Estate `72, Jane Fonda e il marito Tom Hayden, attivisti-bandiera contro la guerra in Vietnam, vengono in Europa per delle conferenze. E passano anche dalle stanze del manifesto…
Da noi si cantava «C’era un ragazzo/ che come me…», in California i pacifisti battevano la West Coast insieme ai reduci dell’Indocina contro Nixon e la sua «sporca guerra». Luciana Castellina racconta la campagna per il Vietnam con «Barbarella» e la visita di Jane, «una bella compagna», al nostro giornale
Luciana Castellina
Aveva un tailleur-pantaloni in gessato, scarpe basse, camicetta bianca. I capelli biondi lunghi, ma non eccessivi. Era bellissima; e sobria. Era seduta proprio qui, nella redazione del manifesto, via Tomacelli 146 (le piccole stanze a metà corridoio, all’ultimo piano). Dove belle ragazze non mancavano, ma certo erano un’altra cosa. Lei era Barbarella, come l’aveva ribattezzata il suo primo marito, il regista francese Roger Vadim; ora finalmente di nuovo se stessa, Jane Fonda (grande cinema anche nella famiglia originaria, perché figlia di Henry e sorella di Peter), futura signora Hayden. Hayden Tom, leader degli Sds (Students for a democratic society ), uno di quelli che nel `69 finì in galera per aver pesantemente disturbato la Convention democratica di Chicago.
Quello era l’anno in cui il Vietnam, negli Stati uniti, aveva cominciato a scottare. Jane era venuta da noi come ambasciatrice del movimento americano per raccontare al manifesto, in quel tempo il gruppo politico più conosciuto fra le generazioni sessantottine del mondo intero, cosa stavano facendo e cosa si proponevano per bloccare l’aggressione all’ex colonia ereditata dalla Francia.
La malafemmina
L’improvviso riemergere dai fondi della memoria di questo paese aggredito – ora, come gli altri di Indocina, avviato ai commerci globali, ma utile parametro per stabilire i record dell’orrore della guerra moderna e della civiltà occidentale – mi ha riportato il ricordo di Jane Fonda, militante pacifista americana, la più nota, certo, e anche la più invisa ai militari, proprio perché incarnava assieme il mito della donna che ogni soldato sognava di avere come fidanzata e il simbolo di una spavalda rivolta. Una malafemmina, insomma, che disturbava non poco la mitologia americana. E la disturba tuttora, se si pensa alle grida della stampa neocon quando il volto quasi imberbe del candidato democratico John Kerry è apparso dietro a quello di Jane nella vecchissima foto di un tribunale allestito dal movimento pacifista americano per denunciare torture e vessazioni compiute dall’esercito nella piana del Mekong. E cui partecipavano – lo racconta con straordinarie testimonianze in diretta un film di trent’anni fa, «Winter Soldier» – gli stessi che quelle atrocità avevano compiuto e ora si rendevano conto di quel che erano stati indotti a fare dalla brutalità della guerra. Anche questa foto ha contribuito a rilanciare la memoria del Vietnam: il parallelo con l’Iraq è ogni giorno più stingente. Ma in questa campagna elettorale americana sembra che possa levare una parola critica sugli ammazzamenti di iracheni solo chi ha ammazzato almeno una buona dose di vietcong, altrimenti gli tolgono la parola.
Quando Jane venne in via Tomacelli doveva essere l’inizio del `72 e con noi restò a parlare a lungo, come una compagna qualsiasi. Una bella compagna. La rividi mesi dopo, nel viaggio in America per seguire la campagna elettorale che opponeva Nixon allo «scandaloso pacifista» McGovern, il mio primo viaggio negli Usa e il primo reportage oltreoceano del manifesto. Approdai a casa sua a Los Angeles, una villetta sulle pendici alte di Beverly Hills, sacco in spalla e dopo un certo numero di bus pieni solo di domestici neri, perché a quei tempi il giornale non poteva permettersi taxi né alberghi e in giro per gli Usa io andavo grazie alla catena di solidarietà dei compagni, dormendo a casa dell’operaio di Detroit o in quella, a La Jolla, di Herbert Marcuse, il biglietto aereo pagato grazie a qualche conferenza in università americane dove docenti progressisti introducevano presso famelici allievi le glorie della nuova sinistra europea. Nella catena, un anello era anche la casa di Jane e di Tom. Una casa nel quartiere delle star. Mi sembrò un accampamento, come tante delle nostre case di militanti in quell’epoca: nelle stanze piene di disordine, sacchi a pelo sparsi dovunque e libri e giornali accatastati negli angoli, alla parete la carta degli Usa, bandierine nei luoghi dove si era tenuta una manifestazione pacifista, perché, mi spiegarono, «abbiamo voluto privilegiare il Middlewest, l’America profonda delle piccole città, mai lambite dal movimento, più stravolte dall’informazione deformata».
