25 Maggio 2008

Elogio della scuola e di chi ci vive dentro


L’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante
Di Guido Armellini
UNICOPLI, Milano 2008. 12,00 euro

“L’educazione non dovrebbe sottolineare e accentuare le differenze, invece delle somiglianze?”
(Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé)

Goffredo Fofi mi invita a difendere gli insegnanti dalle critiche di Vittorio Giacopini.1 Temo di non essere all’altezza del compito: l’intento di “difendere gli insegnanti” mi sembra incongruo, almeno quanto quello di “attaccare gli insegnanti” (sport molto praticato, peraltro, dalle più svariate categorie sociali, inclusa quella dei maîtres à penser mediatici del nostro tempo). Mi pare che la questione sia un’altra, e che riguardi prima di tutto lo sguardo col quale ci si accosta alla scuola. Giacopini afferma a più riprese che “per capire la scuola bisogna guardarla da lontano”. Può darsi, caro Vittorio. Ma, nel guardare la scuola da una distanza eccessiva, rischi di vedere solo quello che già pensi e immagini: preconcetti, fantasie, idiosincrasie, suggestioni letterarie, stati d’animo più o meno apocalittici, che finiscono per occultare l’oggetto che credi di osservare. Da modesto artigiano dell’insegnamento, non riesco a confutare le vertiginose generalizzazioni e i perentori anatemi disseminati nel tuo saggio; mi sembra però che uno sguardo più ravvicinato e quotidiano consenta di vedere della scuola cose che tu non vedi.
La scuola è oggi l’unico luogo, esclusa la famiglia, in cui si incontrano generazioni diverse, l’unico in cui bambini e bambine entrano in relazione con adulti che non sono i loro genitori; l’unico, anche, in cui una generazione di figli unici si mescola con coetanei, provenienti da diversi ceti sociali, e, ora e sempre più nel futuro, da paesi, lingue e culture lontanissime. Il modo in cui questo numero sterminato di esseri umani costruisce le forme della propria convivenza è estremamente difficile da controllare, da ridurre a un disegno unico. Può avvenire il peggio come il meglio. Grazie al carattere spurio, artigianale, corporeo, sessuato, che fa insieme la miseria e la nobiltà del mestiere dell’insegnante, l’esperienza scolastica può configurarsi come una inerte subordinazione ai modelli di vita e di pensiero dominanti o come un’occasione di sperimentare aperture culturali, relazioni e comportamenti alternativi. Ostentare sufficienza e disinteresse per quanto avviene in questo spazio di vita, coinvolgendo nello stesso disprezzo tutto ciò che vi si svolge, significa assumere un atteggiamento aristocratico e sostanzialmente rinunciatario, che non a caso nell’articolo sfocia in un’improbabile e molto estetizzante elogio “dei falliti e degli spostati”, figure isolate, incontaminate e ribelli, non meno melense e illusorie dei miti della pedagogia di sinistra che Giacopini prende giustamente di mira.
La rappresentazione di una scuola e una società inesorabilmente rimbecillite, che accomuna in un’indifferenziata condanna il ministro, i suoi pedagogisti aziendalisti, comportamentisti e multimediali, e gli insegnanti che perseguono un’idea radicalmente diversa dell’educazione, mette in ombra il fatto che la scuola, come ogni angolo della società dove gli esseri umani intessono relazioni e confronti, è un luogo di potenziale o reale conflitto. Non mi riferisco a “lotte” rivendicative o sindacali, ma alla battaglia culturale contro una concezione della scuola tutta modellata sul mercato, basata sulla trasmissione di saperi e valori precostituiti, misurata attraverso punteggi che arrivano a frugare nella vita privata delle ragazze e dei ragazzi per verificarne la convergenza con i modelli di vita dominanti, e propinata attraverso una didattica di stato che individua nei test e nei quiz il suo massimo ideale docimologico. Il tutto inserito in una visione organizzativistica e funzionalistica dei rapporti umani, che, sotto l’insegna della Qualità Totale e della Costumer Satisfaction, sta cercando di imporsi nei più diversi ambiti della società: dal mondo produttivo alla sanità, dal volontariato alla formazione. Il suo vessillo ideologico è la “trasparenza”, la sua idea-guida è la riduzione dei problemi sociali a una questione di managerialità e di efficienza organizzativa, il suo scopo è l’abolizione del conflitto. E’ la forma postmoderna di quella “mitologia dell’ordine (…) presente nell’utopia di una società trasparente, senza conflitto e senza disordine”,2 in cui Edgar Morin individua la matrice di ogni totalitarismo.
Nella scuola la battaglia contro questa utopia del controllo e della normalizzazione trova il suo fondamento nel carattere soggettivo, imprevedibile, non addomesticabile, dell’incontro fra persone adulte e bambine. La ricerca di modi di convivenza che consentano di individuare e assaporare gli aspetti positivi dei conflitti e di affrontarli creativamente, il riconoscimento e la valorizzazione di quei campi della conoscenza e dell’esperienza che ci fanno diversi e diverse, e che per definizione non sono riconducibili a standard o competenze certificabili, la guerriglia linguistica contro il lessico buro-finanziario-aziendalistico imperante, in nome di un uso ecologico, pertinente, sobrio delle parole: sono cose che non possono essere imposte per legge o incentivate con aumenti salariali, né possono diventare il programma di un partito o di un ordine professionale. Si fanno semplicemente per il desiderio di farle: proprio quel “desiderio di insegnare”3 di cui parla Luisa Muraro, e che Vittorio Giacopini considera infetto da “troppa (ma immotivata) fiducia nel presente”. Per quel che mi riguarda, ho una certa idiosincrasia per le visioni onnicomprensive e totalizzanti del nostro tempo, apocalittiche o integrate che siano: confesso di non avere le idee chiare sui destini complessivi dell’umanità, ma, da vecchio boy scout, resto convinto che il mondo sia una costruzione cooperativa, e che valga la pena di fare un buon lavoro lì dove si è, specie se il lavoro che si fa consiste nell’incontrarsi e scontrarsi con altri esseri umani.
D’altra parte l’idea che la scuola sia un luogo squalificato, dove non si può combinare nulla di veramente utile, e che la figura dell’insegnante sia intrinsecamente patetica e poco dignitosa, è molto antica. Nella lettera Al grammatico fiorentino Zenobio, per esortarlo a rinunciare alla scuola di grammatica e ad aspirare a traguardi più nobili Francesco Petrarca scriveva:
Insegnino ai ragazzi coloro che non sono capaci di fare cose più importanti, coloro che hanno diligenza scrupolosa, mente troppo tarda, cervello molle, intelligenza senza voli, sangue gelido, corpo capace di sopportare la fatica, animo che disprezza la gloria, che desidera scarso guadagno, che non si preoccupa del disprezzo; (…) si devono occupare dei minori coloro che si vergognano di stare tra uomini, non riescono a vivere tra uguali.4
Forse la radice più profonda del diffuso disprezzo per il mestiere dell’insegnante ha la sua radice qui: nel pregiudizio maschilista che sia indegno di un uomo, e per di più di un intellettuale, abbassarsi a un’occupazione tradizionalmente femminile come l'”occuparsi dei minori”. La mia esperienza mi porta a pensare esattamente il contrario: che l’avere a che fare quotidianamente con ragazze e ragazzi sia una fonte di esperienza e di conoscenza assai più istruttiva della lettura di molti libri. Non c’è dubbio che la scuola sia un contenitore polveroso ed anchilosato, ma continuo a pensare che la posta che vi si gioca non sia di poco conto. Lo aveva ben presente Primo Levi, quando concludeva I sommersi e i salvati ponendo l’accento sulla centralità dell’educazione nella formazione dell’uomo nazista:

Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri “aguzzini”. Il termine allude ai nostri ex-custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti (…). Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita e imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori.5

 

Una scuola che educa alla gregarietà e alla subordinazione può produrre deformazioni e patologie catastrofiche. Anche per questo non mi sembra il caso di guardare dall’alto in basso chi rema in direzione opposta, e si adopera, se non altro, per limitare i danni.

 

1 Questo breve intervento è tratto da “Lo straniero”, II, 8,1999. Lo stesso numero della rivista ospitava un ampio articolo di Vittorio Giacopini, intitolato Una falsa partenza. Critica sociale, critica della scuola (pp. 51-69), che prendeva di mira, oltre alle politiche scolastiche e alla corporazione dei pedagogisti, gli insegnanti e gli educatori nel loro complesso.

 

2 E. Morin, Scienza con coscienza, Angeli, Milano, 1989, p. 94.

 

3 “(…) nel Sessantotto si è lottato nella scuola per salvare, tenere vivo e liberare il desiderio di imparare, mentre oggi lottiamo per dare (ridare) vita all’antico desiderio di insegnare “, Un’eccellenza contagiosa e alla mano, in A. Lelario, V. Cosentino, G. Armellini (a c. di), Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del movimento di autoriforma, Pratiche Editrice, Milano, 1998, pp. 15-20; la cit. alla p. 16.



4 Ad Zenobium gramaticum florentinum, consilium ut, scholis gramaticae dimissis, altius adspiret, da Familiarium rerum libri
, Utet, 1978. La traduzione è mia.

 

5 P. Levi, I sommersi e i salvati, in Opere I, Einaudi, Torino, 1987, pp. 821-822.

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