1 Giugno 2006
Pedagogika n°6

Il perdono e l’imperdonabile

 

L’uno indissolubilmente legato all’altro
Barbara Mapelli, Claudio Vedovati

Caro Claudio,
avvio questo nostro dialogo sul perdono tra i generi consapevole di come sia complessa, contraddittoria e difficile l’accettazione di questo punto di vista da parte di un uomo. Già, perché dico ‘perdono tra i generi’, ma in realtà intendo – e tu lo sai bene – perdono delle donne verso gli uomini. E in questo modo l’ho presentato nel nostro gruppo suscitando opposizione in realtà non solo tra gli uomini, ma anche tra alcune donne, che trovavano odioso questo termine, con tutto quel che si trascina dietro di significati e ricordi di una formazione religiosa che ha impoverito, reso la parola evocatrice di un buonismo mansueto, anche ipocrita, con cui non ci si vuole confondere. Ma io ho tratto la mia idea di perdono in particolare da un testo di Derrida (J.Deridda, Perdonare), che a sua volta fa riferimento ad Hanna Arendt e a Jankélévitch, e soprattutto quest’ultimo convoca a un appello per un’ ‘etica iperbolica’, che si espone a un perdono senza condizioni, addirittura paradossale perché neppure domandato. Questi autori fanno riferimento alla tragedia ebraica del Novecento, ma io ho avuto in mente, da subito, la traduzione e la trasposizione di quanto leggevo nella storia, di millenni, del dominio maschile sulle donne. Anch’esso un imperdonabile. E mi sono intestardita sul perdono, nonostante l’evidente fastidio di alcuni e alcune del nostro gruppo. In qualche modo sono stata premiata, perché la parola, il suo universo di significati, continuamente arricchito, ha proseguito a vivere tra noi, è stata ripresa in molti discorsi. Voglio riassumere, allora, per avviare il dialogo tra noi, quello che ho finora detto, i termini principali del senso che ho attribuito al perdono nella mia riflessione. Si deve perdonare, dicevo, ciò che in realtà è imperdonabile, perché il perdono deve avvenire là dove il male è stato così grande che non esistono altre possibilità di superarlo, là dove non vi può essere alcuna forma di giustizia che possa ristabilire equilibrio ed equità, riparazione. Quale giustizia può sanare i secoli, i millenni di dominio degli uomini sulle donne, con tutto quello che hanno significato? Le donne allora possono decidere di perdonare gli uomini, ed è un atto sovrano, perché unilaterale, nessuno lo ha chiesto, ma è un atto che si riempie anche di molti altri sensi. Perdonare gli uomini significa anche perdonarsi, per tutte le complicità, le false sicurezze e i dubbi vantaggi che abbiamo creduto di poter strappare con la nostra presunta docilità, con la falsa innocenza di chi ha accettato il suo posto in ombra. Ma il perdonare deve prevedere un ulteriore, doppio movimento: si deve chiedere perdono per il perdono che si offre; proprio perché è un atto non richiesto e quindi presuntuoso, il perdono deve assumere una caratteristica di reciprocità, è un guardarsi negli occhi, cercare di capirsi per quanto possibile, e stare un po’ in silenzio. Il perdono non è oblio, né cancellazione, è anzi, credo, una riconquista di memoria, più limpida, condivisibile, perché depurata di alcune scorie. Ne ho verificato l’utilità nella mia vita privata, con gli uomini/l’uomo che ho vicino: si frappongono talvolta tra noi ostacoli quasi insuperabili e leggo in lui, in alcuni suoi comportamenti i portati di una cultura antica, così antica che ciò che dice e fa gli appare naturale, al di là o al di sotto di ogni ricerca di consapevolezza. Davanti a questi ostacoli riconosco in me la tentazione alla docilità, al laissez faire, che si trasforma in complicità. Discorso lungo e faticoso, doloroso per ambedue. Il perdono, talvolta, che doveva partire da me, ci ha consentito di riprendere il discorso, di capire meglio tutti e due, un cammino a tappe, anche modeste. Ma qui mi fermo, non solo per lasciarti la parola, ma perché veramente non so andare avanti, e penso che sia proprio e soltanto il dialogo con un uomo, con te, che possa farmi (farci?) progredire. Scusa la lunghezza, ma volevo raccontare un po’ di antefatti.

