5 Giugno 2001

Il femminismo fa rima con l’antiglobalismo?

Alberto Leiss

E’ possibile che la battaglia “sul simbolico della differenza” si intrecci alla rinnovata critica anticapitalistica che soffia con il “movimento dei movimenti” battezzato popolo di Seattle?
Potrebbe sembrare un quesito cervellotico, ma è stato l’anima di un imprevedibile scambio politico e teorico – e anche umano – avvenuto l’altra sera a Milano, nella sede della Libreria delle donne: da una parte La Cigarini e Luisa Muraro, teoriche e animatrici storiche di questa voce femminista, dall’altra la giovane giornalista americana Naomi Klein, autrice di quel No logo che sta diventando uno dei libri più rappresentativi dei movimenti critici della globalizzazione. Un testo apertamente apprezzato da Luisa Muraro come la prova più avanzata nel tenere insieme l’elemento simbolico, appunto, e quello “materiale” dell’opposizione al capitalismo delle multinazionali.
Ma che cosa vuol dire esattamente questa “politica del simbolico”? Nel tentativo di aprire un dialogo tra chi viene dalle pratiche di autocoscienza femminile vissute dopo il ’68 e una “figlia” di quel periodo (e la Klein ha dichiarato a un certo punto il suo debito proprio con la madre, leader femminista canadese negli anni della contestazione) si è rischiata a Milano una piccola catastrofe linguistica, nonostante gli sforzi di traduzione – tra inglese e italiano – di Maria Nadotti.
Ma in fondo la spiegazione più diretta si trova nego stesso libro della Klein: la politica “del marchio” praticata su scala globale, l’importanza che la grande azienda capitalistica moderna attribuisce alla produzione e alla vendita di “idee”, di comportamenti di “sogni” e “visioni del mondo”, che così è se non una vincente “strategia simbolica”? Certo, indossare un paio di scarpe Nike o Reebok non assicura di per sé la felicità, ma c’è qualcosa di vero nel fatto che su quei comodi piedistalli poggia anche buona parte di quella meta fantastica – ha detto qualcuno citando implicitamente Simone Weil – che compone le nostre vite quotidiane. Del resto, ha scritto recentemente Luisa Muraro, bisognerà pur riflettere sul fatto che il comunismo è crollato anche perché era accompagnato da un’eccessiva penuria di calze di nylon.
Dopo vari tentativi di difficile avvicinamento scatta la comunicazione tra generazioni e culture diverse, sia pure unite da una simile passione politica. “Ho letto centinaia di libri sul marketing – racconta Naomi – e mi ha colpito vedere che loro hanno capito una cosa semplice: il desiderio oggi è fatto di voglia di libertà, di uguaglianza, di ribellione”. E così il “turbocapitalismo” riesce a riappropriarsi continuamente anche dei sogni alternativi coltivati dai suoi critici: il “popolo di Seattle” è già diventato un gioco da playstation.
Ma il punto di vista femminile può suggerire strategie di contrattacco più efficaci? La Klein definisce come femminili alcune caratteristiche del “movimento dei movimenti” che lei apprezza: il dialogo nella rete, l’assenza di gerarchie piramidali e burocratiche, la “tessitura” di progetti legati a obiettivi comuni. D’altra parte il movimento stesso è fatto da “moltissime ragazzine” capaci di prendere a calci nel sedere le multinazionali, e sono giovani donne le operaie più combattive nelle fabbriche-lager del terzo mondo. La sua stessa biografia poi – la Naomi che si racconta nel libro – parla di una “ragazza-Barbie” che poi è diventata una “femminista militante” e che poi non si è accontentata più nemmeno di questo. La sua ricerca è spinta dall’ansia di “identificare bene il proprio vero desiderio”.
Già, solo se si è in grado di riconoscerlo, forse si è capaci di non barattarlo con il sogno fittizio costruito su un paio di scarpe da ginnastica, per quanto maledettamente comode e attraenti.
Ma, a proposito di desideri, esiste ancora un conflitto tra i sessi in questo nuovo movimento?
Naomi esita nella risposta, non gli piace parlare di maschi e femmine come ruoli sempre fissi, anche se in premessa ha dichiarato che la riscoperta della critica al mercato capitalistico non fa venir meno l’esigenza dell’impegno “antisessista” e “antirazzista”. Poi dice che c’è una componente “macho” nel popolo di Seattle che non rispetta le regole e che cerca di imporsi con la violenza praticando la violenza: e questo certo non lo apprezza. Di più, di fronte alle teoriche della fine del patriarcato rivela di aver scritto – tra alcuni capitoli del suo libro eliminati per esigenze editoriali – anche un testo sul “patriarcato funky”, dove si ragiona proprio della capacità del capitalismo-maschilismo di modificarsi inglobando le culture che lo criticano. Chissà se il lavoro da cronista militante della Klein riuscirà a difendersi da questo rischio contribuendo a strategie linguistiche (quindi simboliche) alternative più efficaci. Oppure se il destino del suo libro è già quello di essere il “Logo” del “no logo”.

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