insegnamento dei maestri dell’epoca abbiamo risposte sfocate, vaghe, incerte, al massimo qualche rima… Invece i ricordi netti, immediati, quelli che balzano vivissimi ai loro e ai nostri occhi, come cosa dell’altro ieri, riguardano i segni che sui loro corpi venivano inflitti da quella scuola. E quando ce ne parlano notiamo che ricordano i loro insegnanti solo per questo, distinguendoli per il tipo di punizione che prediligevano: quello tirava le orecchie, quell’altra ti metteva in ginocchio sulle noci, quell’altro là dava bacchettate proprio sulle nocche e un’altra ancora gridava così tanto che la sentivano anche dall’altra parte del paese… Una scuola di terrore, fonte di dolore. Una scuola fondata sul nostro lato oscuro.

A questo lato oscuro fa appello la Moratti. Perché, pensiamoci bene: a noi insegnanti di ruolo, in fondo in fondo, andrebbero bene tante cose che dice o pensa o fa la ministra. Non ci sono più i consigli di classe: fantastico, si torna prima a casa, e se eliminassero anche i collegi sarebbe una meraviglia. Tutte quelle valutazioni scritte che non se ne può più: si torna ai numeri, ai santi numeri, era ora! E poi il messaggio subliminale: quelli che in classe ti danno fastidio, quelli che ti fanno perdere un sacco di tempo, quelli che “non hanno voglia”, via via: secondo canale! Non stanno nemmeno lì? Via via: a lavorare, che poi ti certifico, basta che stai alla larga. Voi capite che in una situazione sociale dove la gente sta male, e sta sempre peggio, l’ultimo anello della trasmissione della sofferenza sono i bambini e le bambine, ma poi più si va avanti con l’età e più è peggio. Perché il dolore si accumula, specie ora che i giovani hanno meno parole per nominare la loro sofferenza, e allora ci distruggono i banchi e cercano di mandarci in manicomio. E in questa situazione la Moratti si avvicina invisibile alle nostre orecchie e mormora soavi parole al nostro lato oscuro: ma non sarebbe più facile bocciare, così senza tante storie, senza domande, senza complessi di colpa? Non sarebbe più semplice dirgliene di ogni a quei genitori, ribaltare loro addosso tutte le tue insoddisfazioni, la tua fatica, distogliere il tuo sguardo dal loro quando ti chiedono quasi imploranti di parlargli bene di suo figlio, di non aggiungere alla loro fatica anche questa, la fatica della scuola, e ci sono queste due fatiche che si affrontano… e una vuole essere più fatica dell’altra… E abbiamo questa possibilità, come insegnanti, possiamo “scaricare” su studenti e genitori. Perché in questo triangolo il potere è nostro. Anche se in realtà siamo i portatori di un potere altro. Possiamo odiarli, e stare meglio. La Moratti bisbiglia ai nostri orecchi che c’è una strada, quella di guardare gli occhi dei nostri studenti e di scorgervi quelli dei nostri avversari.

Noi invece diciamo: distogliamo quello sguardo, guardiamo fuori, gli avversari sono fuori di qui. E qui sta il valore del movimento che stiamo vivendo. Forse finirà domani, forse no, ma intanto ce lo godiamo. Ci sono tre soggetti sociali che una scuola fondata sul lato oscuro dell’insegnante, sulla pedagogia nera, la scuola della sofferenza, sono avversari accaniti: gli insegnanti che comandano ma in realtà sono comandati, i genitori che “non devono impicciarsi” e gli studenti che devono obbedire. Ma adesso, grazie Moratti (!), adesso si trovano insieme, e fanno scuola, nel senso più alto del termine. Che immensa lezione pedagogica quella della manifestazione del 14! Una manifestazione senza lotta per la testa del corteo, senza striscioni che richiamano altre identità che non siano quelle della scuola, senza battaglie per vedere chi parla in piazza, senza nessuno che sappia in realtà che diavolo sia questa ReteScuole e nemmeno il nome di un qualche “dirigente”. In compenso: una quantità incredibile di colori, bandiere, maschere, giochi, fischi e musiche. Nel comunicato che abbiamo poi scritto dicevamo che da quel momento il governo non avrebbe più potuto attaccarci perché strumentalizziamo i bambini: è stato troppo evidente che al contrario sono stati i bambini e i loro gusti estetici e le loro modalità di relazionarsi con il mondo a dare il tono di quella manifestazione. E i potenziali avversari si sono ritrovati insieme non più divisi dai muretti dei consigli di classe “aperti”, o di consigli di circolo che non decidono nulla, fuori dai “colloqui”, saltati gli argini, a dilagare sulla strada.

