1 Marzo 2003
Via Dogana n. 64

Idoli infranti

Alberto Leiss

Questi appunti – volutamente in forma di abbozzo – sono stati letti per aprire una discussione svoltasi presso la Libreria delle donne di Milano e voluta dall’Associazione per il rinnovamento della sinistra, in vista di un secondo convegno per sviluppare l’analisi sulla crisi capitalistica avviata con l’incontro pubblico “Idoli infranti”, tenuto a Milano nel giugno 2002.
Siamo partiti da una constatazione, mutuata da un efficace copertina dell’Economist:
“Idoli infranti”.
La caduta dei grandi manager del capitalismo americano delle public company, travolti dagli scandali finanziari e dallo sgonfiamento della “bolla” speculativa legata alla new economy, insieme alla recessione economica e industriale (in Italia il caso Fiat e altri) hanno reso attuali alcune domande:
ha ancora senso parlare di capitalismo e di una sua “crisi”? in che cosa consiste questa crisi? esiste una contraddizione di classe che la sinistra politica occidentale ha da troppo tempo rimosso? come si configura oggi questa contraddizione? ha fondamento l’idea che una politica in crisi di senso – e specialmente la politica della sinistra – riacquisti motivazione e forza simbolica ripartendo dal lavoro? che cos’è il lavoro oggi?
Rispondo a queste domande con alcune tesi.
Sì, il nome capitalismo ha ancora forza descrittiva di un modo di produzione e di vita che è in grande misura determinato dalla mediazione materiale e simbolica di cui è capace il denaro.
Inoltre il nome dice che tra capitale e lavoro il rapporto sociale dominante è quello determinato dal capitale. Le parole comunismo e socialismo, che evocavano rapporti sociali determinati dal lavoro, sono, a dir poco, in sofferenza.
Le statue dei grandi manager, virtualmente in pezzi, come materialmente sono state abbattute quelle di Marx e di Lenin nei paesi ex socialisti, parlano di una crisi, ma fino a che punto grave? E di quale segno?
La profondità della crisi sembra essere disegnata dalla gravità della risposta che viene dal centro dell’Impero: la guerra. Le violenze ostili di Bin Laden e di Saddam, per quanto grandi, non giustificano questa risposta. Fondamentalismi e nazionalismi esprimono reazioni – regressive – al dominio del modello capitalistico occidentale, ma qualcosa di più grave sta accadendo al centro del sistema. Non solo una battuta d’arresto di ordine materiale, economico e tecnologico. Ma una crisi di ordine simbolico, determinata dall’intreccio di alcuni fattori: la rivoluzione femminile che ha tolto credito al patriarcato, la rivoluzione scientifica, che tocca la radice genetica della vita, e la rivoluzione dell’informazione che pervade la produzione e l’immaginario collettivo, in una dimensione che diventa globale proprio a causa della vittoria mondiale del sistema capitalistico occidentale. La guerra – che non a caso è contrastata da opinioni pubbliche vaste – è anche la riaffermazione brutale di valori tradizionali in crisi, oltre che lo strumento per tutelare il potere e l’agio dei più ricchi.
Dunque non siamo di fronte (solo) alla crisi di un “ciclo” capitalistico, o di una fase di innovazione tecnologica, o anche di un intero sistema sociale, ma all’affacciarsi di un cambio di civiltà, paragonabile a quello avvenuto, in Occidente, con la fine delle società schiaviste e l’apparire del pensiero che più compiutamente interpretò questo cambio: il cristianesimo (gli ultimi saranno i primi).
Ciò non vuol dire che non stia riemergendo la consapevolezza della contraddizione tra capitale e lavoro. Ma la dinamica di questo conflitto non è sufficiente a descrivere la radicalità più generale del conflitto che si è aperto, frutto di cambiamenti avvenuti lungo la seconda metà del ‘900. La divisione tra proprietari e proletari, per quanto persista ancora, e anzi si estenda a livello globale, non rende conto del fatto che la contraddizione tra capitale e lavoro opera ormai all’interno stesso delle “classi”e degli individui: i lavoratori – nei paesi ricchi – sono in genere anche piccoli proprietari di beni mobiliari e immobiliari. Le politiche di tutela della sinistra e del sindacato – per non dire delle esperienze del “socialismo reale”- non hanno saputo leggere la tensione creativa, “imprenditoriale” in senso shumpeteriano, che c’è in ogni attività di lavoro: questo è accaduto solo per un attimo, storicamente parlando, con l’autonomia di classe basata sul “saper fare” dell’operaio specializzato. In altre parole il motore del movimento pratico e simbolico, identitario, della politica non può più esaurirsi nella dialettica del riconoscimento servo-padrone.

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