27 Gennaio 2005
il manifesto

Il coraggio di Tali Fahima

Ventotto anni, sefardita, elettrice del Likud, oggi agli arresti per «collaborazione con il nemico». La sua colpa, aver visto in faccia e denunciato gli orrori dell’esercito israeliano a Jenin
Luisa Morgantini


Tali Fahima da qualche mese è un nome noto in Israele e nel campo profughi di Jenin. Tali ha 28 anni, ebrea sefardita, dal 9 Agosto scorso è la prima cittadina ebrea israeliana in detenzione amministrativa; cioé incarcerata, fino a poco fa senza accuse formali e senza condanna, come migliaia di palestinesi in questi anni di occupazione militare. Cresciuta a Kiryat-Gat, una città d’immigrati orientali ai bordi del deserto del Negev, lavorava come segretaria in uno studio legale di Tel-Aviv, ed è stata licenziata per le posizioni politiche recentemente assunte contro l’occupazione militare israeliana. Tali non proviene dall’area pacifista o degli intellettuali israeliani, di norma askenazi, né dalla classe media. Ha votato, anche l’ultima volta, per Sharon, è stata sostenitrice del Likud e, come la sua famiglia, una fervente nazionalista, ma ha cambiato le sue posizioni. Punto di svolta nella sua vita è stato il documentario di Giuliano Mer, I bambini di Arna, su un progetto teatrale per i bambini di Jenin, condotto nella prima Intifadah da Arna, una donna israeliana che ha dedicato la sua vita alla costruzione della pace tra palestinesi e israeliani, che è deceduta qualche anno fa ed era la madre di Giuliano. Nel film si vede la devastazione provocata dalle invasioni dell’esercito israeliano a Jenin e il percorso di sei palestinesi che nella prima Intifadah partecipavano al progetto di Arna, alcuni dei quali uccisi durante questa seconda Intifada.

 

L’ingiustizia in faccia

 

Tali vuole vedere davvero che cosa succede. E fa qualcosa di imperdonabile e proibito agli israeliani: va a Jenin, conosce Zakaria Zubeidi, un tempo uno dei «figli» di Arna, oggi capo locale delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa e tra i ricercati. Tra loro nasce un’amicizia, basata sul confronto. Come dichiara lei stessa: «Mi hanno sempre insegnato che gli arabi erano qualcosa che semplicemente non doveva esistere. Sono sempre stata di destra. Fin dall’infanzia mi hanno insegnato a odiare gli arabi, a non fidarmi di loro e a pensare che l’occupazione fosse giusta. Ho cominciato a perdere le mie illusioni prima delle elezioni, ma ho votato Likud perché avevo ancora una paura primordiale degli attentati terroristici e perché sapevo che Sharon era un buon guerriero».

 

Tali comincia a lavorare in progetti educativi nel campo profughi di Jenin; vive con i palestinesi, ospite nelle loro case. Nel marzo 2004 viene arrestata una prima volta, a causa delle sue dichiarazioni alla stampa, in cui si diceva pronta a proteggere con il suo corpo Zakaria, come gesto di protesta nei confronti della prassi delle esecuzioni mirate ed extraterritoriali, costantemente applicata dall’esercito israeliano. Dopo il rilascio é contattata dai servizi segreti israeliani, che vogliono convincerla a collaborare come informatrice e, dopo il suo rifiuto, il 9 agosto viene arrestata ancora. Rimane per mesi in detenzione amministrativa, senza accuse formali né un’effettiva condanna. Il tribunale continua per settimane a rimandare le udienze, per lasciare più tempo di investigare su quelle che i servizi segreti interni in Israele considerano le sue attività illecite. Il 26 dicembre viene infine pronunciata l’accusa: «Collaborazionismo con il nemico in tempo di guerra, trasmissione di informazioni al nemico, contatti con agenti stranieri, detenzione illegale di armi, sostegno di organizzazioni terroristiche e violazione dell’ordine legale». Il processo inizia l’11 gennaio, con un’audizione procedurale in cui il giudice ha lasciato i presenti senza parole domandando all’accusa se intendesse richiedere la pena di morte. Non é mai accaduto, neppure nel sistema legale israeliano, che un giudice facesse una domanda del genere, alla presenza del pubblico, dei media e dell’accusata stessa, di fatto incitando l’opinione pubblica contro di lei. E con questo si arriva al 25 gennaio, quando il giudice Zvi Gurfinkel decide di rilasciare Tali dalla detenzione amministrativa mettendola agli arresti domiciliari nella casa di sua madre a Kiryat Gat, con una cauzione di 15.000 shekel, con la motivazione che le prove contro di lei non sono sufficienti a giustificarne la detenzione; aggiunge pero’ che la custodia di Tali é motivata da altro: se infatti non ci sono prove sufficienti per arrestarla, l’aver creato legami evidenti con «agenti esterni», anche al fine di proteggerli (come ha fatto Tali con Zakaria Zubeidi), è contro la legge; così come è considerato reato, seppure minore, l’aver tradotto a Zubeidi i documenti persi da un ufficiale delle Forze di Difesa Israeliane durante un’operazione a Jenin, nei quali si indicavano chiaramente gli obiettivi dell’operazione e le modalità per portarla a termine. Curioso é il fatto che non avendo però Tali «consegnato» il materiale a Zubeidi, ma essendosi limitata a leggerlo ad alta voce, questo non implicherebbe un livello di rischio tale da giustificare la sua detenzione; questo, anche perché molti tra i ricercati da Israele, secondo il giudice Gurfinkel, sono in grado di leggere in ebraico, pertanto la traduzione di Tali non avrebbe fatto alcuna differenza (Tali ha negato il fatto e comunque Zakaria Zubeidi parla ebraico).