 

Cara Barbara,
ho riaperto ora, sollecitato dalle tue parole, il taccuino degli appunti che avevo con me ad Anghiari lo scorso settembre: riprendono così corpo parole chiave, digressioni della memoria, sensazioni del momento, mappe concettuali, non so più dire quanto mie e quanto nostre, di tutti noi. Mi sembra ora di poterle mettere in ordine, ma magari è solo una nefasta illusione. C’è quel che viene prima del perdono: l’incontro, la condivisione, le aspettative, il fraintendimento, le ferite, il danno, la scoperta della vulnerabilità, l’offesa, il risentimento, il rancore. E c’è quel che viene dopo, una qualche forma di relazione che ha preso una strada diversa: la memoria o l’oblio (perdonare per non dimenticare, non perdonare per non dimenticare), “smussare gli angoli” o “mettere gli spigoli”, la rinuncia alla vendetta, la proposta di un dono, la fine di una relazione, la fortificazione della propria identità, la rimozione del dolore. In mezzo – appunto – c’è il perdono o “l’imperdonabile”, l’uno indissolubilmente legato all’altro, ma ci può essere anche qualcos’altro, altre scelte a cui non abbiamo ancora saputo dare un nome. Direi che in mezzo c’è il soggetto – o una comunità – che se vuole sceglie cosa fare di una relazione. Nella nostra discussione – è quello che ricordo e che mi restituiscono gli appunti – abbiamo fatto una fenomenologia del perdono, distinguendo e scartando, accostando e legando. Abbiamo subito messo da parte l’universo che porta al perdono partendo da peccato, colpa, pentimento, penitenza, confessione, espiazione, supplizio, redenzione, assoluzione, salvezza. E forse, così facendo, ci siamo persi qualcosa, per sentirci rassicurati dalla distanza tra noi e la tradizione che abbiamo alle spalle. Ci siamo piuttosto diretti su sovranità, gratuità, libertà, limite, reciprocità, riconciliazione, scambio, conflitto, potere. Esprimendo anche posizioni diverse. In questo percorso io mi sono reso conto che il perdono, nella mia vita, è stato una sorta di pratica autistica per prendere la distanza, ritirami nell’indifferenza, allontanarmi dal mondo in un deserto in cui non c’è più relazione. Ma non era questo il punto. Il perdono – lo hanno detto molti di noi in quei giorni – è stato per noi una sorta di dispositivo per dirci qualcosa di molto preciso: l’asimmetria che segna la nostra relazione, tra noi uomini e voi donne. “L’io che non è perdonabile – il mio io – è quello subalterno alla norma patriarcale” ci ha detto Silvia, “non perdono gli uomini gratuitamente, solo le donne, agli uomini chiedo reciprocità”, ci ha detto Catia. L’asimmetria sta nella differenza di genere, nel fatto che i soggetti sono sessuati, e contemporaneamente nel costo che ha la relazione tra i generi. Ho imparato nella relazione politica con le donne che questo costo – il costo di stare in un mondo che è stato segnato dal dominio maschile – può essere per loro molto alto e che noi uomini abbiamo una difficoltà a vedere queste ferite. Se il patriarcato ci ha reso poveri entrambi, il danno non è stato lo stesso. C’è una sofferenza che deve entrare a far parte della nostra relazione. Non so quindi quanto mi interessi continuare una parte del gioco che abbiamo fatto ad Anghiari, la fenomenologia del perdono. Se così fosse ti proporrei di far incontrare Derridà e Jankélévitch con Mauss e Ricoeur, la catastrofe di Effi Brest con la perdita di Bataille. Ciò che ora mi interessa per rendere più libera la nostra relazione è capire su cosa mette le mani il perdono, su quale parte di noi e del nostro stare in relazione. Da tempo ci siamo detti che non ci interessa la penitenza degli uomini. Forse ciò che cerchiamo tra noi è qualcosa che ha a che vedere con la consapevolezza, la possibilità di dire “io qui ci sono” senza svalorizzarsi, riconoscendo la fatica di alcuni percorsi, senza saltare il pathos dell’aver espresso le ferite, senza dismettere o dimenticare asimmetrie e differenze. E se, come tu dici, il perdono non è cancellazione od oblio ma – appunto – consapevolezza, non è detto che la consapevolezza abbia come unica strategia quella del perdono. Il perdono – ci ha ricordato Massimo – “è solo una delle risposte possibili al danno”. C’è qualcos’altro che possiamo imparare a vedere insieme?

