7 Ottobre 2006

Incantesimi e veri cambiamenti

Cristina Mecenero

1. Punto e a capo
Sono dell’idea che il titolo del convegno sia molto sollecitante: quando è troppo, è troppo. Io voglio fare diventare questo troppo che ha invaso e inquinato la scuola – un troppo di leggi, norme, emozioni e sentimenti difficili e precari – un punto e a capo, quindi ridurlo, prima di tutto dentro di me, fare qualcosa per collaborare a che diventi meno troppo anche al di fuori di me, e andare a capo in due sensi: a capo della sua origine e del suo provocare quelli che chiamo incantesimi dannati o incantesimi con maleficio e a capo nel senso di aprire un altro periodo. Un periodo di nuovo governo della scuola. Qui intendo di nostro nuovo governo, sperando che ci si ritrovi a parlare anche di un nuovo governo scolastico pensato a livello istituzionale. E metterci in questo nuovo periodo pensiero e azione. E un po’ di magia e di sinergia creativa.

2. Meteoriti e osservazioni della volta celeste
Parto con un esempio che riguarda il troppo delle leggi e le ripercussioni che ne derivano nel desiderio di partecipazione e azione a scuola. Negli ultimi anni siamo state e stati chiamati a prepararci e poi a tradurre in pratica i cambiamenti organizzativi che continuamente dall’alto ci richiedevano e che corrispondevano a diverse concezioni della scuola e del fare scuola. Per un po’ io ho risposto interiormente avendo come prima disposizione quella di prendere sul serio le proposte, dedicando tempo a leggerle, per esempio i nuovi programmi dell’85, la riforma Berlinguer e la legge sull’autonomia scolastica del 1997, le indicazioni nazionali del 2002, e ricordo precisamente corsi di aggiornamento e riunioni – molte più di una – ovvero ore e ore di gruppi di studio nella scuola in cui sono stata per vent’anni, in cui con le mie colleghe si leggeva, si parlava, si riadattavano o modificavano tout court le frasi che avevamo usato fino a quel punto nei nostri piani di lavoro. Se anche accadeva che poche erano quelle che si preparavano a casa, e io ero sempre tra quelle, che si leggevano i materiali di compito, tutte si stava lì intorno a quell’oggetto, il cambiamento, per un certo tempo e con una certa spesa di energia. Per me non finiva lì. Legge della sicurezza (del 1994 ma introdotta nella scuola da Berlinguer nel 1998), legge della privacy (1996), concorsone (1999), funzioni obiettivo (1999) poi diventate funzioni strumentali (nel 2002), tutor, portfolio, i test Invalsi avviati in via sperimentale nel 2002 e istituiti con decreto legislativo nel 2004, sono tutte questioni che ho valutato anche insieme ad altre/i, negli incontri pubblici, politici e a volte erano valutazioni che ci trovavamo tutti d’accordo, o quasi, a considerare assurde pensate come quella del concorsone. Tonnellate di energia pura di pensiero e di vita emozionale imbrigliate in questioni organizzative, meritocratiche, gerarchiche, di pseudo scientismo didattico, di politically correct. Una vera emorragia a cui tornerò nella seconda parte del mio intervento.
A un certo punto è arrivato il quando è troppo è troppo…. E io ho iniziato a fare resistenza, a non essere più precipitosamente scrupolosa, a fare mosse in modo da mettermi al riparo, cioè in modo di far passare del tempo. Sì, a un certo punto avevo capito che era buono che io facessi così: prendessi tempo per vedere di che cosa si trattava in realtà… una meteora? Sembrano stelle cadenti, sembrano vere questioni che ci stravolgeranno la vita lavorativa e invece sono pezzi di roccia che bucano l’atmosfera e si disintegrano in un puf qualunque?…. è chiaro che in questa immagine non so dove mettere, io, la bellezza dell’effetto, quello appunto per cui si parla di stelle… forse lo sa chi si è sentito attratto da quei presupposti cambiamenti, chi ci ha creduto e ci crede ancora….
