11 Novembre 2003
il manifesto

I nuovi, semplici eredi di Sankara

Marina Forti

«J’ai fait la Côte d’Ivoire», dice Hamidou Ouedraogo, «ho fatto la Costa d’Avorio», che significa: ho fatto anni di duro lavoro come migrante. Il signor Ouedraogo è nato nel 1945 a Tanlili, nel nord-est del Burkina Faso, e la sua esperienza di emigrante nelle piantagioni ivoriane gli ha fornito l’ispirazione per ciò che definisce «un progetto per migliorare la vita» delle famiglie contadine. Oggi la Union Namanegbzanga des Groupements Villageois de la zone de Tanlili, o Ungvt, è un riuscito esperimento di barriera contro la desertificazione e difesa dell’ambiente. Soprattutto è una certa idea di bene comune. Questo ci ha spiegato Hamidou Ouedraogo l’altro giorno, a Napoli, dove era tra le dieci persone che hanno ricevuto il Premio Slow Food per la difesa della biodiversità (di cui questa rubrica ha già parlato nei giorni scorsi). In Costa d’Avorio Ouedraogo aveva trovato lavoro come tecnico nell’industria del legname. Ma la vita era dura e nel 1977, tornato a Tanlili dopo quindici anni, «piuttosto che ripartire ho cercato di fare qualcosa». Dunque: dieci uomini – poi 20, e poi 35 – hanno cominciato a lavorare insieme nei campi di ciascuno. Là si coltiva il sorgo, e lavorando insieme il raccolto ha cominciato a migliorare. Nel 1982 il gruppo si è dato un nome: Song Taaba, «aiutiamoci tra noi» nella lingua morè parlata dai Mossi (ci sono diversi gruppi etnici in Burkina Faso e i Mossi sono il 40% della popolazione).

«Ora la fase della sopravvivenza l’abbiamo superata», dice Ouedraogo. Spiega: il Plateau Mossi, dove si trova Tanlili, è un territorio semiarido su cui incombe la desertificazione. La pioggia è poca, in media 500 millimetri d’acqua all’anno, e cade tutta in 3 mesi. Quando arriva rotola via in fretta, portando con sé lo strato fertile del terreno – è questo che si chiama «erosione». Allora bisogna cercare di trattenerla. Il gruppo di Ouedraogo ci riesce con le «dighette anti-erosione» e lo zaï.

Le dighette sono muretti di pietre di una trentina di centimetri, disposti lungo le linee di livello. «Lo zaï è una vecchia tecnica che tutti conoscevano, ma era dimenticata»: si tratta di fare dei buchi a distanze regolari nei campi, prima che arrivino le piogge. L’acqua si raccoglierà nei buchi e colerà via più lentamente. In ogni zaï si mettono i semi: il sorgo bianco e quello rosso, il mais, il miglio, associati alle leguminose (fagiolo e arachide) che aiutano il terreno a fissare l’azoto. I concimi chimici sono proibitivi ma ogni famiglia produce compost con gli scarti organici della cucina e delle vacche. Hanno cominciato a ripiantare alberi, il néré, il tamarindo e l’acacia albida. Tanlili significa «nascosto dalle colline» e quattro in particolare sono del tutto protette: niente pascolo, vietato raccogliervi legna o frutti spontanei.

Ormai i «gruppi di villaggio» sono 39, distribuiti in 22 villaggi, con 3.150 membri e circa 30mila persone coinvolte in qualche modo. L’Union, che Ouedraogo presiede, ha trovato partners internazionali (tra cui l’università di Milano e le Coop Lombardia e Liguria). Possiede aratri, animali da tiro, magazzini, il vivaio, il molino, la fabbrica di sapone, l’unità di cucito e quella di tintura dei tessuti, e quella del burro di karité – in queste lavorano le donne, così nelle case arriva un po’ di reddito e lo statuto delle donne è decisamente migliorato. Poi c’è la scuola, quattro centri di alfabetizzazione per adulti e le biblioteche di villaggio.

Ouedraogo torna al punto iniziale: «Tutta l’idea è venuta nel periodo della rivoluzione». La rivoluzione di Thomas Sankara, che guidò un colpo di stato nel 1983 e fu ucciso nel 1987: in quei quattro anni ha fatto una politica di non allineamento e un tentativo di democrazia popolare. Le prime banche dei cereali sono arrivate allora, e anche i «commandos di alfabetizzazione», dice Ouedraogo. «La dinamica ci ha ispirato. Ora ciascuno sa che lo sviluppo del suo villaggio comincia da lui. Abbiamo imparato anche che per lottare contro la povertà ci vuole accesso alla conoscenza. Abbiamo compreso che la base dello sviluppo è il sapere».

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