1 Dicembre 2007
Via Dogana n°63

Il sì della donna non si può saltare

Clara Jourdan

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I puntuali e ripetuti interventi delle gerarchie cattoliche su testamento biologico, eutanasia, staminali, procreazione assistita, aborto, vengono spesso contestati in nome della laicità, intendendolo quindi come un conflitto tra poteri, e in nome dei diritti individuali. È questo che secondo me fa problema oggi, più problema delle stesse pretese normative della Chiesa: la discussione pubblica sui delicati temi dell’inizio e della fine della vita si è di fatto appiattita sul linguaggio dei diritti e va a parare sempre nella legge, come se tutti condividessero il medesimo ordine simbolico, maschile, individualista, giuridicista.
In questa situazione, una cosa che colpisce è che è la Chiesa a essersi adeguata ai principi della modernità, sposandone in particolare la concezione dei diritti individuali secondo la visione giusnaturalistica: i diritti fondamentali sono diritti naturali (la parola gius vuol dire diritto), cioè appartengono a tutti gli esseri umani indipendentemente dal tempo e dal luogo e dalle leggi in vigore, e sono le leggi e gli stati a doversi modificare qualora gli ordinamenti non riconoscano e non tutelino tali diritti. È ormai risaputo che i teorici dei diritti naturali avevano in mente l’uomo adulto e come modello di uomo il proprietario inglese, ma nonostante le difficoltà a includervi tutte le altre forme di vita umana e di realtà storiche la teoria ha avuto enorme successo. È uno dei pilastri della cultura occidentale, si trova scritta nelle costituzioni e negli accordi internazionali, ed è sostenuta ancor oggi, esplicitamente, da molti di coloro che lottano contro le violenze e le ingiustizie dicendo che si battono per i diritti umani nel mondo. Anche la Chiesa cattolica ha adottato in pieno questo linguaggio, per lo meno nei suoi documenti ufficiali e nei suoi organi di stampa: “La Chiesa proclama senza riserve il diritto primordiale alla vita, dal concepimento fino alla morte naturale, il diritto a nascere, a formare e a vivere in famiglia”. “Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità” (Benedetto XVI, in “Il Papa su famiglia, matrimonio e pacs”, La Civiltà Cattolica, 15 luglio 2006, pp. 170-179). Ma questo venire della Chiesa alla modernità dei diritti non è percepito, nella cultura laica e di sinistra, come una vittoria, sia pure conflittuale (su quali siano i diritti); al contrario, è sentito per lo più solo come una ingerenza. Ricordo le polemiche quando due anni fa il papa disse che i diritti fondamentali vengono da Dio e non dalle costituzioni. Eppure che ci sia un fondamento superiore alle leggi e alle costituzioni è proprio ciò che sostengono quelli che vogliono che gli ordinamenti positivi riconoscano i diritti umani. Costituzioni come quella italiana fanno propria tale concezione, e cioè che tali diritti preesistono allo stato, che come non li ha dati neanche li può togliere. Allora, che un papa dica che i diritti fondamentali vengono da Dio mi pare un di più, non un di meno, e certamente fa gioco a chi nel mondo lotta per il rispetto dei diritti umani.
Quindi c’è uno stare della Chiesa cattolica sul terreno della modernità, che non viene colto nella sua portata da coloro che condividono quel terreno. Un terreno che però non è il mio. Io che apprezzo l’aiuto che la Chiesa dà contro le violenze nel mondo, quando lo dà, non ritengo un guadagno l’adozione e l’estensione del linguaggio dei diritti e del regno della legge. Perché l’individualismo non può rappresentare con verità situazioni che sono intrinsecamente relazionali, come gli inizi della vita (sempre) e la fine della vita (spesso). In questo appropriarsi del linguaggio dei diritti da parte della Chiesa vengono infatti estremizzati i limiti e le aberrazioni di tale linguaggio già evidenziati proprio sul piano giuridico da Elizabeth Wolgast come “diritti sbagliati” (La grammatica della giustizia, Editori Riuniti, Roma 1991). Basta riflettere su cosa significhi, per esempio, il “diritto a nascere”, per coglierne l’insensatezza. Chi sarebbe il titolare di tale diritto? L’anima dell’ovulo fecondato che apparirebbe in sogno al pubblico ministero affinché chiami in giudizio la donna nel cui corpo si trova per obbligarla a fargli da madre? Andiamo! Caso mai apparirebbe alla donna stessa per chiederglielo con buone maniere.

Tra donne e tra femministe si è lavorato ed elaborato molto, negli anni, per tirar via dal terreno dei diritti esperienze umane femminili, bisogni primi, desideri, ma sempre troviamo a trattenerveli saldamente dentro, alleate tra loro, gerarchie religiose e sinistre laiche. C’è però anche lì qualche segno di movimento, importante, come il gesto di Amnesty International Italia, il cui presidente ha scritto al presidente della Conferenza episcopale italiana dicendo di non aver mai affermato che l’aborto è un diritto umano, ma se una donna decide di interrompere la gravidanza, “vogliamo che non sia obbligata a rischiare la propria vita né che finisca in prigione per la decisione che ha preso” (il manifesto, 19 settembre 2007). È una presa di posizione che ritengo molto significativa perché la polemica intercorsa durante l’estate tra Vaticano e Amnesty International riguardava appunto la nominazione dell’aborto come diritto, e significa uno spostamento nel linguaggio di una associazione che ha sempre ritenuto indispensabile per la sua azione il riferimento all’esistenza di diritti umani.
E dunque, a chi dice che l’aborto non è un diritto umano, intendendo implicitamente che debba essere proibito dalla legge, si può rispondere uscendo dall’alternativa diritto o divieto. Si può dire: “È vero, l’aborto non è un diritto, ma il sì della donna non si può saltare”. È una risposta che ha origine nel movimento delle donne, e che negli anni Settanta in Italia ha trovato espressione giuridica nella proposta di depenalizzazione dell’aborto. Ed è una risposta condivisa da molte femministe che pure hanno partecipato a mobilitazioni pubbliche in cui veniva usato il linguaggio dei diritti. Persino in America: Grace Paley racconta che lei e le sue amiche andavano alle manifestazioni ma erano a disagio per slogan come “aborto a richiesta”, che sentivano come una banalizzazione di quell’esperienza (L’importanza di non capire tutto, Einaudi 2007, p. 27). È ascoltando questo disagio infatti che si è sviluppata quella riflessione tra donne sulla sessualità e sulla maternità che ha preso le distanze dai diritti. Una riflessione che fino a pochi anni fa ha avuto echi ed elaborazioni anche tra giuristi e giuriste – ricordo negli anni Novanta i numeri della rivista Democrazia e diritto, “Diritto sessuato?” e “La legge e il corpo” – ma che sembra essersi fermata.

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