Per esempio circa il portfolio, sono stata tentata di mettermi nella commissione che avrebbe dovuto elaborarne uno, ma poi mi sono tolta. Non ho voluto occuparmi dell’ipotesi del portfolio per due motivi:
1) io non condividevo l’idea di base di certificare in quel modo il percorso delle bambine e dei bambini e come era stata pensato in pratica fino a quel punto era per me orribile (esempi di portfolio includevano domande tipo: Guarda giornali o libri che circolano per casa e sono dei grandi?);
2) ero arrivata a questa nuova consapevolezza: chi l’ha detto che il portfolio si realizzerà veramente? Chi l’ha detto che devo con il mio zelo far andare le cose in tempi efficienti? Anche se fosse solo per agire nel senso del male minore – e quindi elaborare un portfolio meno aggressivo, meno invadente, meno legato alla valutazione per obiettivi – io parteciperei comunque a reificarlo un po’ di più. Quando ancora viene detto che è sperimentale, quando ancora viene spiegato che bisogna lavorarci a quest’idea e quest’idea è contenuta neanche in una legge, ma in un’indicazione per una futura disposizione di legge, e quando soprattutto io intuisco che ci immette su una strada sbagliata. E ho preso consapevolmente distanza, togliendomi e rimanendo a guardare quel che succedeva. Nel fare questo ho dovuto fare i conti con un alcuni ostacoli interiori: soprassedere sull’ansia che provavo perché, lasciando fare alle colleghe, che un po’ ci credevano, avrebbe potuto derivarne un portfolio dei più tremendi, e infatti le ho trovate un giorno a confabulare intorno a portfogli scaricati da internet e ho pensato che si sarebbe messa male, ma nell’eventualità che ne fosse derivato qualcosa di raccapricciante allora avrei cercato una soluzione, solo allora, anche se tutta la scuola avesse votato a favore di quella proposta…. E come è andata a finire? che quel loro lavorio – delle due colleghe della mini commissione – non è approdato a nulla, perché nel frattempo erano partite alcune denunce e interrogazioni su quanto il portfolio entrasse in conflitto con la legge della privacy per l’illegittimità di alcune richieste di informazioni alle famiglie. E quando le colleghe, tutte quante, hanno capito che si trattava di una presunta innovazione che avrebbe comportato una maggiorazione del lavoro di documentazione formale, c’è stato uno sgonfiamento, un accantonamento dell’idea. Un altro ostacolo interiore è stato lo sbandamento che mi derivava dal sottrarmi all’azione: ho sentito che è sottile il confine tra sottrarsi per non reificare le cose e il lasciare andare, la deresponsabilizzazione, e ho avuto timore di diventare un’altra. Su questo crinale, in molte si sono trovate. Scivolare nell’indifferenza o rimanere in attesa, chiedendosi quando osare un’azione, quando stare ferme, risparmiando energia ma senza tenere la testa sotto la sabbia… Difficile.
Ed essere in anticipo sui tempi, come ci faceva trovare il mio ex direttore con la sua solerzia, non portava però a farci trovare pronte al cambiamento, e ad averne un guadagno, perché spesso accadeva di passare ad altro – altre contingenze, altre disposizioni – senza che tutto il movimento di discussione e elaborazione intorno all’oggetto precedente fosse nella realtà utilizzato e spesso anche noi, molte di noi…vogliamo fare le brave scolare, che eseguono la consegna senza alcuna presa di distanza dalla cosa. E il nostro atteggiamento nei confronti delle disposizioni di leggi scolastiche è pervaso dalla credulità, che quella cosa andrà fatta, che quella cosa sia sufficientemente buona se è stata pensata o dal dare per scontato che per via della nostra posizione, esecutrici del rapporto di insegnamento-apprendimento, dovremo mettere in atto le varie disposizioni di legge senza possibilità di scampo. E a fianco di questo però io sono riuscita in questi anni a stare in due scuole in cui niente portfolio, niente tutor, – credibile e vero – niente attività facoltative… niente cambiamenti? no, questo non posso dirlo, ma di certo niente di quei cambiamenti. E questo io credo anche grazie al fatto che non immettevo energie in quelle cose, io in quel modo, altre mie colleghe disinteressandosi, altre lottando con prese di posizione pubbliche. Il 17/7 di quest’anno è stato disapplicata la funzione di tutor e per una direttiva del 25 agosto la somministrazione delle prove Invalsi verrà effettuata da quest’anno scolastico solo su un campione di istituti, ed è di queste settimane l’abrogazione dell’anticipo alla scuola di infanzia: altre meteore che vanno a scomparire!
