23 Febbraio 2004

Il meglio dell’Italia: la scuola materna e elementari

Vita Cosentino

Dopo gli autoferrotranvieri, la scuola, quella vera, ha riempito le pagine dei quotidiani per l’esplosione di una lotta che non accenna a fermarsi. A guardare quei volti sorridenti di maestre, di bimbi, di mamme e papà, vien subito da dire che questa lotta smentisce l’allarme lanciato in ottobre dall’Espresso di insegnanti sull’orlo di una crisi di nervi, diagnosi che aveva dato la stura al solito parlar male della scuola e di chi ci lavora. Forse invece conferma quell’allarme, però di nuovo c’è che il malessere ha trovato una via d’uscita nella politica, nell’esserci in prima persona. Se n’era già visto un piccolo segno in un semplice gesto di dignità, partito spontaneamente nelle scuole prima di Natale: rispedire al mittente le agende Moratti, regalo che portava con sé il marchio da dipendente aziendale. Proprio quello che maestre, professori e professoresse non vogliono essere. E lo dicono ormai da anni a governi di centrodestra e di centrosinistra.
Eduardo di Blasi (Unità 18/1/04) facendo la cronaca della manifestazione di centomila a Roma, registra così questa ripresa della politica: “…la politica, quella vera, quella che viene dal basso, quella che spinge una preside, madre di figli, a portarsi in giro dei sacchi della spazzatura con scritto “Riforma Moratti”, quella che porta una donna in evidente stato di gravidanza a sfilare con marito, figlia e nascituro, quella che porta in piazza carrozzine di neonati e carrozzelle di disabili“. La novità che desta maggiore stupore viene messa da Roberto Crotoneo sulla prima pagina dell’Unità: un terzo della manifestazione è fatta da bambini e bambine, una cosa mai vista. Ne scrive con toni da Guinness dei primati: “Chissà se lo sanno quei trentamila bambini di ieri. Che questa storia farà il giro del mondo. In un paese occidentale, civile, europeo, trentamila bambini in piazza. E bambini piccoli, di sei, sette, otto, fino a dieci anni di età. Con i genitori, certo, e con le loro maestre“.
C’è un’originalità in questo movimento che i giornali colgono attraverso la presenza dei piccoli, ma che non spiegano. Sarebbe sbagliato considerarlo solo una lotta di categoria, non sono solo insegnanti, come è accaduto in passato. Le scuole infatti sono uno spazio pubblico di incontro tra insegnanti, studenti e genitori, e il miracolo forse è potuto capitare perché il cuore di questo movimento è costituito da scuole materne e elementari. Nella scuola di base i genitori, più spesso le mamme, accompagnano ancora i figli e le figlie a scuola e parlano con le maestre tutti i giorni, specie se sono piccoli, e per tradizione mantengono una relazione viva e spesso danno una mano per le feste e per i laboratori. Questa volta le maestre hanno saputo parlare anche di quello che stava capitando con la riforma Moratti e la cosa ha funzionato. Un’amica, insegnante alla scuola Martiri della mia città, mi diceva che proprio la presenza dei genitori le ha ridato forza, la forza di riportare al centro la questione della qualità della scuola. L’idea vincente forse è stata proprio farsi aiutare e condividere.
Un’altra questione che emerge dalle cronache di questi giorni è sul senso di questa lotta: è solo di opposizione alla Riforma Moratti? È solo per la difesa del tempo pieno? No. Questa lotta non è solo di opposizione. Maria Novella de Luca per Repubblica (17/1/04) è andata a Primavalle, un quartiere duro della periferia romana, in una delle scuola elementari occupate, la XXV aprile. Fa parlare una mamma, Claudia Maluzzo, quarantadue anni e tre figlie, e la Direttrice Rosetta Rossi: “… quello che difendo – dice la mamma – è la qualità di questa scuola, noi inglese e il computer ce l’abbiamo già da dieci anni, qui alla mensa si mangiano cibi biologici, i ragazzini fanno lezioni di ecologia, coltivano le aiuole…, ma perché quella signora ministro vuole buttare tutto a mare? “. La giornalista è visibilmente colpita e trova parole per raccontare relazioni inedite e un modo di essere scuola che non conosceva. Come la bellissima idea della direttrice di usare le parole al posto delle indagini poliziesche e delle punizioni per far cessare i furti: “… nel 1991 la mensa veniva puntualmente saccheggiata…, allora “ho deciso di aprire la scuola al quartiere, coinvolgendo i genitori, e mettendo dei cartelli in cui avvertivamo “chi vuole essere invitato a pranzo si presenti alla mensa” e da allora non è sparito più nulla”. “Usiamo le parole. questa è una scuola di frontiera, ma chi ci lavora ha una motivazione forte“.
Le scuole materne ed elementari sono considerate le ultime con i criteri di valore delle gerarchie scolastiche – per es. prendono gli stipendi più bassi – e invece sono la parte migliore della scuola italiana, quella che più è già cambiata e vuole esistere per quello che è diventata.
