24 Settembre 2005
il manifesto

Il virus letale della proprietà intellettuale

Luca Tommasini

Un’intervista con lo studioso statunitense Richard Nelson, ospite alla «Conferenza mondiale sul futuro della scienza» di Venezia. Un’«epidemia» di brevetti e copyright ha colpito università e laboratori di ricerca, cancellando il mito dell’autonomia della scienza. E negli Stati uniti, come in Europa è in gioco la stessa capacità di svolgere un’attività scientifica di base.

«Fin dall’epoca di Adam Smith gli studiosi sono giunti alla conclusione che il mercato è un’ottima maniera di organizzare una vasta gamma di attività umane ma mai era stato sostenuto che questo fosse l’unico modo di organizzare tutte le attività economiche, dalla cura dei bambini fino alla sanità passando per la scienza. Ebbene, oggi tutti sembrano dare per scontato che questa sia la via per risolvere tutti i problemi e le drammatiche conseguenze di questa convinzione sono sotto gli occhi di tutti». Si presenta così Richard Nelson, settantacinquenne professore della Columbia university di New York e tra i più importanti e riconosciuti studiosi dell’innovazione tecnologica e della evoluzione industriale. Una lunga carriera, la sua, dedicata all’analisi dei complessi ed eterogenei meccanismi alla base di quella che definisce dinamica dello sviluppo, culminata con la pubblicazione insieme a Sidney Winter di Una teoria evolutiva della crescita economica. Un testo fondamentale che ha molto contribuito a scuotere i dogmi della teoria economica classica, imperniata sul concetto di equilibrio. Alla «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza» ha presentato ieri un intervento dedicato a «L’economia di mercato e i beni comuni della scienza», lo stesso titolo di un suo importante articolo pubblicato nel 2003.

 

«Il ruolo della proprietà privata, degli interessi di coloro che detengono il potere e il denaro – prosegue – influenza enormemente la maggiore o minore quantità di risorse economiche destinate alla ricerca. Consideriamo per esempio un’area nella quale si sono concentrati enormi sforzi economici come quella dello sviluppo di nuovi farmaci o più in generale della medicina. Possiamo apprezzare senza alcuno sforzo le conseguenze dell’assenza di interesse delle grandi imprese farmaceutiche a sviluppare rimedi per le malattie dei poveri: non c’è denaro per questo!».

 

Negli ultimi anni lei ha denunciato con forza un aggravamento di tale fenomeno. Quali le ragioni?

 

Ne indicherò due, distinte ma strettamente connesse. Una volta esisteva un mito, molto utile anche perché parzialmente corretto. Sto parlando del mito della separazione tra la scienza, considerata come un’impresa non direttamente orientata alle applicazioni ma solamente all’estensione delle nostre conoscenze, e l’impresa tecnologica, intesa come attività volta alla soluzione di problemi concreti, alla produzione di nuovi e utili oggetti. La scienza era libera, mentre per la seconda valevano le regole della proprietà privata intellettuale e in particolare dei brevetti.

 

Un gran numero di influenti filosofi e sociologi della scienza ha sostenuto questo punto di vista, da Vannevar Bush alla «Repubblica della scienza» di Michael Polany fino a Robert Merton. E per tutti il principale argomento in difesa dell’autonomia dei ricercatori era più o meno questo: poiché le ricadute pratiche della attività scientifica sono largamente imprevedibili qualunque tentativo di condizionarla a fini pratici non potrebbe che risolversi in un grave ostacolo alla crescita delle nostre conoscenze, senza alcun beneficio.

 

Sono certo completamente concorde con la necessità di mantenere libera da influenze esterne la ricerca, ma non possiamo ignorare che nuovi sviluppi hanno profondamente eroso questa separazione, sempre che sia mai esistita. In molti campi scienza e tecnologia si sono avvicinate l’una all’altra fino a produrre sovrapposizioni considerevoli. Tale processo ha origine nella progressiva costruzione di una base scientifica per un gran numero di tecnologie che erano fondate su conoscenze pratiche. Dalle discipline biomediche si sono per esempio sviluppati interi campi di ricerca come la biologia molecolare e più in generale tutto l’insieme di conoscenze sul funzionamento del corpo umano. Non c’è nulla che possa essere fatto per evitarlo: questo è sempre stato il naturale sviluppo di entrambe e non c’è niente di male, al contrario.

 

Quindi è stato il mito dell’autonomia della scienza che ha impedito di valutare corretamente l’influenza del mercato?

 

Esattamente, e veniamo così alla seconda ragione. Da circa 25 anni a questa parte le autorità competenti hanno cominciato a concedere brevetti con una facilità prima semplicemente inconcepibile. E i tribunali hanno confermato queste decisioni.

 

In primo luogo si è cominciato a accettare il principio che la proprietà privata possa essere affermata su «semplici» pezzi di natura, come una sequenza di Dna. E’ un problema enorme e gli uffici brevetti dovrebbero essere molto più attenti nel concedere le loro autorizzazioni, riservandole esclusivamente a nuovi fenomeni creati, e sottolineo creati, dagli esseri umani nel corso delle loro ricerche. In fondo, è questo il significato della parola invenzione. La seconda ragione riguarda il «principio di utilità», che è stato o applicato, o meglio trascurato, con troppa leggerezza. Per tornare al Dna, non si può brevettare una sequenza di geni con l’argomento che potrebbe essere utile nella lotta contro il cancro senza fornire precise indicazioni sul come. Questo certamente scoraggerà qualcun altro dall’approfondire le reali radici di queste potenziali applicazioni.