La strategia del prendere tempo io ho iniziato a praticarla da un po’ per vedere se effettivamente i cambiamenti supposti e paventati avrebbero preso forma, e quindi mi avrebbero veramente chiamato in causa, perché, quando viene introdotto un cambiamento, sei chiamata a dare una risposta, di modificazione o di rifiuto alla modificazione o di adattamento, insomma sei chiamata a investire parte del tuo pensiero, delle tue emozioni, a quella cosa lì e quando ti viene richiesto a getto continuo per anni e di vere buone modificazioni ne vedi pochissime… allora è un movimento di libertà e di forza iniziare a dare più credito alla tua stanchezza e a quel senso di dignità un po’ calpestata che ti fa dire: adesso calma, vediamo se davvero ci credete voi che proponete. Vediamo se non si disfa tutto da solo perché contiene il virus tipico delle politiche delle grandi organizzazioni, ovvero quello per cui le cose sono pensate a tavolino avendo come mito di fondo quello della modernità, cioè del mercato, dell’adeguamento all’Europa. Anche altre insegnanti e intere scuole hanno adottato questa strategia: finti movimenti, finti aggiustamenti di pof ma di fatto radici ben piantate in quello che c’era prima e che funzionava e attesa… E qui voglio mettere in risalto che molti dei cambiamenti avviati e poi lasciati cadere avevano questa caratteristica: non erano veramente strutturati, erano precariamente messi in azione senza disponibilità finanziarie che li sostenessero, senza un’analisi di fondo e un pensiero ben elaborato – pensate ai test Invalsi che furono sperimentati per ben tre anni, dal 2002 al 2004 e per i quali, come si legge nel rapporto finale del presidente stesso dell’Invalsi, Giacomo Elias, sui dati nazionali relativi alle prove del 2005 “rimane aperto il problema della significatività delle prove in mancanza di standard nazionali su cui dovrebbero essere costruite e tarate”: che significa che quei primi tre anni sono trascorsi senza nessuna reale sperimentazione! E di questo miscuglio piuttosto maleodorante di poca serietà, tendenza a una politica dirigenziale, e al pressappochismo cosa farcene? Un’occasione per fare un passaggio più consapevole verso un atteggiamento consistente di diffidenza benevola (la chiamo così, ispirandomi a Marianella Sclavi) verso le richieste dall’alto, e di autodiffidenza verso le nostre pronte risposte a tradurre in pratica i cambiamenti previsti nelle riforme e nelle nuove leggi. Diffidenza ma non malevolenza. Di sentimenti negativi infatti la scuola si è un po’ riempita in questi anni e sarebbe altamente pericoloso (lo è sempre) scegliere posizioni interiori e esteriori che li alimentino. Ricordo Simone Weil che tra le tentazioni della vita interiore metteva: non rispondere al male con azioni atte ad accrescerlo.
E se anche ci disincantiamo un po’ per via del fatto che le meteore non sono stelle cadenti e meno male che sono passeggere, non smettere di guardare la volta celeste. Questi processi in corso hanno di essere depotenzianti, sfibranti. Di farci sentire imbrigliate nel nostro contesto e in un presente normativo e per niente fantasioso.
Ed è per questo che quando Vita Cosentino, in uno degli incontri di preparazione a questo convegno, ha parlato di chiedere a questo nuovo governo di togliere, togliere tutto quanto si può e pesa sulla scuola a me si è accesa una lampadina. E chiedere, chiedere di fare uno stop di un anno, di due anni, rispetto a eventuali nuovi progetti istituzionali, invitando chi si trova nelle commissioni delle istituzioni a girare per le scuole, per guardare, osservare, rendersi conto. E anche per noi ci sono mosse possibili per alimentarsi: andare in altre scuole a vedere, a sentire che aria tira, a vedere che lì l’ansia è stata arginata, che ci sono spazi e tempi inventati e vitali. Io continuo a farlo: sono andata nella scuola di Clara Bianchi l’anno scorso e ho fatto un bel respiro in quel suo contesto, in corridoi pieni di tavoli che raccoglievano