14 Giugno 2006

Donne d’Africa: un nuovo inizio – La volontaria, la missionaria e l’imprenditrice – da L’Avvenire

Triennale di Milano, Salone d’onore, Viale Alemagna 6
Mercoledì 14 giugno 2006, dalle 9.30 alle 13.00 – dalle 14.30 alle 17.00
Ingresso libero

 

Violenze domestiche, abusi e vessazioni psicologiche. Sono le piaghe contro cui combatte tutti i giorni Yvonne Barthies, 50 anni, volontaria 24 ore su 24 nella baraccopoli di Filippi, a Cape Town. La metropoli sudafricana conta ormai 1 milione di persone che vivono nelle township, insediamenti informali che si sono allargati a dismisura negli ultimi dieci anni. E l’anello debole, nei contesti più degradati, sono le donne. Yvonne lavora nella stazione della polizia locale, che ha adibito una “stanza dei traumi” a supporto delle donne vittime di molestie e abusi. “Nelle comunità più svantaggiate la violenza domestica è come un ombrello che copre tutto, tante forme di violenza: verbale, fisica, economica, psicologica” afferma. “Le donne qui sono ben lontane dal poter affermare sé stesse o scegliere di realizzare i propri desideri”. La disoccupazione nelle towship arriva a punte dell’80 per cento. C’è molto machismo e la frustrazione diffusa non fa che alzare il livello della violenza. “Noi spieghiamo alle donne i propri diritti, le ascoltiamo e disponiamo la loro protezione attraverso il tribunale” spiega Yvonne. “Ma puoi rompere il cerchio dell’abuso solo quando si rompe il silenzio e bisogna dare alle donne gli strumenti per farlo. Dal governo non arriva nessun aiuto. Spesso sono le organizzazioni private a sostenere economicamente i progetti, ma non è sufficiente a garantire l’indipendenza di queste donne. Quando i soldi finiscono devono tornare a chiederne al marito, per poter sfamare sé stesse e i figli”.

 

“Le donne devono essere in prima linea e imparare a difendersi dal contagio dell’Hiv. In Zimbabwe il 57% dei malati sono donne. Ma i primi a richiedere la terapia sono gli uomini, perché hanno più soldi e meno censure”. Missionaria e medico, Elisabeth Tarira, 55 anni, è direttrice dell’ospedale Saint Albert di Centenary, un distretto rurale nel nord dello Zimbabwe, da cui è partita la campagna per l’interruzione della trasmissione del virus dell’Hiv da mamma a bambino, sostenuta in Italia dall’organizzazione Cesvi di Bergamo. “Il programma è efficace, ma dopo aver interrotto la trasmissione del virus è necessario curare anche tutte le madri, se non vogliamo creare una generazione di orfani”. L’accesso ai farmaci è il problema con cui la dottoressa zimbabwana si scontra tutti i giorni. “In base a cosa dovrei scegliere a chi salvare la vita?” chiede. “Per combattere l’Aids abbiamo a disposizione un numero limitato di antiretrovirali. Ogni giorno qualcuno bussa alla mia porta e mi dice: “quando mi dai quella pastiglia che dai a quella persona che adesso sta bene?”. È una cosa che ti rode dentro. Noi non siamo a capo delle aziende farmaceutiche, dobbiamo andare avanti, e fare quello che possiamo. Ma questa sofferenza ce l’ho qui, nella gola, tutti i giorni”. L’ospedale Saint Albert, in mezzo alla savana, ha farmaci antiretrovirali sufficienti per 300 pazienti. Ma la lista d’attesa è di 3000 persone. “Le donne sono più esposte al virus soprattutto per motivi culturali: violenze domestiche, sottomissione a mariti che troppo spesso le utilizzano come oggetti sessuali”, spiega la dottoressa Tarira. “Incontriamo casi di coppie in cui il marito compra i farmaci anti-Aids senza dirlo alla moglie, anch’essa ammalata. Per questo abbiamo deciso di sostenere le donne”.

 

La pace può passare anche attraverso il business. Ne è convinta Mariam Ga’al, 52 anni. La sua professione suona come una sfida: imprenditrice a Mogadiscio. È in Italia per una conferenza, mentre nella capitale della Somalia si spara, le corti islamiche contro i signori della guerra. Laureata in biologia, un master in Business Administration e una pluridecennale esperienza in gestione di programmi di sviluppo, Mariam Ga’al è alla dirigenza di Swea (Shebeli women entrepreneurs association), un network di cinque associazioni di donne imprenditrici con sede in altrettante province della Somalia: nelle città di Beletweyn, Jowhar, Mogadiscio, Afgoye, Merka. “Il 75% delle famiglie in Somalia è matriarcale. L’uomo, il ragazzo, ha in mano un fucile. Le donne hanno mandato avanti le famiglie in questi anni di anarchia e di guerra. All’inizio erano analfabete, poi hanno raggiunto un livello di istruzione maggiore, hanno capito che possono generare reddito, non accettano più di stare in casa”. La parola imprenditrice evoca l’immagine di una donna in carriera. In Somalia ovviamente la situazione è diversa. Si tratta di donne che hanno un’attività autonoma, commerciale o artigiana: dalla vendita di frutta e verdura al mercato, ai lavori di sartoria, fino ai piccoli esercizi con qualche dipendente. Swea conta 400 associate. Organizza corsi che vanno dall’alfabetizzazione allo sviluppo di competenze in marketing e management. E a questo tipo di formazione ha unito quella sui diritti umani, sull’associazionismo e sulla gestione dei conflitti, ottenendo il sostegno dell’Unione europea e in Italia, dell’organizzazione Cospe di Firenze. “Le donne cercano stabilità per le proprie famiglie” dice Mariam Ga’al, “portano avanti con molte difficoltà le loro attività economiche, ma sanno che senza la pace non ci sarà un vero progresso”.

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