Jane stava partendo per uno dei suoi «raid» serali lungo la costa californiana: una serie di conferenze, tenute assieme a reduci del Vietnam. Non stava bene, Jane: aveva la nausea. Solo dopo mi disse che credeva di aspettare un bambino. Ma partì lo stesso e io l’accompagnai giù per le lucenti autostrade fino ai grandi agglomerati urbani a ridosso di Hollywood. Non capitava spesso agli abitanti dei suburbi d’incontrare una come Jane Fonda e perciò le sale dei cinema erano affollate. Jane sapeva bene che ad averli mossi non era la preoccupazione per il Vietnam ma la curiosità per la diva famosa e il suo famosissimo clan. E proprio di là partiva per attrarne l’attenzione e condurli via via a capire.
Dal palco, microfono in mano, cominciava a raccontare di quando era piccola e suo padre Henry, assieme a Gary (Cooper), a John (Wayne), a Glenn (Ford) la sera giocavano a poker, sempre in stivali, il pistolone a fianco, i modi dei loro western, come se si trovassero in un saloon all’epoca della costruzione della ferrovia e non in un domestico salotto di amici. Incapaci di uscire dai loro personaggi, anche dopocena, a casa. La forza della mimica, dell’autosuggestione, del teatro, sicché alla fine non è più possibile discernere fra la realtà e finzione. Anche con lei era stato così, raccontava seducendo la gente in platea che seguiva, passo passo, ogni suo gesto: Hollywood l’aveva rifatta, alterata. Rifatto i seni perché non abbastanza grossi, le labbra perché troppo sottili, i capelli, i vestiti, il modo di camminare. Stravolgimento delle persone, delle cose, della storia. Non era forse andata così con i pellirossa? Gli indiani d’America erano ormai diventati quel che ne avevano fatto i film di Hollywood, così come suo padre e i suoi amici.
E’ solo dopo questa preparazione, seguendo un accorto crescendo, in cui ogni frase politica nasceva da un ricordo, da un’annotazione che veniva dalla Hollywood più esclusiva, è solo allora che Jane tirava fuori il Vietnam. Quando la gente era ormai dentro la sua rete.
La vicenda del Vietnam mistificata, i vietcong come gli indiani, gli eroi di Nixon come le marionette di Hollywood, gli uni barbari e cattivi, gli altri sempre coraggiosi, civili, vincitori. L’America inventata. Come ora.
L’accoglienza del pubblico era singolare: nemmeno un soffio che disturbasse il suo recital-comizio, tecnici, impiegati, quadri medio bassi dell’industria cinematografica più potente del mondo e del suo indotto affascinati dalle parole della compagna Fonda. Poi, appena lei lasciava il proscenio ai reduci e la realtà entrava in diretta un gran freddo che calava. Ma alla fine il bilancio della serata era positivo. Ricordo il discorso, ripetuto a ogni tappa ma sempre stravolgente, di un ex prigioniero dei Viet: in guerra c’era andato volontario, per comprarsi un’automobile. Poi il fronte, l’orrore, la vergogna, la paura quando era stato preso prigioniero e alla fine, però, aveva capito che i vietcong erano capaci di intendere quel che gli americani non avevano ancora afferrato: la distinzione fra popolo e governo degli Stati uniti.
Jane Fonda non è più una militante pacifista. E’ capitato a tanti, non le si può muovere particolare sermone. Ha sposato in ulteriori nozze Ted Turner, l’inventore-padrone di quella cosa da cui tutti dipendiamo: la Cnn. Almeno all’inizio, la tv globalizzata meno indecente. Proprio come attiva collaboratrice e non solo moglie di Turner ho reincontrato Jane qualche decennio dopo, in una buona conferenza dell’Onu sull’informazione. Mi domando cosa pensi adesso, quando la Cnn non è più nemmeno di suo marito e lei non è più sua moglie; e comunque la Cnn non è più quella che era.
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La visita di Jane Fonda al manifesto non fu una bizzarria ma un segno della famosa altra America che c’era e per fortuna, almeno un po’, c’è ancora.