Michele Nardelli
Ha ragione Giulio Marcon (il manifesto 13 gennaio) nel felicitarsi del fatto che avremo finalmente una nuova legge sulla cooperazione internazionale a fronte di una normativa del secolo scorso. E ad auspicare che sia una buona legge. Per farlo però non serve un semplice ammodernamento del vecchio impianto legislativo. Quel che occorre è un “salto di paradigma”.
E invece ho l’impressione che le proposte di legge in circolazione siano ancora segnate dalla logica dell'”aiuto allo sviluppo”, il che significherebbe disegnare una legge fuori dal tempo, incapace di tentare qualche risposta alla crisi profonda in cui versa la cooperazione internazionale.
Il paradosso è questo. Nel momento in cui più forte che mai è la consapevolezza della globalizzazione e tocchiamo con mano i meccanismi dell’interdipendenza, viviamo il momento più alto di crisi della cooperazione internazionale. Tale crisi non è data, come in genere si ritiene, dal taglio dei fondi nazionali o del sistema delle Nazioni unite, e nemmeno dal perverso connubio fra intervento bellico e “circo umanitario”. La crisi della cooperazione riguarda i suoi “fondamentali”, il suo presupposto teorico.
E’ cambiato il mondo e si continua a ragionare come se questo fosse ancora diviso fra nord e sud, fra sviluppo e sottosviluppo. Prima ancora della mancanza di strategie, la cooperazione internazionale sembra incapace di leggere il presente.
La nuova geografia planetaria, l’economia mondo, ci indica che i luoghi cruciali dell’accumulazione finanziaria sono le aree di massima deregolazione: le guerre, i traffici criminali (dalle scorie nucleari agli esseri umani), le nuove schiavitù. L’internazionalizzazione delle produzioni e la delocalizzazione delle imprese ci raccontano di paesi che conoscono una crescita travolgente grazie soprattutto alla sistematica violazione dei diritti umani e dei lavoratori e a forme di controllo neofeudale dei territori. Chi è dunque sviluppato e chi sottosviluppato?
L’idea della “cooperazione allo sviluppo” ha come presupposto che ci siano paesi “rimasti indietro”: si tratta di una lettura economicista e sostanzialmente neocoloniale (“insegnare a pescare”, ci dicevano…), che non corrisponde alla realtà.
Forse andrebbe ripensato il concetto stesso di cooperazione intesa come trasferimento di risorse, a partire dalla semplice considerazione che non esistono paesi poveri (impoveriti semmai), che ogni paese è ricco di suo, di culture e saperi prima ancora che di risorse materiali (spesso motivo di impoverimento e di aggressione), e che la frontiera di una nuova cooperazione dovrebbe riguardare il sostegno ai processi di riappropriazione da parte delle comunità locali di tali risorse, il che implica una capacità tanto di riconoscerle che di partecipazione e di autogoverno.
Allora non è solo o tanto un problema di maggiori investimenti nella cooperazione, smettendola peraltro con la contabilizzazione del debito o delle operazioni militari dette umanitarie in questa voce: serve una modalità diversa di fare cooperazione basata sulle relazioni piuttosto che sugli aiuti.
Questo investe anche il nodo dell’autonomia progettuale, tanto della cooperazione governativa quanto del sistema delle Ong. Gli uni e le altre hanno il problema di ricostruire un loro pensiero, cui far seguire la ricerca dei fondi per operare. Non possiamo nasconderci che la crisi della politica e la cultura dell’emergenza hanno fatto disastri da una parte e anche dall’altra, nel mondo detto non governativo, nell’ossessivo rincorrere bandi che pongono le coordinate entro cui agire. Così le Ong rischiano di perdere la loro autonomia, rinchiuse in gabbie già prestabilite dai donatori, sempre più tecnicizzate e dunque tendenzialmente prive di autopensiero. Gli schemi tecnici impongono tempi di realizzazione che non permettono la conoscenza approfondita dei territori nei quali si opera anche perché il lavoro di relazione viene trascurato in sede progettuale e di finanziamento. Producendo insostenibilità.
Limitarsi ad agire sugli ingorghi ministeriali in termini di finanziamenti e competenze, arrivando tutt’al più alla legittimazione di una pluralità di attori della cooperazione, può servire ma non aiuta certo a “cambiare rotta”.
Una nuova legge sulla cooperazione internazionale dovrebbe cercare uno sguardo diverso in un tempo cambiato, pensando alla cooperazione come sostegno ai processi di autosviluppo, valorizzando le relazioni territoriali e le esperienze di cooperazione fra territori, cogliendo le straordinarie potenzialità di comunità che si mettono in gioco in uno spazio aperto. Prossimità (conoscenza), reciprocità (comunità di destino) ed elaborazione del conflitto (una lettura condivisa di ciò che è accaduto) sono le parole chiave che dovrebbero segnare quel salto di paradigma che si richiede alla cooperazione internazionale.
nardelli@osservatoriobalcani.org