1 Ottobre 2003
Carta

Il futuro degli studenti in un politico luogo comune

Andrea Bagni

C’è una strana affinità, ma anche una strana lontananza, fra il movimento nato a Seattle e la scuola.
Si parla continuamente del sapere come risorsa nuova e centrale del capitalismo postfordista, la questione dei beni comuni (come l’istruzione) e degli spazi pubblici (come la scuola) è presente nel dibattito generale, eppure si direbbe che questo movimento non abbia una sua idea di scuola, una sua pedagogia (magari anti-pedagogia).
Certo si denuncia l’aziendalizzazione delle scuole, la mercificazione del sapere, il tentativo di fare affari con il mercato dell’istruzione (software didattico per scambi a distanza, post-umani, sub-umani; un sapere tanto “universale” quanto astratto e strumentale).
E tuttavia la sensazione che ho è che non si riesca ad arrivare al cuore della scuola, e ad acquisire un linguaggio (ed un pensiero) adeguato a quel cuore.
I primi a non parlare di scuola mi sembrano proprio gli insegnanti, rassegnati a vivere nel microspazio delle proprie classi (sognandolo protetto dalla stessa inerzia del carrozzone burocratico – ma sbagliando perché le riforme ormai procedono per via amministrativa, e mutano risorse soggetti tempi e spazi del fare scuola quotidiano); oppure nelle “piazze grandi” del movimento, dei “laboratori per la democrazia”, della società civile. Comunque altrove.
Eppure il forum europeo di Firenze è stata anche una straordinaria esperienza di scuola, di università “universale” degli incontri, di traduzioni del sapere sociale per un mondo comune.
È come se il movimento non vedesse gran che la scuola per una specie di “eccesso di vicinanza”, perché quello che accade nell’incontro fra generi e generazioni diverse appartiene a un discorso pubblico di “politica prima”, alla possibilità di costruire repubbliche (sotto e oltre gli Stati, dopo le Nazioni e contro gli Imperi).
Ma anche il discorso sul sapere soffre, mi sembra, di una ambiguità non facile da risolvere.
È ancora vera la tesi (addirittura confindustriale, in epoca Lombardi), per la quale l’economia moderna non ha bisogno di professionalizzazione scolastica precoce, ma di un sapere di base diffuso, su cui articolare l’apprendimento delle innovazioni produttive in continua evoluzione, non raggiungibili dal mondo della scuola? Allora la Confindustria sottolineava orgogliosa il bisogno di una base di conoscenze solida – liceale diceva – per tutti i lavoratori. Va da sé che immaginava la formazione funzione di disponibilità, flessibilità e adesione al volere dell’impresa.
Però qualcuno mica ci crede tanto a quest’addio accelerato al novecento e ricorda la durezza materialissima dello sfruttamento capitalistico nel sud del mondo (o il peso dell’insicurezza sul lavoro nella vita precarizzata nel nord: altro che fine della società lavoristica, produzione linguistica che valorizza la conoscenza del ” posto dei calzini”, cioè quel sapere femminile che riconosce anche il grande padre Moro nello splendido film di Bellocchio).
Qualcun altro ricorda come le trasformazioni della scuola oggi puntino all’antico principio dell’esclusione e della divisione dei percorsi fra classe dirigente e non. Forse per quelli e quelle che dovranno eseguire ed ubbidire – flessibili disponibili e anche richiesti di un certo entusiasmo nell’essere imprenditori di se stessi nei lavori neo-servili – sarà necessaria una nuova formazione alla flessibilità, ma insomma di “sapere al lavoro” non si dovrebbe in verità parlare: si rischia perfino l’apologia del capitalismo.
Il fatto è che il sapere e la dimensione linguistica del nuovo lavoro sono un po’ da problematizzare.
Voglio dire che forse quella che viene tradotta in lavoro è una conoscenza operativa trasversale, minima e miserabile; non si forma nelle scuole o nelle università (almeno non in quelle che abbiamo conosciuto fin qui) e ha orrore di una dimensione personale e critica; neppure ha bisogno di tempi e spazi distesi, lenti, specifici.
Mi pare una specie di alfabetizzazione simbolica estesa quanto piatta, priva di profondità; flessibile e polivalente quanto incapace di scavare e approfondire.
È una conoscenza che si fonda fuori delle scuole, nel tessuto segmentato e mobile del sapere “usa e getta” della comunicazione di massa: per contatto e assimilazione sociale. Forse si può dire che comporta l’accettazione del mondo, il vivere senza passato in un presente assoluto, in chiave di adattamento, adesione, navigazione abile e operativa sugli “amari abissi” che vedeva invece l’albatros di Baudelaire…
