11 Maggio 2004

Dopo Lynndie più niente è come prima

Ida Dominijanni
“Prima i nostri nemici hanno creato l’attentatore suicida. Ora noi abbiamo il nostro attentatore suicida digitale: la macchina fotografica”. Così Robert Fisk sull’Independent di venerdì, ripreso dal manifesto e tradotto dall’Unità di sabato. Il paragone fra l’icona totale degli aerei che si schiantano sulle torri gemelle e le foto delle torture a Abu Ghraib, in particolare quella della giovane Lynndie England con il prigioniero iracheno al guinzaglio, è un’ottima intuizione e merita di essere sviluppata per più di un verso. Non c’è solo l’analogia nel peso dell’impatto simbolico. Nè solo la sinistra analogia che lo stesso Fisk giustamente evoca, fra quello che venne definito “lo stupro” di Manhattan a opera dei maschi kamikaze di Al Quaeda e lo stupro della sessualità maschile islamica a opera delle torturatrici americane. C’è il fatto che allora come adesso, l’assolutamente Altro, il Nemico Diverso, si manifesta in realtà come assolutamente simile: tanto i kamikaze di Al Queda maneggiavano l’arte dell’immagine spettacolare made in Usa, quanto i torturatori americani si muovono perfettamente a loro agio nel carcere delle sevizie che fu di Saddam Hussein. E c’è, allora come oggi, l’effetto straniante dell’immaginario che diventa realtà, anzi iperrealtà: l’immaginario hollywoodiano della catastrofe annunciata nel caso dell’11 settembre, l’immaginario sessuale della vendetta sadica femminile sul maschio vinto e degradato nel caso di Abu Ghraib. E nell’un caso e nell’altro, l’immaginario dimostra di non avere confini: è il primo ingrediente del mondo a essersi globalizzato, trasmesso, contaminato. Aiutato da una tecnica anch’essa senza confini: la diretta tv nel caso delle torri, la sequenza ossessiva (e voyeur) delle foto nel caso di Abu Ghraib trasmettono e moltiplicano la catastrofe dell’ordine simbolico. La quale raddoppia, anche e in primo luogo dal punto di vista della posizione dei due sessi nell’ordine simbolico medesimo. L’11 settembre si parlò, acutamente, di catastrofe del fallocentrismo, ben rappresentata dal clash dell’aereo-uccello suicida contro la potenza verticale e binaria delle torri. Ma adesso, siamo alla catastrofe simbolica del primato e dell’alterità femminile sulla specie e sulla relazione con l’altro, implacabilmente rappresentata dalla foto “donna con uomo strisciante al guinzaglio”. Confesso di avere sottovalutato questa catastrofe, ancora pochi giorni fa, scrivendo che bisognava abbassare i punti esclamativi per la presenza di donne fra i torturatori e prendere atto dei danni portati alla differenza fra i sessi, e dunque all’umanità, dall’imperativo occidentale all’omologazione delle donne all’ordine fallocentrico in forma di emancipazione e diritti di accesso paritario a tutto, guerra e carriera militare comprese. Non avevo ancora visto la foto di Lynndie con il prigioniero iracheno al guinzaglio. La quale foto cambia il senso dell’accaduto. Le responsabilità dell’ideologia omologante dell’emancipazione forzata restano; come pure restano le responsabilità del discorso che ha legittimato la guerra all’Iraq come guerra al patriarcato islamico, con ciò certamente autorizzando l’umiliazione inferta dalla giovane Lynndie al suo trofeo. E però in quella foto c’è qualcosa di più. Un di più femminile – lo sguardo, il sorriso, l’abbigliamento – che non si lascia ricondurre e ridurre a un comportamento omologato o imitativo dei muscoli e della sopraffazione virile.

Un caso isolato, o due o tre, di sadismo femminile? Può darsi, ma noi non possiamo farci complici del discorso del potere sulle mele marce, riducendo quella foto a un caso di sporadico sadismo. E non possiamo neppure contemplare con costernazione, come si limitano a fare alcuni filosofi, l’eterno ritorno su questa terra della banalità del male. C’è un male determinato che ci chiama in causa qui e ora: noi donne dico, anzi noi femministe che in un tempo determinato, secondo `900 e dintorni, abbiamo fatto della sessualità, della sessuazione e della relazione fra i sessi un campo di osservazione e di sapere privilegiato. Quell’immagine dice di un immaginario sessuale degradato e reificante, ancorché corredato di postmoderna trasgressione trans e drag, che nasce – quasi fosse l’altra faccia del moralismo bacchettone – nelle viscere dello stesso paese che pochi anni fa si scandalizzava per il sexgate di Bill Clinton. Un immaginario che corre nelle vene di società peraltro smaterializzate, dove più il sesso si esibisce meno il desiderio si esprime, e dove anche il discorso femminista sorvola ormai volentieri sulla sessualità, la sua opacità, le sue contraddizioni. E dice ancora, quell’immagine, di un immaginario post-femminista sul femminismo, che trasfigura quello che è stato e resta un movimento di libertà dalla fissità dei ruoli sessuali in una competizione per il potere e per la sopraffazione, in un gioco di rivalsa dell’ex sesso debole sull’ex sesso forte, in una sfida fallica all’ultimo respiro che intrappola le donne quanto e più degli uomini. Bisogna indugiare su quella foto, e fare spazio al lavoro del lutto. Come dopo l’11 settembre, dopo Lynndie England più niente è come prima.

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