Clara Jourdan
Ho fatto leggere a una classe di studentesse e studenti delle superiori una frase di Simone Weil: “Tutti i mutamenti intervenuti negli ultimi tre secoli avvicinano gli uomini a una situazione in cui non ci sarebbe più assolutamente altra fonte di obbedienza nel mondo intero eccetto l’autorità dello Stato” (Sulle origini dello hitlerismo, 1939), e ho chiesto se nella loro vita è presente altra autorità o sono a conoscenza di mutamenti sociali che vanno in un’altra direzione rispetto a quella individuata dalla giovane filosofa francese sessant’anni fa. Una parte ha scritto “i genitori”, qualcuna “gli insegnanti”, molte e molti: “no”.
La guerra Nato contro la Iugoslavia è fatta probabilmente per far nascere un soggetto sovranazionale, che obbedisce però alla stessa idea dello Stato, l’uso della violenza per fare ordine. Per alcuni sarebbe anche giusto e si giustifica questa guerra. Nei due mesi dal primo bombardamento, insieme al moltiplicarsi di prese di posizione pubblica contro la guerra – e prese di posizione più di singoli e gruppi che di organizzazioni di massa, più articoli, lettere, dimissioni, discussioni che manifestazioni di piazza – dopo lo sconcerto iniziale è cominciata anche una riflessione sul nuovo di guesta guerra, oltre che sugli elementi di continuità con il passato. Dal punto di vista militare è uguale a quella contro l’Iraq. Ma mentre quella guerra aveva come motivazione ufficiale la violazione della sovranità di un altro Stato, per questa la motivazione è la violazione dei diritti umani all’interno dello Stato. Un salto che fa sentire la guerra di solo pochi anni fa come lontana. Anche perché, e questo è il punto, mentre la motivazione di allora era sentita dai più come copertura (di interessi economici, di volontà di dominio ecc.), la motivazione di oggi no. Molti, anche nella sinistra della sinistra, ritengono che davvero la ragione della guerra sia questa, molti naturalmente sospettano che sia un pretesto, ma chi sostiene la guerra e chi si oppone sono d’accordo sul difendere i diritti umani, anche al di sopra dello Stato. Dicono infatti: non è con la guerra che si difendono i diritti umani (come Paolo Cacciari che sul “manifesto” del 21 maggio, in nome del movimento pacifista propone “alternative alla guerra”). Insomma, mentre in passato la motivazione umanitaria era stata inventata – con l’invasione di Hitler della Cecoslovacchia (per difendere i diritti della minoranza tedesca) – come un puro e semplice aggiramento dell’accordo tra stati che vietava le guerre aggressive, adesso la motivazione umanitaria sembra rispondere a un sentire diffuso. È dunque ideologia dominante.
Secondo Salvatore Senese (“il manifesto”, 19 maggio), che come altri ha ragionato sulla novità di questa guerra “di sinistra”, la politica fondata sui diritti umani è la nuova concezione politica, che opera un rovesciamento di fondo rispetto al rapporto con la guerra nell’immaginario collettivo della sinistra: se il prius sono i diritti umani, la pace deve quindi essere giusta, la guerra non è più “flagello dell’umanità” (come è scritto nella Carta dell’Onu) ma può rivelarsi uno strumento per adempiere al dovere di ingerenza umanitaria. Come dice Luce Irigaray, la guerra non ha neppure più l’alibi della legittima difesa, essa è il mezzo utilizzato affinché il giusto distrugga l’ingiusto (“la Repubblica”, 19 maggio).
Per Simone Weil le guerre erano inevitabili a causa del “dogma della sovranità nazionale”, dato che la nozione giuridica di nazione sovrana è incompatibile con l’idea di un ordine internazionale: al suo posto abbiamo oggi il dogma dei diritti umani al centro di una nuova ideologia? Sembrerebbe di sì, dato che i diritti umani sostenuti dalla sinistra sono fatti propri anche dalla destra: la destra infatti, che in Italia come in Usa e in altri paesi Nato è all’opposizione, non solo non si è opposta alla guerra ma l’ha sostenuta con le stesse parole della sinistra. Unità per la guerra in cui d’altra parte non si sono sentiti rappresentati gli elettori e le elettrici, come si vede nelle lettere pubblicate dai giornali: “Di fronte alle stragi Nato mi vergogno di appartenere ad una nazione che partecipa attivamente all’attività bellica. Ho sempre votato per partiti moderati e, a questo punto, con le prossime elezioni europee, penso proprio che non andrò a votare” (Lettera firmata, “il Giorno”, 22 maggio). E si diffondono le proposte delle associazioni, come la Libera Università delle donne di Milano che sta facendo una campagna per l’astensione: “Se la guerra non sarà cessata prima del 13 giugno, non andremo a votare” (“Il paese delle donne”). E c’è perfino chi pensa di votare a destra per restituire la sinistra all’opposizione, in caso di un’altra guerra in futuro (lo stesso D’Alema lo ha involontariamente suggerito dicendo in un’intervista di Enzo Biagi che se non si trovasse al governo sarebbe contro questa guerra).
Discutiamo dunque dei diritti umani. Perché da parte degli oppositori e delle oppositrici di questa guerra – che, ripeto, sono sempre di più – viene quasi sempre affermata e sostenuta contestualmente l’importanza dei diritti, o comunque ne viene utilizzato il linguaggio. Per Senese i diritti umani sono una mirabile costruzione elaborata per proteggere l’individuo, la persona concreta, nei confronti delle astrazioni ipostatizzanti come il trono e l’altare, lo stato come sostanza etica.ecc. Quello che fa problema è l’introdurli come “un nuovo elemento teologico-assolutizzante nella politica”, che rende gli stessi diritti umani “un’astrazione”. Contro questo pericolo, Senese ripropone l’interdizione alla guerra, sancita dalla Carta delle Nazioni unite e dalla nostra Costituzione.