 

Se però il giudice da un lato ha deciso di non trattenerla in prigione e di spostarla ai domiciliari, ha in ogni modo ritardato di 24 ore la messa in atto della decisione, per dare tempo all’accusa di protestare ed andare in appello. E così è accaduto, l’accusa si è appellata e Tali, per il momento, resta in prigione. Malgrado le condizioni psicologiche e fisiche di Tali non siano delle migliori, sia per lo stato di detenzione prolungata, sia per le pressioni a cui é stata sottoposta per costringerla a confessare reati che non ha commesso, Tali ha mantenuto un comportamento straordinariamente dignitoso e non ha mai smesso di parlare delle condizioni di vita dei palestinesi.

 

Accusata di «tradimento»

 

Le pressioni usate non si discostano dal solito metodo: presunte dichiarazioni di un prigioniero palestinese (rilasciate con ogni probabilità sotto tortura), per le quali durante la sua permanenza a Jenin Tali avrebbe visto del materiale esplosivo nelle mani di combattenti palestinesi. Ma, come dichiara la sua avvocata, se anche così fosse, e Tali ha fermamente smentito, questo non può costituire un motivo sufficiente per essere accusata di collaborazionismo nell’organizzazione di attentati terroristici in Israele.

Così come Mordechai Vanunu, anche lui di origine sefardita, tecnico della centrale nucleare di Dimona, nel deserto del Negev, in Israele, arrestato nel 1986 con l’accusa di spionaggio e tradimento allo stato per aver denunciato all’opinione pubblica internazionale l’attività illegale di Israele in materia di armamenti nucleari, anche Tali Fahima é vittima di quella che prende le forme più di una vendetta tribale che dell’applicazione della giustizia e del diritto; Tali e Vanunu sono entrambi attaccati dal governo israeliano, perché mettono in pericolo l’ordine sociale e politico. Le loro comunità (entrambi, come si è detto sono ebrei sefarditi) potrebbero venire influenzate dalle loro esperienze, e cominciare a fare domande scomode. Per questo sono presentati come traditori, dipinti come una minaccia alla sicurezza e integrità nazionale. In questo senso il nuovo arresto di Vanunu lo scorso 12 novembre, così come la detenzione prolungata di Tali nonostante le decisioni del giudice, testimoniano un atteggiamento persecutorio del governo israeliano nei confronti di chi sceglie di non giustificare come esigenza di sicurezza per Israele, le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale dell’esercito israeliano, l’occupazione militare, la distruzione delle case, i rastrellamenti, i bombardamenti di civili.

 

Lo sanno e lo denunciano i militari israeliani che hanno scelto di dire «No» e di condannare pubblicamente i crimini commessi dall’esercito israeliano. Come dice spesso Jonathan Shapira, pilota refusnik: «Ho detto no per amore verso Israele e i miei vicini palestinesi, e vedo ogni giorno di più restringersi nel mio paese gli spazi di democrazia».

 

Tali, il cui caso, quindi, non é ancora risolto, è di fatto vittima delle manovre del sistema, come evidenzia Yehudith Harel, di Gush Shalom e cofondatore della Palestinian Israeli Joint Action for Peace, «per spaventare tutti noi e dimostrare cosa può accadere a chi supera il limite. Beninteso, non il limite di `collaborare con il nemico’, ma la linea di sfiducia che quasi quarant’anni di occupazione ed espropri dal 1948 si è sedimentata tra noi e i nostri vicini». In questo senso, la libertà per Tali Fahima, sarà un piccolo passo per la convivenza e la democrazia.

 

Ibrahim, tassista, Amneh, venditrice di frutta, Ahmed, venditore di falafel, Adnan venditore di caffè, Um Khaled e tanti altri palestinesi di Jenin che hanno imparato ad amare Tali, in carcere le hanno fatto pervenire un messaggio di sostegno; la stanno aspettando e le dicono che le vogliono bene e che il suo amore per la giustizia e il suo coraggio corrono in tutta la Palestina.

Print Friendly, PDF & Email