 

C’è poi un terzo aspetto: si concedono diritti decisamente troppo ampi. Se una compagnia o una persona hanno scoperto una maniera per fare le uova ma il brevetto è concesso su ogni altro modo leggermente simile per farle, le possibilità che qualcun altro migliori le tecniche di produzione ne risultano drasticamente ridotte.

 

Tutto questo sembrerebbe riguardare solo la ricerca privata. Cosa succede invece a quella pubblica?

 

E’ colpita da una vera e propria infezione, sviluppatasi negli Stati uniti ma oramai diffusa anche in Europa e nel resto del mondo. Un’infezione che ha avuto le sue origini da un profondo cambiamento ideologico e che è cominciata con una legge chiamata Bayh-Dole act, approvata dal Congresso americano nel 1980. Quella legge autorizzava, spingeva, quasi costringeva le università a brevettare i risultati delle loro ricerche, anche di quelle (e sono la maggior parte) condotte con finanziamenti pubblici. Le università si sono allineate e anzi hanno sostenuto con entusiasmo questo nuovo indirizzo politico, trasformandosi in aggressive sostenitrici della proprietà privata nel campo della conoscenza.

 

La campagna a favore di questa deriva è stata straordinariamente intensa e diffusa: ricordo un articolo sull’«Economist» di circa due anni fa nel quale si affermava che questa è una delle migliori leggi mai approvate nella storia del nostro paese, visto che avrebbe portato a un gigantesco aumento dell’efficacia della ricerca delle nostre università con il conseguente progresso economico. Non esiste alcuna prova, al contrario negli ultimi tempi negli Stati uniti è iniziata una riconsiderazione del problema. E mi dispiace notare che ogni volta che vengo in Europa incontro persone o ascolto governi che dicono: il Bay-Dole act è esattamente quello di cui abbiamo bisogno. La pressione in questa direzione è forte in Italia come nel Regno Unito o in Francia e in Germania. Gradualmente anche qui le università stanno smettendo di essere le grandi sostenitrici della scienza aperta e libera.

 

Recentemente però il Parlamento europeo ha respinto una proposta di direttiva sulla brevettabilità del software. Cosa ne pensa?

 

Non conosco a sufficienza la politica dell’Unione europea per esprimere un giudizio, ma su questo argomento negli Stati uniti ha avuto luogo un lungo dibattito innescato dalla ampiezza con la quale venivano applicate le regole del copyright. In questo campo il carattere cumulativo dello sviluppo è assolutamente preminente e l’estensione della proprietà privata rende questo processo sempre più di difficile e costoso, rendendo tra le altre cose impossibile quelle forme di cooperazione che hanno avuto un così importante ruolo nei progressi degli ultimi anni.

 

Ma voglio sottolineare che il caso del software, e in particolare dell’«open software», non è affatto un’eccezione. Gran parte di quelle tecnologie che non molto tempo fa erano ancora nuove sono cresciute in un regime di limitatissima proprietà privata. Penso allo sviluppo dei computer elettronici, per i quali brevetti molto ampi erano stati sì concessi ma alla fine rigettati dai tribunali. Lo stesso è valso per lo sviluppo dei transistor, il cui brevetto originale era di proprietà dei Bell laboratories: l’autorità antitrust li costrinse a concedere licenze a prezzi relativamente bassi praticamente a chiunque. Si può anche pensare che un forte diritto di proprietà intellettuale è necessario per l’avanzamento tecnologico, ma non si può non riconoscere che per una grande varietà di campi è semplicemente vero il contrario.

 

Come uscire da questo circolo vizioso?

 

La più concreta e specifica delle mie proposte è che la legislazione che permette alle università o ai laboratori statali di ottenere diritti di proprietà su ricerche finanziate con denaro pubblico sia radicalmente modificata. Sopprimere del tutto i brevetti non sarebbe una buona idea e peraltro negli Usa sarebbe politicamente impossibile, ma imporre la disponibilità a prezzi più che ragionevoli di tutto ciò che è stato ottenuto con denaro pubblico mi sembra una soluzione ragionevole. In questo modo qualunque potenziale utilizzatore di questo materiale, chiunque desideri lavorare con esso e svilupparlo potrebbe farlo senza dover affrontare il costoso e complicato meccanismo delle autorizzazioni. Non sarà affatto facile, soprattutto perché le università americane sono ancora convinte di avere un forte interesse economico nella proprietà intellettuale anche se in realtà solo poche di loro ne ricavano reali benefici. Prevedo che si opporranno strenuamente a ogni limitazione del Bayh-Dole act, ma credo che sul medio periodo non potranno opporsi alla pressione di una pubblica opinione sempre più stanca delle conseguenze negative da esso innescate.

 

Si tratta senza dubbio di idee per il momento più rilevanti per gli Usa che per l’Europa, ma come ho già detto non è affatto scontato che in futuro la situazione non possa cambiare. E anche per il vecchio continente vale comunque la raccomandazione di una maggiore cautela nel concedere brevetti.

 

Uno degli obiettivi di questa «Prima conferenza mondiale sul futuro della scienza»è contrastare il presunto isolamento di cui la scienza oggi soffrirebbe. E’ d’accordo?

 

Ho molta simpatia per tutti coloro che vogliono accrescere l’attenzione e la sensibilità pubblica per la ricerca scientifica, in Italia come negli Stati uniti. Ma pensando alle interessanti discussioni che stanno avendo luogo qui a Venezia mi è impossibile non notare che un tema che le attraversa tutte: la convinzione che se fossero concessi agli addetti ai lavori i fondi e il tempo necessario essa potrebbe risolvere tutti i problemi del mondo. Si tratta di una pericolosa esagerazione che tende a oscurare i molti, moltissimi problemi che affliggono la nostra società ai quali la scienza non può dare risposta.

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