oggetti dei percorsi dei bambini e delle bambine e mi sono fatta mostrare alcune pratiche che lei ha messo a punto per l’insegnamento delle scienze e della matematica. Anche se insegno italiano. Anche se nella mia scuola non ci sono le stesse condizioni strutturali. Ma a questo punto è per me vitale aprire nuove strade che ci riportino a questioni essenziali, quelle questioni che sono state messe tra parentesi in questi anni. Una questione essenziale è per me stare vicino a situazioni buone, a maestre che fanno il mestiere ancora con piacere e senso, a scuole che non sono segnate troppo da paure, tendenza al controllo o al lasciarsi andare. Un’altra questione essenziale l’ha sollevata Bardo, il maestro romano che interverrà domani mattina, in uno degli incontri preparatori per questo nostro appuntamento: non si parte più dalle bambine e dai bambini, da che cosa hanno bisogno adesso, si parla solo di organizzazione, di acquisti, di soldi che non ci sono, viene definita solo la cornice, cosa ci mettiamo dentro non è più in discussione. Ripensare con fantasia all’infanzia e a noi, a partire dall’infanzia, e con amicizia e aiuto, come dice Anna Maria Ortese, alla vita che trascorriamo lì dentro, e invitando anche chi è nelle alte sfere a farlo, con parole nuove che noi proponiamo. Perché a naso io dico che siamo proprio in un’altra fase rispetto a quella che era tenuta su dall’illusione che fosse un atteggiamento tecnico e pseudo scientifico quello di cui avevamo bisogno per uscire da questo empasse, da questo incantesimo. Siamo in un momento di sprofondamento. Bisogna ricucire e rinarrare i fatti, le situazioni, i vissuti e i cambiamenti reali che stanno avvenendo. E provare a mettere in campo idee di facile realizzazione – per esempio quella di andare in altre scuole a osservare altre maestre o insegnanti anche di altro ordine – pensandoli come momenti di nutrimento della mente e del cuore e che si possono sostituire a una parte di programmazione. Perché il cuore e il sentimento se ne vanno altrove quando il presente ti “cade addosso” (espressione questa che riprendo da Chiara Zamboni).
Andando anche a riprendere chi nel passato si è speso con generosità e amore nei confronti dell’infanzia, andare a rifrequentare chi ci ha messo il cuore perché con l’infanzia si fa sempre fatica e tutto è già di per sé a rischio. Ispirandoci a ipotesi molto diverse da quelle che sono in azione, per esempio nel campo della formazione, e non per arrivare a sistematizzare nuovi modelli sostitutivi, ma per far lievitare una nuova fase, nel tempo. Prendendoci con consapevolezza un po’ di tempo di ascolto e di osservazione della realtà di oggi e fermandoci dalla coazione a reagire. Nel campo della psicoanalisi, abbiamo tesori a cui attingere, in un momento questo in cui sembra che i guadagni che ci sono derivati da quell’esperienza culturale siano dimenticati. Francoise Dolto diceva nel 1973: “Non bisognerebbe più imporre diplomi ma molto semplicemente accogliere nelle scuole gli aspiranti e bisognerebbe giudicarli secondo questo criterio: osservare i loro risultati coi bambini, la loro capacità di interessarsi agli allievi, di sostenerne gli sforzi, nel lavoro personale, nelle materie e nelle attività che li appassionano. Aprire la possibilità di insegnare e di curare, di educare con contratti a tempo rinnovabili, a tutti coloro che sono dotati per queste attività, dargli un salario onesto, perché l’educazione della gioventù è il mestiere più difficile e più importante, impiegarli soltanto per un periodo, con anni intercalati per rinnovarsi, e non a vita: sarebbe in realtà una rivoluzione enorme, lo so. Ma a mio avviso indispensabile.” Nell’idea della Dolto, come anche in quella di andare a osservare altre insegnanti e di lasciare cadere e smontare la legge della sicurezza (di cui parlerò tra poco) la direzione è quella di aprire le scuole con fiducia e libertà verso altre, altri che portano e prendono il meglio che si può.