Penso che i diritti inviolabili dell’uomo siano stati davvero un tentativo di risposta, sul piano giuridico, all’esigenza della parte migliore dell’umanità (maschile) di significare la dignità umana e l’indipendenza dell’individuo, così come lo Stato democratico sul piano politico all’esigenza di ordine sociale, ma penso che queste costruzioni simboliche si scontrino, nei fatti, con una contraddizione originaria. La guerra cioè non è la conclusione di una interpretazione aberrante del diritto, ma è sempre in agguato nella concezione dei diritti umani, e questo perché essi hanno bisogno della forza. E il fatto che in molte continuiamo a sentire insensata questa guerra dovrebbe farci riflettere una volta per tutte su quella mediazione maschile, il diritto, che tante donne hanno ritenuto di poter prendere per buona anche per sé. Io, che insegno diritto nella scuola, da anni non mi stanco di ripetere che il diritto individuale non è un “di più”, ma un “di meno” nelle relazioni umane, e lo è innanzitutto come linguaggio, perché, nella sua semplicità, tende a diventare una lingua vera e propria: se per parlare ho bisogno di dire “ho diritto di parlare”, vuol dire che il mio desiderio non conta, c’è bisogno di una legittimazione astratta e generica (il diritto appunto), e vuol dire che se chi ho di fronte non mi vuole ascoltare io non ho risorse dentro di me per cercare la strada di farmi ascoltare ma devo rinunciare (accontentandomi della soddisfazione di essere dalla parte della ragione) o devo ricorrere alla forza (legittima) di chi ha la forza di intervenire. (La tendenza della cultura scolastica istituzionale è di “educare alla legalità” invece che alla libertà).
Il diritto individuale, insomma, ha bisogno di un guardiano. Nonostante abbia avuto un’origine indipendente dallo Stato, anzi contro lo Stato (i diritti umani sono diritti “naturali”), il suo guardiano insormontabile è stato fino a poco fa lo Stato. Al punto che il linguaggio dei diritti è diventato la mediazione corrente nel rapporto tra individui e Stato: lo Stato riconosce (se vuole) solo diritti, non esseri, costringendo a diventare giusnaturalisti tutti coloro che vogliono intervenire contro le violenze su donne e uomini. Quando ho chiesto a una responsabile di Amnesty International perché chiamava violazioni di diritti umani e non violazioni di esseri umani gli assassini, le incarcerazioni, le torture ecc., lei mi ha risposto che è perché il loro intervento è rivolto agli Stati. La conseguenza di tutto ciò è però una perdita di senso dell’essere umano. Ora che il ruolo di guardiano l’ha preso un’organizzazione internazionale (di fatto sovranazionale) come la Nato, gli effetti della perdita di senso saltano agli occhi, con il balzo di qualità dato dalla guerra come forma di intervento: per difendere i diritti di alcuni si buttano bombe sui corpi di altri e anche degli stessi di cui si difendono i diritti.
“Il diritto si invera con la sanzione”, ha ricordato Lia Cigarini durante una riunione a Milano al Circolo della Rosa, il 14 maggio scorso, in cui si discuteva sulla guerra a partire dalla teoria contenuta nel libro di Alessandra Nannei Ragione e sentimenti. Sulla differenza del comunicare (Edizioni Scuola di Cultura Contemporanea, Mantova 1997). Secondo la Nannei la guerra dipende dal venir meno di una gerarchia nei rapporti tra uomini, essendo la gerarchia la risposta al bisogno simbolico maschile di sapere come collocarsi al mondo; secondo Lia Cigarini il nuovo della guerra di oggi è un risultato anche del femminismo: “È stato detto che questa guerra è stata fatta su alcune parole della sinistra: ingerenza umanitaria, diritti umani ecc. C’è corresponsabilità politica delle donne in queste parole. Le donne non sono più nella situazione della prima e della seconda guerra mondiale, stanno facendo politica da trent’anni “come soggetto politico””. Si spiega allora “il silenzio delle donne” in questa guerra. E che le più silenziose siano proprio le americane: “negli Stati Uniti c’è un forte movimento femminista che col politicamente corretto ha dato man forte alla possibilità di intervento armato a difesa dei diritti dell’umanità”.
Se si parla di diritti universali si cancella la differenza. E la differenza è indispensabile anche per capire che è maschile il simbolico che prevede un conflitto in cui è in gioco chi vince e chi perde, e in cui chi perde deve essere tendenzialmente distrutto. La pratica del movimento delle donne non ha proposto un conflitto distruttivo, di distruggere i maschi. Ha tentato un conflitto relazionale, cioè di modificare la relazione. Questo paradigma nuovo è una risposta all’alternativa tra lo stare alla forza (richiesto dal sistema dei diritti) e il sottrarsi interiormente alla forza per non perpetuare il meccanismo del dominio, che proponeva Simone Weil. Si tratta dell’autorità che si genera nella pratica delle relazioni. È la scoperta della politica delle donne, vedere che la politica è, propriamente, ciò che riesce a contrastare o sospendere il meccanismo dei rappporti di forza, in assoluto (senza, cioè, dover ricorrere al meccanismo dei rapporti di forza) (Luisa Muraro, in Oltre l’uguaglianza, Liguori, Napoli 1995).
La cultura dei diritti frena la presa di coscienza di questa forma di autorità, femminile.
(Pubblicato su “il manifesto”, 27 maggio 1999, e in Luisa Muraro e altre, “Guerre che ho visto”, Quaderni di Via Dogana, Milano 1999)