8 Febbraio 2005
l'Unità

Il movimento si racconta

Marco Guarella

Scriveva nel 1649 di Gerrard Winstanley, un membro del gruppo dei diggers inglesi (fautori dell’abolizione della proprietà privata che, con azioni esemplari, incoraggiavano i poveri a rivendicare il diritto alle terre comuni): «pensieri e parole mi sovvengono secondo cui frasi e libri non sono nulla, devono morire, poiché l’azione dà vita a tutto e, se non si agisce, non si realizza niente».
Sono mesi, oramai, che si discute della crisi irreversibile del movimento globale. L’interrogarsi, in difesa e indifesi, su percorsi e strategie nuove per liberare energie contro neoliberismo e guerra, mostra i limiti e i sintomi della paralisi e della cristallizzazione politica. Nonostante questa impasse, al di là della capacità di prevedere i ritmi «carsici», dimensione etica e centralità dell’agire comunicativo rappresentano e costituiscono un tessuto comune, un punto di non ritorno.
Tuttavia proprio la dimensione simbolico-mediatica è stata occasione propizia e limite: garantendo accumulazione di energia ma differendone, all’infinito, nella sua applicazione. Come elemento di novità nel quadro socio-politico, l’entrata sulla scena del Movimento ha sicuramente rotto un «quieto vivere» dello sviluppo neoliberale o imperiale che si voleva libero da contraddizioni interne: una forza dirompente che nelle ultime stagioni è stata capace di (ri)modificare il linguaggio (bio)politico, sconvolgendo sostanzialmente «il mondo politico».
Parlare di Movimento, tuttavia, suggerisce un fenomeno univoco; sarebbe più corretto parlare di «movimenti» o di molteplici istanze ed obiettivi; oggi (al pari di come gli storici scrivono di les années ’68), possiamo parlare di movimenti al plurale, riproponendo la necessità di valutare Seattle non come un evento – in un passaggio analogo alla lettura storica del «Sessantotto» – ma considerarlo parte di un processo storico, che inizia prima del ’99 e prosegue sino ad oggi. Ridurre questo ad una esplosione improvvisa, non permetterebbe di capirne le origini e di indagarne gli esiti. Lo stesso Forum di Porto Alegre, concluso da pochi giorni, pur conservando la sua autorevolezza di «spazio dialettico», mostra la corda e la fine, o il cambio, di un ciclo.
Cinque anni fa, diffondendo il suo messaggio e il suo metodo in ogni angolo del pianeta, cominciò un processo che si è articolato e consolidato in modo vertiginoso: un insieme di forze produttive alternative che voleva dare visibilità a una molteplicità di pratiche e stili di vita dimostrativi di altri mondi possibili. Ma oggi, in una dimensione di guerra permanente, all’interno di qualsiasi Forum o assemblea «programmatica», in centinaia di spesso auto(ec)citanti, seminari di «nuova politica» (che «tifino» Lula o Chavez), non possiamo eludere lo sfondo della natura bloccata dei sistemi politici.
È lecito domandarsi quale sia per i movimenti il rapporto tra «riforme» e «antiglobalizzazione»?
Ridurre i cosiddetti no global a pura opposizione, che nasce e si sviluppa su molteplici sollecitazioni per poi inaridirsi nella riproposizione dell’anticapitalismo tout court, non permette di comprendere il fenomeno degli ultimi anni. Possiamo vedere, infatti, come comportamenti, gusti e valori affermati nell’ultima stagione, a differenza di altri cicli, non siano entrati in conflitto con la tradizione e i valori consolidati della Sinistra: questi movimenti pur nella loro radicale alterità hanno accettato se non il dialogo, almeno il confronto a distanza. La sinistra ufficiale, semmai, nell’incertezza se «recuperare» e convincere del proprio realismo (politico), ne ha sussunto una parte rilevante di linguaggio estetico. Tutto questo con timori, contraddizioni e paradossi perché, se, da un lato, nelle esperienze e nella pratica dei movimenti si consuma una riaffermazione dell’individuo sulla società, dall’altro, si pone il rifiuto di ogni retaggio di autoritarismo statale del XX secolo e la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto fordista.
Ma l’opposizione al neoliberismo è anche una rivolta fatta di storie non raccontate. Il potere politico e mediatico ne ha spesso fornito, nei suoi canali maggioritari, una rappresentazione semplificata, monocromatica, tralasciandone le diversità. Si avverte la necessità, di una storia sociale assai più articolata e complessa di quella tradizionale, costituita da momenti quotidiani e storici, intimi e al tempo stesso pubblici, pregni di umori, timori e ispirazioni. Di fonti capaci di narrare una congerie di soggettività. Prendendo come punto di partenza le esperienze delle persone coinvolte, troviamo un testo che tenta di sovvertire il modo tradizionale di raccontare le proteste dei movimenti: è Siamo Dappertutto (Marco Tropea Editore) libro, con la prefazione di Naomi Klein, che raccoglie 55 storie del movimento New Global, con 150 fotografie che documentano ben 10 anni del movimento di protesta anti-Globalizzazione.
Siamo dappertutto si situa a metà strada fra un’antologia del movimento e una storia raccontata dal basso, fra un collage delle varie forme di protesta e un manuale di azione diretta. Il volume si divide in sette sezioni, ognuna sulle caratteristiche principali del movimento, cui segue, più o meno in ordine cronologico, una serie di storie che ne evidenziano lo sviluppo dal suo sorgere fino alla maturazione.
