19 Novembre 2003
Carta

Il grande bidello

Andrea Bagni

Sul caso Virgilio e la polizia a scuola in cerca di droghe si potrebbe anche scherzare un po’. Provate a pensare ai poliziotti travestiti da bidelli, dediti a fare opera di spionaggio: sembra uno dei primi film di Woody Allen, telecamere nascoste in panini tenuti all’altezza degli occhi; un caffè con la canna chiede sempre una collega al bar: analisi del sangue, perquisizione notturna e via. Personale non decente.
Ma invece le cose sono molto più tristi. E non parlo qui dello squallore e della volgarità di questo governo e del suo rigore. È troppo evidente e sotto gli occhi di tutti. Come un animale ferito, in questi ultimi due anni può fare di tutto per salvarsi. Di tutto di più. Droghe ordine famiglia calcio patria…
Io, quando anche avevo l’età giusta e tutti i miei amici lo facevano, non ho mai fumato; né tabacco né altro. Fondamentalmente non credo di avere mai posseduto la tecnica: mi mancava il know how, come direbbe Berlusconi. Tossivo e basta, poi quando mi sono stancato di tossire ho smesso.
Oggi non è che mi faccia un buon effetto vedere un mare di ragazze e ragazzi che ai concerti (o alle manifestazioni, peggio ancora) bevono orrendo vino in bottiglie di plastica senza etichetta o si fanno una canna dietro l’altra. Ho il timore che gli piaccia perdersi, stordirsi, proprio lì dove secondo me si dovrebbe essere attenti e “critici”. Politici. Hanno tutto un altro modo di essere presenti, forse; fisico piuttosto che intellettuale. Da immersione totale. Non riesco gran che ad apprezzarlo, tuttavia penso che l’erba resti un rito collettivo, un modo di appartenere a un gruppo intorno a droghe fra noi leggere. Tutt’altra roba dalla tossicodipendenza, che isola e dispera.
Penso siano aspetti di un mondo con cui fare i conti. Misurarsi per avere senso e dare misura. Ma sembrano, in realtà, essere andati in crisi tutti i luoghi del discorso e degli incontri. Nelle scuole la polizia, nelle città le zone rosse, nelle democrazie Schwarzenegger. E della scuola che rimane, se scompare la possibilità del discorso e del dialogo?
Nel mio istituto tecnico sono due anni ormai che abbiamo le telecamere in portineria da Grande Bidello. Abbiamo ottenuto, dopo estenuanti trattative, che siano puntate solo sugli ingressi e sulle porte d’uscita, ma l’argomento era irresistibile: ce lo chiedono i genitori, ci sono problemi di sicurezza (sicurezza è la parola chiave).
In alcune scuole della mia città già si entra con un tesserino magnetico che “strisciato” segnala immediatamente la presenza o assenza da scuola, perché le famiglie possano controllare in tempo reale, come si dice oggi. Da casa, fra un programma televisivo e l’altro; in una pausa dall’ufficio. Anche le pagelline gliele mandiamo a casa, come una bolletta.
E si progettano registri elettronici che si possano consultare on line, per i voti. Conta il controllo ragazzi. Degli adulti.
E conta la punizione, puntuale e precisa. Meccanica e inesorabile, come quando ad ogni occupazione il collegio delibera di abolire le gite. Corrispondenze. Niente deve restare impunito.
Di che cosa fate a scuola, di cosa parlate fra di voi o con gli insegnanti, non gliene frega niente a nessuno. Conta sapere dove siete, cosa avete in tasca – non in testa o nel cuore. Non deve succedervi niente in classe.
E infatti quando torna mia figlia: com’è andata oggi a scuola? Bene. Che avete fatto? Niente.
Mi sembra il sogno della società e del mercato. Una scuola di contenimento che non sia disturbata da un qualche contenuto, da una pericolosa passione. Le cose che contano (quelle che si possono contare cioè) si producono altrove, mica nelle scuole. Così obsolete, lente, retoriche… Non in tempo reale.
Anche noi insegnanti, che passiamo un mare di ore all’anno con ragazze e ragazzi, ci crediamo poco che stia lì il nostro ruolo (adulto, asimmetrico, fatto di parole e di emozioni, massimo di autorità minimo di potere come ha insegnato il femminismo): non abbiamo fiducia che da lì possano passare messaggi che lasciano segni, e ci affidiamo alla sanzione – impersonale, istituzionale, liberatoria e irresponsabilizzante per i giovani, che dopo aver pagato hanno “saldato il debito”.
E invece a noi tocca resistere in una specie di guerriglia gentile delle parole e dei sentimenti; tenere aperto lo spazio del discorso e darsi il tempo delle domande. Lento e paziente. Anche un po’ ribelle. Un tempo regale.

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