E poi si sono aggiunti anche gli studenti dei collettivi, le scuole superiori, le scuole più difficili, dove si boccia, dove ci sarebbero tante cose da cambiare, se solo ci lasciassero in pace per qualche anno. Ci hanno scritto una lettera, gli studenti. Erano deliziati alla prospettiva di vederci “occupare” come fanno loro, e “disobbedire”. Si firmavano con “da un luogo indifferente, Italia, Europa, Pianeta Terra studenti ribelli e disobbedienti contro l’impero globale” o qualcosa del genere. Capite che già nella firma c’è un messaggio implicito: è una lettera diretta ai loro genitori, ai loro prof, a quelli che li tengono sotto, che li bastonano e che sono, in generale, un po’ più moderatini… avrebbero potuto pure firmarsi “studenti” e basta. Glielo diciamo sempre: occhio a chi parlate… Invece loro firmandosi così ci dicevano senza scriverlo: noi siamo questo, ci dovete accettare, vogliamo comunicare, stabilire una relazione, non ci interessa “mediare”, perché tra soggetti sociali diversi che vogliono allearsi, non si media, ci si incontra oppure no. Abbiamo risposto con una lettera tutta politica, politicamente lucida come una piastrella bianca del bagno di casa: il nostro ragionamento era semplice, classico, adulto. Più gente c’è contro la Moratti, meglio è, studenti insegnanti genitori uniti nella lotta… ecc. ecc. ecc. Non avevamo capito nulla. E ce ne siamo accorti quando abbiamo visto con che soddisfazione avessero accolto la nostra risposta, non per il contenuto, ma per il fatto che avevamo risposto. Che li avevamo considerati “soggetto”. E quindi ci hanno subito mandato una seconda lettera, che in realtà è quasi identica alla prima e ignora, giustamente, la nostra risposta, ma solo perché i contenuti “politici” non c’entrano, c’entra solo il fatto che “ci scriviamo”. Uno di loro mi ha detto che vorrebbe alla fine che ci fosse tra noi un “epistolario”. Che ci scambiassimo un sacco di lettere. Ora però che abbiamo capito cosa c’è in gioco, per noi è difficile scrivere la seconda lettera. Perché in gioco c’è un impegno enorme, per noi. Perché non c’entra più la politica nel suo senso tattico, c’entra la scuola come luogo dove “stanno” diversi soggetti. C’entra la “possibilità” di una scuola fondata sulla relazione, tra il nostro lato chiaro di genitori, di insegnanti, di adulti, e quelli che vorremmo “educare”. Una possibilità che oggi noi vediamo in maniera appannata, perché non può esistere il progetto di scuola diversa, senza progetto politico. Ed è quest’ultimo che si è appannato.

I bambini del tempo pieno che ci “educano” a una diversa maniera di manifestare, e i ragazzi dei collettivi che vogliono allearsi con noi, quando altri come noi li sospendono per una settimana per punirli delle loro occupazioni, vedono meglio di noi la “possibilità”, cioé la scuola possibile, la pedagogia possibile, la relazione possibile tra “sguardi diversi” e, quindi, la resistenza possibile. Speriamo che vedano giusto e che, a partire da lì, da qualche luogo indifferente del pianeta scuola, ci si cominci a scrivere tantissime lettere.

La cronaca della storia di ReteScuole la potrete leggere se ne avrete voglia qui: http://www.retescuole.net/download/retescuole.rtf

Print Friendly, PDF & Email