Tra le storie, alcune divertenti, come, quella a Londra, di «Tactical Frivolity»: ragazze che vanno (in)contro alla polizia in tenuta supersexy; o il gruppo «Torte armate» che colpisce a torte in faccia i rappresentanti del mondo degli affari (lo hanno fatto, ad esempio, al direttore della Banca Mondiale); e, ancora, «Culture jamming», le guerriglie mediatiche che hanno portato a modificare il dispositivo vocale di centinaia di bambole Barbie e G.I. Joe in commercio negli Usa, facendo dire a Barbie: «I morti non mentono», e al soldato Joe: «Vuoi andare a fare shopping?».
Ci sono, ovviamente, anche Agende Nere, gli eventi segnati dalla violenza della repressione degli apparati di sicurezza statali, come quelle del G8 a Genova nel 2001. Quelle giornate, sappiamo, sono state sistem(at)icamente archiviate nell’indifferenza di questo Paese.
Ma tra queste pagine troviamo ancora la dignità e la speranza che la figura di Carlo Giuliani corra ancora veloce per il Mondo.
Questo volume, in libreria, non passa inosservato soprattutto per la sua forma a mò di mattone, da scagliare, nella sua sostanza, contro il silenzio e l’indifferenza.
Il libro inizia con la rivolta zapatista, postulando come l’insurrezione del 1° gennaio 1994 abbia inaugurato una nuova epoca per i movimenti di resistenza; il «cerchio» si chiude, con la rioccupazione di San Cristobal de las Casas, avvenuta il 1° gennaio 2003.
Poche settimane dopo avremo, segno forse di un cambio d’epoca, la più grande e simultanea manifestazione mondiale contro la guerra all’Iraq che raccontò l’ottimismo di un’altra, almeno linguistica, «superpotenza».
Ma questo non è solo un libro sui movimenti ma, «autenticamente», dei movimenti: le esperienze assumono immediatamente un valore emblematico, come una serie di istantanee che però non diventano mai una ricostruzione impersonale ed oggettiva. Questi materiali sono i presupposti ad un’indagine sui gruppi che si articolano nella trama complessiva della continuità sociale; la stratificazione sociale e culturale, la ricostruzione della mentalità, l’individuazione dei miti e dei valori su cui si regge la convivenza e l’osservazione dei consumi costituiscono un insieme di motivi ispiratori della globalità storica.
Rispetto alla tradizione francese (che segue un cammino logico dal materiale, all’economico, al sociale, fino ai comportamenti collettivi e al politico) il libro «assume lo sguardo» anglosassone dell’immediatezza e dell’intuitività, cogliendo il «gruppo» per i suoi tratti specifici: una attribuzione di valore all’intimità, alla soggettività e alla diversità, dove alcune storie personali raccontano, spesso, di più di qualsiasi manifesto politico. Se un libro può essere un carnevale di storie anziché un racconto lineare, questo ne è un esempio capace di parlare di uno sforzo tenace e oscuro di persone la cui unica ricompensa è la consapevolezza. Più che tranquillizzare i diversi e nuovi allievi (dove la comunicazione fonde allievo e spettatore) i movimenti si servono e necessitano di affermazioni paradossali incerte e di un senso di riverente timore a riflettere. I filosofi dell’antica Grecia chiamarono tutto questo aporie. La parola significa in effetti, mancanza di poros – un cammino – di una via, di un passaggio.
Questa aporia dei movimenti, fatta di sconcertanti paradossi, dovrebbe porre ogni soggetto della moltitudine ad assumere la responsabilità di stesso.
In questo momento di silenzio rispetto all’antiglobalizzazione (nel silenzio dei movimenti stessi), si può, inequivocabilmente, negli albori di un (di)battito storiografico, cominciare a percepire l’eco dei numerosi accenti, delle diverse voci – lingue e sfumature – con cui sì e definito e narrato «l’epos no global». Il rinnovamento della storia sociale dei movimenti riguarda soprattutto la metamorfosi dello sguardo, l’allontanamento da un mero approccio economico e l’avvicinamento a una storia culturale, essa stessa in evoluzione.
Si ricercherà il modo di documentare, divulgare e amplificare le storie inascoltate che i movimenti di base hanno intrecciato nelle lotte globali dell’ultimo decennio.
Seguendo alcune linee di una rete complessa, diffusa e priva di centro, nel dipanare esperienze personali, sappiamo persistere – a causa delle barriere linguistiche, culturali e geografiche – ancora numerosi luoghi irraggiungibili che impediscono di ascoltare molte «altre voci»; ma il Sud del pianeta ha tradotto le sue lotte anche grazie alle testimonianze, ai mezzi, degli attivisti occidentali. Sembrerebbe l’adagio di un antico Manifesto, una emozionante conferma di quanto presumiamo da sempre: movimenti separati convergono e si riconoscono come alleati in una lotta comune, mettendo in atto una rivolta capace di ascoltare.
Ripercorrendo l’insieme delle azioni ritroviamo una rivolta globale senza precedenti, una ribellione in continuo divenire che ha mutuato idee e tattiche dalle diverse culture e dai vari continenti, raccogliendosi in sciami per poi dissolversi. Ma solo per volare altrove.
Se un altro mondo non solo è possibile ma si sta avvicinando, in questo rumoroso silenzio sentiremo il suo respiro.

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