3. Le leggi della trasparenza e della sicurezza: incantesimi con maleficio
Quell’atteggiamento di ubbidienza, di zelo, l’ho ritrovato dentro di me anche nei confronti della legge della sicurezza, in me che non sono di primo pelo nel rapporto con le questioni normative scolastiche e in rapporto con questioni come libertà e disubbidienza, conflitto… dunque arrivo in questa scuola nuova l’anno scorso e trovo che per via della legge della sicurezza, così mi viene spiegato dalle colleghe, in quella scuola non si possono più fare portare i classici dolci per festeggiare i compleanni dei bambini in classe… niente più torte! Che significa niente più di quella dolcezza nelle aule, una sottrazione di dolcezza nelle scuole. Perché se poi sta male qualcuno di chi è la responsabilità? Della mamma che ha portato la torta, della preside e della maestra che ha permesso alla torta di entrare, della casa produttrice che la torta l’ha fatta uscire difettata… la prima mia reazione dentro è stata: è giusto! Mi adeguo, e il primo mio pensiero è andato alle bambine e ai bambini che avrebbero potuto stare male… è giusto prevenire, è giusto evitare situazioni rischiose… e questo l’ho pensato anche se io venivo da una scuola in cui le cose erano andate per vent’anni molto diversamente: non solo festeggiavamo, ma anche alla grande, Quindi prima reazione mi adeguo. Seconda reazione: non sono convinta di quello che sta succedendo, sento la disarmonia tra ciò che sperimento lì al presente e un dolce passato, è proprio il caso di dirlo, e inizio a investigare per sapere da dove viene esattamente l’interdizione…. Durante quell’anno scolastico io non avevo letto circolari della dirigente che vietavano dolci… dunque? Dunque scopro che l’anno prima una comunicazione di Milano ristorazione, l’ente che si occupa delle mense scolastiche, vietava il consumo di cibi portati dall’esterno, cioè dalle famiglie, o dalle maestre, che non fossero quelli da tale ente cucinati… perché? perché se qualcuno fosse stato male a chi imputare la responsabilità? Al cibo mangiato durante il pasto a mensa o al dolce gustato durante l’intervallo della mattina? Ma il passaggio decisivo era stato determinato da un tandem tra la preside e le mie colleghe. La preside aveva colto la palla al balzo (in effetti se fosse per lei la palla, dato lo stato di tensione in cui si trova e l’hanno messa le nuove leggi, oltre che colta, sarebbe imprigionata da qualche parte e là dimenticata, perché anch’essa decisamente pericolosa) e a partire da quella circolare aveva reiterato la cosa dicendola a voce, e solo a voce, alle colleghe che durante i collegi le chiedevano, ma allora preside non si possono più far portare i dolci? E la maggior parte delle colleghe si sono a messe a rispettare quella disposizione per paura. Pura paura.
Quindi la legge della sicurezza aveva reso quelle donne – la preside e quel gruppo di maestre – più insicure. Un paradosso! E la preside, interrogata da me sul contraccolpo che tali leggi – quella della sicurezza e quella della privacy – avevano avuto su di lei ha ammesso che le producevano più ansia, più incertezza, più paura. E sappiamo che un dirigente scolastico influenza l’atmosfera educativa di una scuola. Ha detto precisamente: “hanno prodotto più insicurezza nel trattare con le persone. Occorre chiedere molte più autorizzazioni di prima, come dire: non ci fidiamo più di nessuno”. “E non tutti acconsentono a darle”, non tutti i genitori intendeva, perché secondo lei alcune madri e alcuni padri “comprendono” l’importanza del passaggio di informazioni (qui apro una parentesi perché non so cosa intendesse con il dire i genitori comprendono l’importanza del passaggio di informazioni, io direi che i genitori che hanno “problemi” sono tentati dalla legge a nasconderli: per senso di dignità, per tentazione alla rimozione, per paure di reazioni spiacevoli da parte delle insegnanti?). I cosiddetti dati sensibili – se i genitori di una creatura sono separati, se la bambina o il bambino è stato spesso malato durante la sua esperienza alla scuola materna, che tipo di malattie ha avuto – non sono più dati che possono circolare tra noi insegnanti della scuola primaria e della scuola dell’infanzia direttamente, ma solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione dei genitori. Questo influisce in due modi: se la bambina o il bambino viene da una scuola di un’altra zona, noi non abbiamo davvero la possibilità di sapere queste cose col rischio di essere poco sensibili a situazioni, parole e gesti legati a quel bambino; se la bambina o il bambino proviene dalla scuola materna dei dintorni è facile che la segretezza di quei dati sensibili si risolva nel famoso segreto di Pulcinella, per cui tutti in realtà sanno già tutto, le maestre, le mamme dei compagni, anzi a volte sono proprio loro a farli circolare questi dati sensibili, ma noi insegnanti non abbiamo il diritto di parlarne. Tutti, per via di una legge, ci ritroviamo come in mezzo a un incantesimo, lo chiamerei l’incantesimo dell’ipocrisia, per metà già rotto dal controincantesimo della realtà stessa, e per metà ancora aleggiante nell’aria con quell’effetto di irrigidire i movimenti di parole e corpi di adulte e adulti che si incontrano a parlare di creature piccole.
