13 Gennaio 2005
il manifesto

Il metro della qualità o quello dei bisogni?

Chiara Zamboni

Il progetto di riforma di Letizia Moratti sullo stato giuridico dei docenti universitari è un tassello di un più grande mosaico che coinvolge, oltre all’università, la scuola e il senso stesso di fare e trasmettere cultura e sapere. Val la pena fermarsi un poco su questa riforma e sull’università, che è oggi un laboratorio in cui avvengono slittamenti di senso, esperimenti di trasformazione del simbolico. Vediamo: nel nuovo stato giuridico c’è la proposta di rendere precarie le figure dei docenti. L’idea è di impegnarli con contratti a termine senza assumerli. E così saranno poi più ricattabili da parte delle istituzioni accademiche. Diminuire di circa un terzo i docenti assunti in modo stabile, con l’eliminazione del ruolo dei ricercatori, obbliga quelli restanti a dover coprire moduli vari e molteplici, di frequente lontani dalle linee di ricerca in cui sono impegnati, con un aumento delle ore di insegnamento, a quel punto ormai separate dallo studio. A ciò si aggiunga la tendenza a mettere sullo stesso piano gli insegnamenti forniti dall’ateneo con quelli che possono venire dal mondo del lavoro. Tutto ciò suggerisce l’intenzione dei riformatori di eliminare il tempo necessario perché insegnando si crei un rapporto di fiducia con gli studenti, di slegare questo legame: sarà lo studente a portare con sé come singolo, la certificazione delle «offerte formative» seguite, pezzettini di sapere presi qui e là a seconda del «luccicare» maggiore sul mercato dei progetti, dei master, dei corsi di specializzazione. Mentre chi ha un po’ di esperienza di insegnamento sa che, solo se si è venuta a creare fiducia reciproca, allora un discorso risulta formativo e non semplicemente informativo e le domande delle studentesse e degli studenti possono cambiare l’andamento di un corso.

 

Ci sono dei segni che già si leggono nei discorsi, nei volti, nell’espressione irrigidita di molti insegnanti dell’università, ma ancor di più della scuola, dove questi processi sono avviati da un bel po’. È la rigidità della rassegnazione e della fretta, del non aver più tempo a causa della moltiplicazione dei progetti, dei moduli da tenere, ognuno isolato: murato vivo nel fare e dalla presa d’atto che quel che ha imparato dall’esperienza propria e degli altri non conta nulla agli occhi dei riformatori, i quali, presi da un impeto di costruzione dal nulla, hanno cancellato percorsi sperimentati, scoperte, saperi.

 

Appare come una delle conseguenze – anche se ovviamente non lo è – che la frammentazione delle «offerte» di didattica e di ricerca porti di necessità a un governo di pochi, che abbiano – almeno loro, si dice – il quadro generale di questo mare infinito e sappiano perciò orientarlo. Così i consigli di facoltà nelle università come i consigli di istituto nelle scuole sono sempre più luoghi dove si dà un assenso formale a decisioni prese altrove dai pochi docenti che si prendono l’incarico di aiutare i presidi per «governare» l’università, la scuola. In questo modo le gerarchie di potere sono l’altra faccia della frammentazione. Avverto in chi conosco angoscia, sofferenza e insofferenza per questo che viene sentito sempre più come un piano inclinato inevitabile.

 

Il desiderio di qualità, che guida comunque, oggi come un tempo, chi fa ricerca e didattica, è stato in questi ultimi anni oggettivato e stravolto nell’«eccellenza», che contrappone un ateneo all’altro. La qualità è diventata sinonimo di competitività per offrire al meglio saperi e formazione. Per il ministero «qualità» significa il calcolo quantitativo della produzione di testi, convegni, iniziative. Una parola che ha finito per significare qualcosa di diverso dal desiderio soggettivo di qualità che accomuna persone molto diverse. Le parole, si sa, hanno una presa simbolica e un peso politico che varia nel tempo. È avvenuto che questa parola, così orientante fino a quando ha tenuto, in una tensione dialettica, soggettività e modificazione del reale, abbia perso efficacia politica.

 

Ora a me sembra che queste trasformazioni in corso creino più malessere alle donne che agli uomini. In genere la forza dell’insegnare è affidata a quel che di vero e coinvolto si riesce a dirsi tra insegnanti e studenti e come ci si confronta con gli altri docenti. Così la ricerca ha sia momenti di lavoro solitario sia intensi momenti di discussione con gli altri. La maggior parte delle donne che conosco hanno più inclinazione a questo che alla gestione della frammentazione, al governo generale della realtà, che prescinde dai legami creativi con gli altri. Al massimo si pongono alla guida di dipartimenti, perché sembra loro di tessere meglio le relazioni esistenti. E dunque mi sembra che soffrano maggiormente quel che sta avvenendo, meno interessate a ritagliare spazi settoriali, a distinguere campi per poi riunirli, a posteriori, nel «governo» della realtà. Alcuni uomini si pongono nella lotta virile di combattere per il potere, per poter gestire poi in un modo o nell’altro l’università, altri si ritirano in una posizione di resistenza. Al limite, di estraneità.

 

Che fare? Due strade. La prima: esercitare il benefico lavoro della critica, per mostrare come il simbolico dominante si stia trasformando oggi nelle parole adoperate come anche nelle pratiche progettate. In questa chiave ho indicato il legame complementare che esiste tra il rendere sempre più gerarchica la gestione della università e la frammentazione delle offerte di ricerca e didattica. Simbolo del resto di una tendenza che va molto oltre la scuola e l’università.

 

La seconda: incominciare ad interrogarci politicamente su quali bisogni abbiamo nel fare ricerca e nell’insegnare. Intendo proprio bisogni primari, che avvertiamo come assolutamente necessari per rimettere in movimento percorsi vitali. Ad esempio il bisogno di tempo per pensare, non riempito dal fare, per capire con gli altri il senso personale e politico di quel che stiamo facendo. Anche: il bisogno di far circolare affettività, desiderio e passione nel lavoro. Ancora: il bisogno di ragionare sulla differenza di desideri tra insegnanti e studenti. Il bisogno di essere aiutati dall’istituzione.

 

Parlo non a caso di bisogni. Le ultime riforme della scuola, dell’università (e non solo) hanno disgregato simbolicamente una forma di vita. Molti docenti non se ne sono ancora completamente resi conto e vivono brandelli di una vita parallela segnata da un tempo ormai scomparso. Non mi aspetto certo da altre riforme il tessere una nuova forma di vita, dato che è qualcosa di fragile che ha a che fare con l’esistenza prima ancora che con le leggi, che possono solo venire dopo. Dopo che il tessuto si è ricreato. Sentire di che cosa abbiamo bisogno, metterlo in parola, significa toccare ciò che sta tra corpo e pensiero, tra esistenza e legami simbolici con gli altri. Ritornare alle radici del fare cultura, tra materialità corporea e gioco simbolico.

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