Forse alla scuola chiede davvero il capitale poco più che controllo e socializzazione. O chiede una sorta di prima esperienza “formativa” di adattamento alla mega-macchina buropedagogica, distributrice di pagine e voti, debiti e crediti – come una fabbrica fordista del sapere di massa: luogo di moduli da assemblare, test da somministrare, certificati da certificare, rendimenti da misurare; tutto in termini rigorosamente quantitativi (come un prodotto interno lordo) e prestazionali. Tutto il resto essendo poesia, o peggio politica (e magari sono la stessa cosa). Una via di mezzo fra fabbrica, caserma e “parco giochi” di formazione del perfetto consumatore: istruito ai libretti d’istruzione, alla ideologia della subordinazione e insieme competizione individuale…
Allora penso che bisognerebbe lavorare nella scuola per un altro sapere – aperto, informale, pubblico, capace di critica dell’esistente: di autonomia e libertà personale; bisognoso di tempi lenti e luoghi ravvicinati relazionali, umani… Un sapere che costituisca sovversiva eccedenza culturale.
E tuttavia, pur con tutte le cautele del caso, mi pare importante riflettere su quella dimensione culturale comune, qualità politica del lavoro, e su ciò che questa comporta per la scuola e la conoscenza.
Certo che i monitor della Silicon Valley non hanno cancellato i luoghi come Cavite (di cui ha raccontato anche Naomi Klein): li hanno integrati e moltiplicati.
Ma a me sembra che comunque sia in gioco oggi in chi lavora (sempre più precario e marginale – ma sempre meno ai margini) una dimensione soggettiva e singolare nuova. Un general intellect che non è più tutto e solo incorporato alle macchine, ma direttamente operativo nei corpi del lavoro vivo (peraltro sempre più corredati di protesi post-umane, tipo mouse o tastiere). Individualità che diventano solitudini competitive; abilità relazionali che si vendono come “cura delle relazioni col cliente”, sapere che si riduce alla tecnica del sapersi presentare (perfino nelle nostre vecchie scuole si fanno corsi su come si costruiscono curriculum “seduttivi” o si affronta un colloquio: dall’etica del lavoro all’etica del perderne e trovarne uno qualunque, vendendosi bene). E l’identità in crisi si può trovare nell’adesione all’azienda (Cristian, un mio ex studente che lavora da pochi mesi in un discount, mi dice che noi facciamo i migliori prezzi della Toscana. Loro, la sua ditta).
Non credo sia già pronto, in esodo da qualche parte, il soggetto rivoluzionario post-statale, post-nazionale (affascinante ma astratto esattamente quanto l’impero), però di sicuro nelle teste, nella loro eccedenza di conoscenze o abbondanza di sotto sapere, nella loro singolarità competitiva o cooperativa, relazionalità politica ridotta a merce – qui è il cuore del conflitto. Non è questione solo di politica economica, ma anche di politicità dell’economia.
Il lavoratore della grande azienda del novecento poteva immaginare di liberarsi restando ingranaggio della fabbrica, ma “facendosi stato” attraverso la sua rappresentanza istituzionale. Dall’alto e da fuori, in un certo senso, non da dentro. Contava una società rivoluzionata, più che rivoluzionaria; contava la norma costituzionale, più che la dimensione costituente.
Oggi forse, almeno tendenzialmente nel nord imperiale, si è meno ingranaggi della catena, più liberi nelle braccia, nei ritmi e nei luoghi di lavoro – ma più precari, meno liberi dal lavoro e più asserviti nelle menti, invasi nel tempo libero (che i marchi studiano e vendono come prodotto culturale, più della vecchia merce), con il lavoro che si porta a casa nel computer e ti resta tutta la notte nella testa.
Non ci si libera (credo) sognando di essere stato. Assomiglia più a un altro incubo.
E ci sono forse possibilità di senso politico proprio dentro il proprio lavoro. Che è come dire che si hanno desideri oltre che bisogni sociali. Che si può resistere politicamente perché si esiste in relazioni politiche (magari anche continuando a tenere le bandiere alle finestre: segno singolare che si lascia in un mondo comune, altro che identità con l’azienda).
Insomma si è produttivi e politici con la propria stessa vita: è la soggettività in gioco, oggetto del comando, luogo dello sfruttamento come della costruzione conflittuale di relazioni politiche. Nel “vecchio” novecento credo l’abbia sempre saputo il femminismo.
Che c’entra la scuola o l’università con tutto questo? C’entra, c’entra. Domandatelo a ragazze e ragazzi quando hanno chiuso i libri e si domandano che cosa ha a che fare con loro tutto questo “futuro”; quando cercano un valore d’uso del sapere oltre il (miserabile) valore di scambio.
Forse non importa nemmeno che sia scuola “sovversiva”. Basta che sia davvero scuola, pubblica. Politico luogo comune.

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