Dopo Roma, Milano. Il giorno di San Valentino in quarantamila si riversano in piazza Duomo per una “manifestazione d’affetto per la scuola pubblica”. Assieme a maestre, mamme, papà ancora tantissimi bimbi e bimbe, nonostante le polemiche furiose sulla strumentalizzazione politica dei bambini, culminate in una proposta di legge di vietare il dissenso ai minori. Il giorno prima, in più di 100 scuole occupate simbolicamente per un’ora, assieme hanno inventato frasi, canzoni e preparato striscioni a mano. Come a Primavalle, anche qui la lingua, l’uso che ne è stato fatto, la scelta delle parole in cui riconoscersi, hanno salvato la situazione, in questo caso dall’accusa di strumentalità. Io stessa alla manifestazione ho raccolto da mani bambine foglietti che è una forzatura chiamare volantini: erano tutti diversi, uno per es. diceva “le mie maestre vogliono continuare a lavorare insieme” e un altro “Per mandar via mo-ratti, ci vogliono mo-gatti“. In comune avevano una scritta “io amo la scuola pubblica” e la firma: Comitati genitori-docenti/Forum delle scuole del milanese. Dietro a queste parole si vedono grandi e piccoli che si parlano e, parlandosi, escono dal politichese.
Questa volta la stampa quotidiana ha trovato parole fedeli ai fatti: molti giornali hanno messo in luce la creatività, l’aspetto giocoso dei cortei e colto fin da sottotitoli e occhielli l’aspetto politico più nuovo: l’autorganizzazione. Proteste organizzare con il passaparola (Republica), Un’inaspettata folla per una manifestazione organizzata “dal basso”, con il tam-tam dei comitati spontanei dei genitori e gli appelli su internet (Unità), Chitarre, megafoni e striscioni lungo il percorso “Siamo senza Leader e senza sigle” (Corriere).
In questa inedita capacità di esserci c’è un senso della politica che va oltre la consueta lettura di forze che si muovono “dal basso”. Lo conosco per via della mia esperienza nella politica delle donne e oggi sta emergendo tra donne e uomini. Di recente Alain Touraine, in una intervista all’Unità (17/1/04) ha affermato che siamo in una fase nuova: è entrata in crisi la maniera tradizionale del sociale, distrutta dalla società di massa e globale, e viene avanti un mondo fatto di identità e soggettività culturali. Lo chiama “movimento collettivo dell’intimità“, ed è teso “non più alla conquista utopica del mondo, bensì all’affermazione pubblica dell’interiorità“. Nella manifestazione di Milano la scuola ha parlato questa lingua. Mi torna in mente una spilletta, preparata dalla scuola Bacone che andava a ruba. C’era scritto sopra “La scuola sono io“. Sembrava fare il verso a Luigi XIV. Più profondamente dice la politicità dell’oggi.
La scuola italiana da tempo si stava già modificando per forze proprie – l’abbiamo chiamata autoriforma – e questo cambiamento aveva bisogno da parte di chi governa, da parte di intellettuali e giornalisti, di attenzione e cura, per essere lasciato libero di esprimersi e casomai favorito ed esteso lentamente. Invece sono cominciate a piovere riforme dall’alto che ci hanno messo sempre più in difficoltà, fino alle devastazioni di oggi a cui queste lotte vogliono dare uno stop. Ma i problemi della scuola sono ancora tutti sul tappeto. Ho trovato nell’editoriale del Manifesto (17/1/04), a firma Domenico Starnone, una sensibilità a questa questione politica, invece la Jena con il suo trafiletto sarcastico sui “soggettini”, cioè i soggetti bambini, mostra di non aver capito cosa sta succedendo. Starnone, tirando le conclusioni, dice: “La scuola pubblica, se la si ama, se la si vuole salvare, va guardata con spietata lucidità. La battaglia di oggi a tutela de tempo pieno e contro l’opera devastatrice del centrodestra, giustissima, sarebbe ancora più giusta se riuscisse a riavviare la tensione verso una scuola ben fatta, rifatta. Molti insegnanti ci riescono, giorno dietro giorno, ma in solitudine, tra difficoltà enormi“.
Già ai tempi della Riforma Berlinguer, contro il famigerato concorsone che stabiliva gerarchie interne e distruggeva la collaborazione tra insegnanti, c’era stato un movimento non organizzato che era riuscito a fermare il provvedimento, in nome di un’altra idea di scuola. Ma immediatamente hanno ripreso il sopravvento partiti, sindacati, organizzazioni di ogni tipo e rapidamente si è spento tutto.
Ora chiedo: sono disponibili le forze politiche, i sindacati, le organizzazioni, a fare un passo indietro per imparare che cos’è la scuola da chi la fa, da chi la ama? E a ripensare le forme della politica a partire da quello che capita nelle scuole?

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