 

Caro Claudio,
sì certamente – rispondo all’ultimo dei tuoi quesiti – c’è qualcos’altro. Non ho mai creduto alle parole ‘Apriti Sesamo’, parole definitorie, ultimative, prèt à porter; quelle parole che – basta nominarle – creano un recinto di significati con cui ci si può identificare, in cui ci si può rifugiare. Non ci credo e le temo, perché in queste trappole e pozzi ci è caduto, troppe volte, anche il movimento delle donne. Mi va bene, dunque, continuare ad usare, finché non si logora, la parola perdono come strumento, non una chiave che tutto apre, passaggio trionfante dall’ombra alla luce. Il perdono ha dimostrato di poter essere un’immagine che ha evocato molto dentro di noi, un susseguirsi di domande e risposte, un escludere, scavare, rinominare, uno sforzo che è servito per aumentare, mi sembra, lo spessore delle nostre narrazioni, ci ha fatto prendere nuove direzioni nel pensare quel pensiero che è al centro del nostro desiderio/piacere di essere un gruppo di donne e uomini che si pensano. Quello che può dare continuo avvio a questo, va bene. Anzi va bene, e cerco di essere meno generica, perché ci ha consentito di distinguerci tra noi, di esporci nella nostra differenza – individuale, non solo di genere – perché il perdono, il suo universo di significati ha diversamente sollecitato/ infastidito/stimolato/addolorato ciascuno e ciascuna, tu hai riportato molte delle nostre frasi. Ma io pensavo, mentre avveniva, a settembre, ad Anghiari e lo penso ora di nuovo, che così poteva accadere perché ognuno trovava luogo e senso per la propria fatica di ricerca, anche per la rabbia che certe parole suscitano, nel piacere e desiderio e fiducia che abbiamo saputo costruire – e mantenere – in questo nostro gruppo. E posso operare allora, senza troppe rotture di continuità, passaggi da quel collettivo al mio privato in cui io, Barbara – e già te ne ho scritto – ho potuto superare ostacoli nel rapporto con un uomo, l’accumularsi pericoloso di risentimenti quotidiani, ma che continuavano a richiamare in una ripetizione ossessiva il passato; ho potuto, ma il lavoro non finisce mai, se pure screziata di dubbi, di timori, di cattiva coscienza, superare in parte lo schermo opaco che molte volte mi ha fatto pensare a una impossibilità. E’ avvenuto perché mi sono offerta il lusso sovrano del perdono? Ho perdonato forse solo, o soprattutto, per perdonarmi, ma è stata la mossa che parzialmente mi ha liberato. E allora da qui intendo andare avanti, approfondire anche le ambiguità del perdono, capire, come tu scrivi, se siamo state e stati troppo frettolosi nel cancellare alcune tradizioni di culture e significati legati a questa parola, che ci hanno irritato, perché in realtà appartengono alla nostra formazione e abbiamo faticato, fatichiamo a liberarcene. Vorrei usare il perdono fino a consumarlo. Ma al momento è ancora vivo e generativo dentro di me e mi fa attendere con impazienza la tua risposta, mi sento in grado, senza troppi pericoli, di aspettarmi da un uomo – da te, Claudio – delle parole e una vicinanza per fare un altro pezzo di percorso. Non è poco e ne misuro l’importanza perché scriverlo, ti assicuro, mi è costato e mi verrebbe la tentazione di mettere molti interrogativi davanti e dietro le mie ultime parole. Ma le lascio, invece, così.
A presto
Barbara

 

