8 Dicembre 2002

Il segno della differenza

Daniela Padoan

I vialetti, i prati, le aule, ogni spazio della Fortezza da Basso esplode di colori, striscioni, manifesti; ci sono i reduci del Vietnam contro la guerra, i “punkabbestia” con i loro cani e i contadini sardi. Nelle plenarie si sente parlare in russo, in greco, in spagnolo, in tedesco, in francese; tante lingue e tanti interpreti simultanei, tutti volontari. Nell’edifico dove è allestito il punto informativo ci sono stand di centinaia di associazioni, ognuna con un proprio banchetto di libri, magliette, manufatti. E’ una festa di volti e di colori, di musica, ma soprattutto di parole scambiate. Durante i tre giorni del Social Forum Europeo si svolgono parallelamente centinaia di incontri; i più partecipati nelle aule delle conferenze, altri in stanze e stanzette disseminate ovunque. Ai lavori delle plenarie tanta gente, migliaia, tutti seduti ad ascoltare, con le cuffie, prendendo appunti; parlano docenti, economisti, politici, giornalisti, spesso decisamente anziani, come in un gigantesco corso universitario. Alcuni argomenti, tra i tanti: “Il ruolo delle religioni nella critica alla globalizzazione”, “Non violenza, disobbedienza e diritti sociali”, “Democrazia partecipativa”, “Acqua, aria, terra: l’Europa contro lo sviluppo insostenibile”, “Reti di economia solidale”, “L’istruzione non è una merce”, “Il lavoro in Europa: il lavoro e le sue trasformazioni”, “Sovranità alimentare”, “Media e guerra: il diritto all’informazione in tempo di conflitti”, “La politica come bene comune: sinistra e movimenti”, “Politica del vivere, vivibilità della politica”;, “La cultura riduzionista e la sperimentazione animale”, “Salute in Europa tra ‘equità’ e accesso”, “Palestina-Israele: il conflitto, l’Europa, la solidarietà attiva per una pace giusta”. Se c’è un limite, è nel fatto che nelle conferenze e nei seminari quasi tutto si gioca nell’ascolto: sono praticamente impossibili gli interventi, ma la discussione prende avvio dopo, in giro per la Fortezza, e fuori, passeggiando per Firenze, seduti nei bar. Ovunque si sentono persone che, a coppie, a gruppetti, si scambiano opinioni e appunti. Un gran fermento di idee, un inedito desiderio di confrontare punti di vista, orientarsi, trovare ciascuno il taglio con cui stare dentro questo mare di diversità, tutti però con alcune, semplici, irrinunciabili idee di fondo; il rifiuto della “guerra infinita” e il sentimento quasi francescano che gli esseri umani sono uguali, che non è accettabile che a una parte dell’umanità sia consentito tutto – consumare, spostarsi liberamente, avere una vita della mente – e che l’altra sia ridotta a poco più della nuda vita. Senza indulgere al terzomondismo, ma partendo da sé, dai propri bisogni, desideri, modi di agire politicamente. In un certo senso il discorso fatto dal movimento è talmente semplice e poco ideologico da costituire una forza d’urto, un’evidenza irrefrenabile. Questo movimento, nelle sue idee fondanti, è soprattutto etico. Le sue parole sono essenziali. Le sue richieste non sono volte al rovesciamento di un ordine nemico ma indicano come fondante la presa di coscienza di ciascuno: troviamo un altro modo di consumare, di risparmiare, di accedere alle notizie; troviamo un altro modo per amministrare i governi, partendo da quelli delle città, più vicini alla gente; troviamo un altro modo di dialogare con la politica istituzionale. Non c’è estremismo in questo movimento, c’è anzi una grande capacità di mediazione. Ciò che è rivoluzionario è la parola volta all’esistenza dell’altro.
Andando da un incontro all’altro si sentono rimbalzare discorsi, ed è possibile, ciascuno secondo il proprio taglio, fare dialogare diverse voci. Quasi mettere assieme domande e risposte, rilanci di pensiero. Con la consapevolezza che ragionare insieme significa già agire politicamente.
Il Social Forum di Firenze non è un luogo di slogan, non è il luogo di “una sola moltitudine”: sono (siamo) persone, persone e persone, vestite diversamente, di età diversissime, provenienti da molti luoghi della Terra, coinvolte in uno scambio vorticoso di lingue e idee, con la voglia di produrre qualcosa da portare a casa soprattutto come cambiamento dentro di sé, e poi come strumento per propagare linguaggi, confrontare diversità, individuare modi di lotta e pratiche quotidiane contro un potere economico e culturale sempre più monolitico e violento.
L’idea stessa di una linea comune e di una rappresentanza è impossibile e impensabile: questo movimento è la dimostrazione concreta, corporea, del concetto di pluralità; le innumerevoli entità che vi partecipano creano un ordine del discorso con il loro semplice accostarsi, senza poter essere sommate. In questo è una grande ricchezza e un limite solo apparente, per chi ritiene che la politica sia un giungere a sintesi.
La progettualità del movimento sta nell’opporsi al “mondo così com’è” con la semplice forza dell’esistenza di ciascuno. Nel testimoniare di un’idea con il proprio modo di esistere. In un rovesciamento dell’impotenza che sta nella consapevolezza della propria forza unita a quella degli altri: siamo consumatori e risparmiatori, per esempio, dunque il nostro modo di consumo e il nostro risparmio può produrre azione politica. Spesso ritorna la frase di Gandhi, “Siate il cambiamento che volete vedere nella società”. Non un “andare là” per risolvere i problemi, ma la convinzione che la globalizzazione del capitalismo parte da qui, ed è qui che dobbiamo inventare forme di opposizione. Attac, per esempio, parla di una “battaglia di autoeducazione”. Questo accanto a forme di protesta collettive e anche ad atti di disubbidienza, dei quali sono molto stati discussi modi e possibilità, in un orizzonte che non va confuso con le azioni un po’ sgangherate dei Disubbidienti di Casarini, ma che abbraccia Gandhi e Luther King.
Più volte, nel corso di diversi seminari, ho sentito dire che il movimento non è contro l’occidente, che non guarda al Terzo mondo come qualcosa di salvifico, ma che dobbiamo partire dal nostro essere occidentali, con ciò che di buono la nostra cultura ha prodotto. Rendere trasparente la cultura dell’Europa, di modo che l’Europa possa diventare un’area di resistenza all’egemonia americana.
In quanto accade in questi giorni vedo molto forte e vitale il segno impresso dalla politica della differenza: un partire da sé, una centralità delle pratiche, un concetto di rete come insieme di relazioni orizzontali che non consentono rappresentanza, un mettere al centro il plurimo, la convinzione che il linguaggio è già azione politica. A volte nominato, più spesso taciuto o non saputo fino in fondo, eppure il discorso è passato e si è tramutato in qualcosa di necessario a tutti, qualcosa che sta producendo del nuovo nei discorsi. Rispondere alle accuse di vandalismo inventando un servizio spazzini nel corteo, per esempio, è stato un rovesciamento nel paradosso, praticato dal femminismo e, da più di vent’anni, dalle Madres.
Ciò che di più arretrato ho sentito nel Social Forum di Firenze veniva paradossalmente dal seminario della Marcia mondiale delle donne, dove donne olandesi o irlandesi che parevano uscite da un film di Ken Loach parlavano di lotta al capitalismo e di “diritti delle donne all’interno delle classi oppresse”. Rimbalzavano discorsi su emancipazione, quote e destino svantaggiato. Volevano aprire il corteo con il loro striscione.

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