1 Settembre 2004
Via Dogana n°70

Donne nel cuore di tenebra

Daniela Padoan

Nelle esistenze capitano rari momenti che squarciano il velo delle nostre certezze, che ci dicono non tanto della nostra fragilità, quanto dell’irrompere di una realtà che non avevamo previsto ma che pure c’era, che ci aveva dato segni inequivocabili e che tuttavia non avevamo voluto vedere. Momenti che, togliendoci il terreno sotto i piedi, ci danno la straordinaria possibilità di rigiocare tutto quello che sappiamo, mettendo in discussione le nostre traiettorie. Momenti destabilizzanti e preziosi che subito richiudiamo, noi che, come diceva Rilke, sprechiamo i dolori. E un dolore ci è entrato nel corpo, inaccettabile, vedendo quelle immagini di donne che dileggiano, che violano corpi di altri esseri umani. Pantomime di sesso sadico, piramidi umane, uomini al guinzaglio, feste nere, godimento del male inflitto. Che tra le figure spavaldamente in posa davanti ai cadaveri di prigionieri iracheni vi fossero anche delle donne, belle, giovani, sorridenti di uno di quei sorrisi che nelle pubblicità degli anni Cinquanta si usavano per convincere a comprare un detersivo, è così sconcertante da lasciare muti, con uno stupore sordo che dà la misura del troppo, e che come ogni troppo si vorrebbe negare.
Un sentimento soverchiante per una donna che in quel volto di donna si rispecchia. Quello che stiamo provando adesso è il lutto di una retorica? Avevamo creduto di essere altro. Dobbiamo dunque dirci che non è vero, che la realtà ci mostra di aver sognato? Perché quelle immagini affermano che le donne non sono altro, quando si tratta del potere che viola i corpi. Basta aver visto l’inizio di Full Metal Jacket per sapere cosa il potere, nella sua perversa onnipotenza militare, fa degli individui: costruisce persone addestrate a vedere l’altro come cosa, come non-uomo, come Untermenschen. Nell’addestramento militare il sadismo, come manifestazione di potere e addirittura come educazione al potere, è moneta corrente; passa per l’umiliazione del corpo delle reclute, proprio perché a loro volta dovranno umiliare, e addirittura annientare il “nemico”. Annientare è un verbo terribile, che rimanda a un far essere niente che non è prerogativa umana. Le donne, che invece fanno essere (qualcosa, una singola vita, non un assoluto) finora ne erano rimaste estranee. Pensavamo fosse più difficile non vedere il corpo dell’altro come proprio, per una donna che quel corpo genera. Eppure, in un rovesciamento paradossale, la soldatessa torturatrice torna negli Stati Uniti incinta.
Dobbiamo allora abbandonare, come balocchi rotti, le parole di Virginia Woolf sull’estraneità, sulla resistenza passiva delle donne? Guardare con sospetto tutti i nostri discorsi sul materno, sulla differenza, sulla cura, e attagliarci, mute, a non avere più parole che ci aiutino a dipanare il mondo? Non credo. Credo però che dobbiamo chiederci che cosa ci è successo attorno, mentre restavamo chiuse nei nostri discorsi e nelle nostre relazioni. Mentre parlavamo della differenza e praticavamo relazioni improntate dal sapere politico della differenza, il potere imparava a praticare l’uguaglianza, usando un femminismo dell’emancipazione e i suoi sviluppi post-femministi, che mettono in campo il desiderio di un guadagno per sé, di forza, di potere, di rivalsa.
Le immagini di Abu Ghraib riconducono inesorabilmente al potere, e alla sessualità connaturata al potere, come dominio dei corpi. Un dominio fallico. È la prima volta che uso questo termine. Mi pareva abusato e desueto, e invece – proprio come il termine “imperialismo”, un vecchio arnese concettuale che poi è tornato necessario – mi pare adesso che contenga qualcosa di indispensabile per tentare di leggere il mondo. In particolare il nostro. La società fallica (e imperialista) ha fatto dello stupro la cifra del suo dominio: stupro di continenti, di popolazioni, di ecosistemi e di esseri umani. Un dominio violentemente maschile che il femminismo della differenza ha nominato con chiarezza e a cui adesso, invece, il femminismo della parità sembra aderire. Nel potere americano, l'”altro” è sempre più chiamato a omologarsi alle logiche del potere: a incarnarle o, specularmente, a fare da “carne da cannone”, in una dimensione che anche semanticamente ha a che fare con il corpo. Nel primo caso, Colin Powell e Condolezza Rice, donna e nera; nel secondo, la green card offerta agli ispanoamericani per andare a morire in Iraq.
L’emancipazione delle donne sembra andare in questa direzione, eppure, nonostante le consigliere di Bush, nonostante le soldatesse torturatrici, il numero delle donne implicate in azioni di guerra è straordinariamente basso. In fin dei conti c’è da stupirsi che siano ancora così poche, e forse c’è da pensare che le donne continuino a custodire quell’estraneità che finora le ha tenute lontane dai luoghi dove si esercita davvero, pienamente, il potere. Lontane anche dall’emancipazione. Un’estraneità, un riserbo, che viene prima del fatto che il potere abbia finora tenuto chiuse le sue porte. Un non voler avere a che fare, più che una resistenza.
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