30 Novembre 2008
Famiglia Cristiana

I rifiuti ci salvano? L’incredibile ricchezza

Simonetta Pagnotti

Ouagadougou, Burkina Faso

I lavatoi in pietra della discarica di Polesgo ricordano quelli delle nostre nonne, il sole è quello dell’Africa. Attorno, riparate dalle tettoie, giovani donne armate di spazzole strofinano brandelli di plastica tenuti a bagno in grandi bacili, per non sprecare l’acqua. Indossano il grembiule, ma sfoggiano capigliature ricercate e la loro pelle è di velluto, anche se molte vengono da lontano e hanno percorso chilometri di questa strada di polvere rossa per arrivare al lavoro, puntuali, alle 7.30 del mattino. Le più fortunate in motorino, le altre in bicicletta o a piedi.

 

Siamo nel centro di riciclaggio della plastica della discarica di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Qui lavorano 30 donne e con quello che guadagnano, circa 45 euro al mese, riescono a tirare avanti la famiglia e a mandare i bambini a scuola. “Il centro è una fortuna”, spiega la presidente, Margherite Kaborè, 34 anni, tre figli e un marito. Si è portata al lavoro l’ultimo nato, di 27 giorni, e lo dà in braccio a Cristina. Per queste donne lei è molto di più di un’amica bianca. Parla come loro, è andata ai loro matrimoni e ai loro battesimi, spesso le frequenta anche la domenica e nel tempo libero. Soprattutto, devono a lei questo lavoro.

 

Cristina Daniele, 29 anni, è la volontaria di Lvia (associazione internazionale di volontariato laico, collegata a Focsiv), che ha fatto partire il progetto nel 2005, e ha ricevuto il premio Volontari nel mondo-Focsiv. “Per un anno ho lavorato con queste donne”, racconta.

 

Una politica “ambientalista”

 

Nel giugno scorso, Cristina è tornata a Ouagadougou. E ha ritrovato una realtà che ha spazzato via gli ultimi dubbi. “Le donne del centro si erano riunite in associazione ed erano diventate autonome”, spiega. Molte hanno alle spalle esperienze difficili. “I rifiuti ci salvano”, scherza la vicepresidente Marie Claire Koussubé, 45 anni e 5 figli, orgogliosa di aver fatto diplomare il figlio più piccolo, 16 anni. “È molto difficile per una donna trovare lavoro qui. C’è il commerce, che non dà sicurezza, c’è chi fa la sarta o la coiffeuse, ma sono mestieri che danno lavoro solo durante le feste”.

 

Il Burkina Faso è uno dei Paesi più poveri del mondo, ma il Comune di Ouagadougou è capofila di una politica “ambientalista” che ha portato all’apertura, due anni fa, di questa megadiscarica a Polesgo, a 10 chilometri dal centro, per una capacità di stoccaggio di circa 6 milioni di metri cubi di rifiuti.

 

A Polesgo lavorano circa 60 persone, tra cui le 30 donne del centro della plastica. E vengono delegazioni dagli altri Paesi africani, per imparare. Ouaga, come la chiamano i suoi abitanti, sta diventando la capitale del riciclaggio, oltre che la Bollywood d’Africa, grazie al Fespaco, la mostra biennale del cinema che attira le migliori energie del continente. Le contraddizioni di una città che a suo modo è diventata caotica, brulicante di traffico e di mercati attorno al nucleo centrale dominato dalla piazza della Rivoluzione, voluta dall’ex presidente Thomas Sankarà, l’eroe dell’indipendenza africana assassinato nel 1987, oggi recintata e spettrale.

 

Abiti colorati ed eleganti

 

Burkina Faso significa “terra degli uomini integri”, ma l’impressione è che in questa città lavorino solo le donne. Che sono ovunque. Nelle “boutiques” che vendono le mercanzie ai lati delle carreggiate, nei mercati, negli orti lungo i barrage, coi carretti per raccogliere i rifiuti a domicilio, con le anfore dell’acqua portate sulla testa come una corona. Sono abituate a questa fatica fin da bambine, in compenso ne hanno ricavato corpi allungati e movenze da modelle. Si cuciono da sole abiti colorati ed eleganti, fasciati sui fianchi. Lavorano anche per qualche sacco di riso o di miglio. Come le volontarie che arrivano alla discarica in pullman e che, sotto i nostri occhi, passano la mattina a diserbare la spianata, per evitare gli incendi, coi bambini legati dietro la schiena.

 

“Le condizioni della donna sono ancora molto difficili in Burkina”, ci spiega Cristina. Nelle famiglie di cultura tradizionale, vivono separate dagli uomini e si addossano tutte le incombenze più pesanti, fin da piccole. Il parto è ancora uno dei primi fattori di mortalità. “Le spese per un cesareo possono portare alla rovina economica una famiglia”, spiega Gigi Pietra, di Medicus Mundi, che lavora nelle strutture sanitarie dei Camilliani, a Ouaga e a Nanoro, a 100 chilometri dalla capitale. Anche la diocesi gestisce un ospedale, e una rete di assistenza che coinvolge le parrocchie di base. “A Ouaga si può morire di fame senza che nessuno se ne accorga, non c’è la solidarietà dei villaggi”, spiega il vicario, Nikiema Pascal. Per fortuna, al momento, non ci sono conflitti religiosi. “I musulmani vengono alle nostre funzioni e spesso, nella stessa famiglia, ci sono musulmani e cristiani”.

 

È mezzogiorno. Prima del pranzo, a base di polenta di miglio, le donne del centro pregano insieme, cristiane e musulmane. “Dobbiamo andare d’accordo, facciamo tutte la stessa vita, quando andiamo a casa abbiamo il peso della famiglia sulle spalle”, spiega Marie Claire. Dopo pranzo arrivano i bambini della scuola privata di Azimut, per una lezione di educazione ambientale. Ricevono in dono i kit prodotti con la plastica riciclata nel centro di formazione professionale di Saaba, gestito dai Fratelli della Santa Famiglia. Non è una cosa da poco, perché la scolarità in Burkina è molto bassa, anche a causa dei costi sia della scuola pubblica sia privata. Molti bambini la interrompono per essere usati nel commercio, le femmine non vengono fatte studiare.

 

Ma ci dicono che ad Azimut la metà sono femmine, anche alle superiori, e sono molto brave, un segnale che nei ceti meno poveri la sensibilità sta cambiando. Cristina fa parte di questa realtà. Si è fatta fare i mobili e le tende dalla gente del posto, la frequenta “per non vivere da espatriata”. È contenta di andare a casa sua, a Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo, solo tre settimane a Natale.

 

Forse crede che il futuro dell’Africa sia legato proprio a queste donne. “Quando vado a casa gli amici mi dicono: “La gente in Africa muore di fame e tu ti preoccupi di riciclare i rifiuti”. Se venissero qui, capirebbero qualcosa di più”.

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