Cara Barbara, d’istinto mi sarebbe venuto da dirti che quel perdono che vorresti usare “fino a consumarlo” non andrebbe usato tutto e subito, che sarebbe meglio tenerne una parte per sé, una congrua scorta da collocare nella parte più luminosa e aperta al mondo che si ha. Che del perdono può essere utile proteggere con cura la molteplicità e l’inesauribilità dei significati, per lasciare che esso conservi le sue ombre e che da lì, come e quando vuole, possa uscire e fare qualcos’altro di una relazione. Ma poi mi sono fermato a prendere tempo. A respirare. Non di consigli voglio che sia fatta la nostra relazione, di noi uomini e donne. Ma di ascolto. Il tempo della mia scrittura è lento, ed ora sono passati molti giorni da quando scrivevi che attendevi “con impazienza” una mia risposta. Forse ti chiedi se, ancora una volta, l’aprirsi ad un uomo non porti con sé una delusione inevitabile, che richiede di mettere in campo ancora nuova pazienza. O se io abbia voluto mettere alla prova la tua disponibilità al perdono. Non ho risposte, ma penso che il tempo può far parte dell’ascolto. Ho usato questo tempo per lasciare che mi fosse più chiaro un sentimento: io mi sono reso conto, con una certa sorpresa, che nella mia relazione politica, pubblica e privata, con le donne – a anche con te – non riesco a portare alla luce il mio dolore. Mentre so che il dolore è uno strumento utile, forse il più prezioso che ho, per esplorare la condizione per nulla naturale del mio essere e sentire da uomo, la sua storicità e la sua non ineluttabilità. Voglio dire, ciò che mi dà, in ogni qui ed ora della mia vita, la possibilità di moltiplicare le possibilità, di affiancare e di scegliere. Il dolore che rimane silente, che viene rimosso e allontanato, che nutre l’indifferenza appartiene per intero alla storia del mio genere. Sento che serve alla sua indistinta continuità, a cancellare il conflitto con i padri e con il mondo che ci hanno consegnato, a prendere possesso anche noi del mondo senza lasciare spazio ad altri. A sottrarci alla relazione per metterci in una dinamica di potere. È forse questa simulazione dell’assenza del dolore che rende così difficile alle donne la relazione politica con noi uomini? Forse anche di questo, noi uomini, chiediamo alle donne di farsi carico? Solo ora, forse, capisco che anche i padri vanno perdonati. Che l’imperdonabile del patriarcato è un ostacolo che porto dentro di me alla nostra relazione. Forse non è così vero, come credevo e come in fondo trovo naturale continuare a pensare, che non mi sono mai sentito in colpa per essere un uomo. Ma grazie a te, Barbara, e alle donne con cui abbiamo aperto insieme uno spazio comune di relazione, ho imparato che il senso di colpa è un sentimento che non ci serve, che abbiamo bisogno l’uno della libertà dell’altro, che questa libertà non è un condono alla storia a cui apparteniamo, e che non apparteniamo alle cose ma sono le cose che ci appartengono e che sta a noi capire come. Ora è diventato importante per me imparare a dire quanto mi costa stare al mondo e quanto questi costi possano far parte della nostra relazione senza che di essi debba essere ancora una volta l’altro genere a farsene carico. Io del perdono non sapevo bene cosa farmene o ne sapevo fare benissimo un uso autistico, uno strumento di distacco dal mondo, come ti accennavo. Perdono tutti, togliendo agli altri lo spazio per chiedere di essere perdonati, perdono tutto a me stesso, togliendo all’altro lo spazio del perdonarmi. E nella nostra discussione ad Anghiari ho preferito guardare altrove. Ora comincio a sentire che sì, il perdono “è solo una delle risposte possibili al danno” e che c’è qualcos’altro di importante che possiamo imparare a vedere insieme. Ma appunto è una delle risposte possibili, e non poi così tanto disprezzabile.
Claudio

 

Caro Claudio,
ancora, e soltanto, poche righe per accomiatarmi temporaneamente da te. Sì i tempi lunghi delle tue risposte mi esasperano e mi fanno riaffiorare e ribollire dentro di nuovo brutti sentimenti e ri-sentimenti verso gli uomini, verso di te in particolare. Puoi immaginare. Poi arriva, tardi, la risposta: ti leggo e mi torna il desiderio di dialogare con quel nodo e intrico di sentimenti-ragioni, quel continuo formarsi e distendersi di pieghe e ostacoli che riconosco nel tuo pensiero, ma anche nel ricordo delle volte che ad Anghiari – dopo riflessioni ardue e scontri – ci si sorride. La negazione del dolore. Credo che tu abbia colto nel giusto, forse è il motivo per cui molte e molti hanno rifiutato, respinto quasi istintivamente il perdono. Perché, è vero, e non so se lo dico io o interpreto le tue parole, che il perdono verso l’altro o l’altra, o verso di sé, rinomina, costringe a rinominare le ragioni del dolore. Di più, credo, le sottrae alla genericità, le rende necessità personali. Può aiutare a renderci liberi e libere, nelle nostre singolarità, perché aiuta a vedere e vederci, ricordare, scegliere, e ritrovare radici per il nostro mutare e ricercare anche dentro gli imperdonabili.
Un abbraccio
Barbara

 

Cara Barbara,
assumersi la responsabilità dei propri sentimenti senza incolpare gli altri, cercare di riportare il dolore al desiderio che non abbiamo realizzato e non all’azione dell’altra persona, imparare a sentire cosa sentiamo e non interpretare gli altri. Queste piccole e preziose capacità relazionali, che ad Anghiari stiamo pian piano imparando a praticare in una relazione politica di donne e uomini, sono forse ciò che rende il nostro lavoro un dono prezioso che ci facciamo, trasformativo per noi stessi e per il gruppo. Quello che ci permette di affrontare nell’esprimere i nostri bisogni l’uno di fronte all’altro anche tutto il dolore ed il risentimento che portiamo in questa stessa nostra relazione.
Anch’io ti abbraccio, con molto affetto e tanta gratitudine
Claudio

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