21 Giugno 2005
il manifesto

«E’ la storia che insegna all’Africa la diffidenza»

Politici e intellettuali africani e italiani a confronto in un incontro promosso a Milano dalla Fondazione Unidea
Geraldina Colotti

Il 14 giugno sono stati inaugurati in Burkina Faso due nuovi centri di formazione professionale dedicati alle donne del luogo. A promuovere il progetto, Unidea, la fondazione privata costituita dal Gruppo UniCredit nel marzo 2003. In quella data, i progetti sono stati presentati anche a Milano (Spazio Oberdan), dopo la proiezione del lungometraggio Delwende, lève-toi e marche (Alzati e cammina), cofinanziato dalla fondazione e ideato dal regista e attivista Pierre Yameogo. Uno spaccato sulla condizione della donna nella società rurale burkinabé, di cui hanno discusso il regista e la ministra per la promozione della donna in Burkina, Gisele Guigma Diosso . «Dopo anni di interventi e aiuti allo sviluppo, i problemi in Africa si sono aggravati, ma il disastro resta chiuso all’interno di quel continente – afferma Guido Munzi, responsabile del settore Africa della fondazione – Nella cooperazione internazionale occorre un mutamento radicale di indirizzi». Per questo Unidea, molto attiva nell’Africa Subsahariana con interventi diretti a promuovere la sanità di base, il microcredito, lo sviluppo sostenibile delle comunità locali, l’8 giugno, sempre a Milano, ha ideato il convegno «Strategie di sviluppo e aiuto internazionale. Le proposte africane», organizzato da Unicredit Foundation. Intorno al tavolo analisti politici e intellettuali africani e italiani, coordinati dal giornalista congolese Jean Léonard Touadi: Aminata Traoré, ex ministra della cultura in Mali, il nigeriano Wole Soynka, premio Nobel per la letteratura, Thandika Mkandawire, economista del Malawi, il senegalese Adebayo Olukoshi, del Council of Development of Social Science Research in Africa, Pierre Yameogo, Andrea Cornia, Alessandro Triulzi, Cristina Ercolessi…Uno dei principali fili conduttori della giornata, la lotta all’Aids, «una piaga che ha spopolato interi villaggi e che continua a devastare la popolazione africana», nelle parole di Soynka. Dalla scoperta della malattia, 70 milioni di persone sono state contagiate. Di queste, 30 milioni sono morte, l’80% in Africa. Nel 2004, sui 5 milioni di nuovi casi, l’80% degli ammalati si trova sempre in Africa. «Non servono – ha detto ancora Soynka – aiuti generici, ma posti di lavoro e valorizzazione delle conoscenze e delle competenze locali. Si potrebbe iniziare con la creazione di piccole industrie». Né servono – è il parere generale di tutti gli ospiti – modelli importati dall’esterno. Il deficit di democrazia, è stato detto, è una delle cause del mancato sviluppo. Ma l’Africa vuole davvero diventare come l’Europa? La Traoré, è da sempre fautrice di una «terza via africana allo sviluppo» che sappia coniugare tradizioni locali e modernizzazione al servizio dei cittadini. Il suo acceso intervento, non risparmia critiche ai dirigenti africani, ma tuona contro i piani di aggiustamento strutturale imposti da Fmi e Banca mondiale, e invita a continuare la discussione al prossimo Social forum in Spagna e a quello africano in ottobre, senza prestare fede alle sirene del G8.

 

Critica aperta alla «democrazia importata con le bombe», e alle misure come il Patriot Act (la legge americana post 11 settembre) che «manipolano la paura in modo illegale, a scapito del diritto internazionale» (sempre Soynka). Nessuna fiducia, poi, nella Commission for Africa, creata nel marzo 2004 su iniziativa del primo ministro britannico Tony Blair, con lo scopo di valutare il ruolo della comunità internazionale nel processo di sviluppo in Africa e la questione del debito. «Dal G8 di luglio in Scozia – dice l’economista Mkandawire – mi aspetto solo promesse. Gli africani non devono pensare alle idee che vengono da fuori. L’Africa, comunque, visto il crogiolo di etnie che la compongono, dovrà essere governata democraticamente». E in questo senso, dei segnali ci sono. Secondo Touadi, nel 1994, «l’arrivo di Mandela ha insegnato che la risposta sta giù, nei villaggi. Per questo, ogni volta che un europeo dice ‘vado in Africa’ non è una buona notizia. E’ la storia che ci insegna la diffidenza».

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