Sono incantesimi che chiamerei anche incantesimi dannati, perché ci fanno dannare con disposizioni al limite della paranoia. Torno con un altro esempio alla legge della sicurezza. E’ interessante mettere a fuoco che la legge della sicurezza non è declinata in particolari specifici, ma è interpretata da colei o colui che diventa il responsabile della sicurezza di un certo luogo a seconda della personalità di lui o di lei, personalità che per il ruolo di cui viene rivestita è intaccata nel suo equilibrio dal timore di incorrere in denunce. Chiunque umano sia messo nella condizione di temere denunce, di temere accuse, metterà in campo la parte più debole di sé, a meno che non assuma la posizione dell’indifferenza inconsapevole (non si pone il problema dei rischi che corre lui per via di quella legge e della posizione in cui è venuto a trovarsi diventando responsabile della sicurezza) o della signoria consapevole (sa di correre dei rischi ma mette al primo posto il buon senso e non la paura). Nella nuova scuola la responsabile è una donna che l’anno prossimo andrà in pensione, zelante nei confronti delle leggi, autoritaria nei confronti delle colleghe, per cui noi non possiamo tenere nei vasti corridoi e atri della nostra scuola né tavoli né tavolini, e quindi niente mostre con oggetti tridimensionali, certo appesi alla parete possiamo ancora mettere i tradizionali cartelloni (ma quando si accorgeranno che sono fatti di materiale infiammabile, allora niente più anche di quelli?), ma gli arredi che “ingombrano” no, perché i bambini potrebbero sbatterci addosso. E allora altro che occupazione creativa degli spazi: la nostra scuola appare come un vuoto spazio pieno di insicurezza. Educativo? Certo a qualcosa stiamo educando, grazie a questa legge e agli effetti che ha sulle persone stiamo educando probabilmente i bambini e le bambine a non cavarsela bene nello spazio, nel tempo e nelle emozioni.
E l’incantesimo si estende anche sul parco della nostra scuola, e lì diventa vero e proprio incantesimo con maleficio, un vero bel parco che per essere a Milano c’è da leccarsi le dita, in cui:
1) è fatto divieto ai bambini di giocare con pezzetti di legno: è pericoloso e fonte di incidenti
2) è fatto divieto di giocare con la palla, che non sia di spugna… ma poi qualcuno racconta che proprio da una palla di spugna un sassolino si è staccato ed è finito nell’occhio di un bambino… e allora le cose vengono lasciate a mezz’aria, palla di spugna o palla di gomma o non palla?
La questione dei pezzetti di legno l’ha smontata una mia collega quando ha detto: è contro natura. Ed è proprio così: è contro natura dire a una bambina o a un bambino di non giocare con i legnetti, di non giocare con i sassi, di non salire sugli alberi. Emmi Pikler, una pediatra che ha lavorato nel pronto soccorso delle periferia e del centro di Vienna prima di diventare direttrice di un orfanotrofio a Budapest, aveva verificato un particolare fenomeno: al pronto soccorso della periferia a cui si riferivano famiglie relativamente povere, i cui bambini passavano molto tempo a girare o giocare per strada senza sorveglianza, arrivavano bambini incidentati seriamente in proporzione assai minore rispetto alla quantità di casi analoghi registrati in ospedali o cliniche che servivano famiglie benestanti i cui bambini erano costantemente sotto l’attenzione di mamme o balie. Sapete lei cosa fece di questa osservazione? Un sapere di cui si servì per arrivare a gestire l’istituto che le affidarono nel 1947 basandosi tra l’altro su questa conclusione: i bambini abituati a muoversi liberamente, senza restrizioni, sono bambini più prudenti, sanno muoversi e cadere meglio dei bambini limitati e protetti da adulti anche del tutto ben disposti. Lei ha scelto per la fiducia e la sperimentazione del corpo, del movimento e dello spazio. Molte maestre non se la sentono più di fare questa scelta. La legge sulla sicurezza deve essere lasciata cadere. Abbiamo bisogno di spazio per il pensiero e il cuore, non per la diffidenza.
I miei passaggi interiori mi hanno portata a scegliere di non avere paura: scelgo di non voler essere dominata dal timore che possano succedere incidenti irreparabili, di guardare ai movimenti dei bambini fuori e dentro la scuola come ad azioni naturali, tengo ben presente che di guai seri ne capitano pochissimi. Scelgo di valutare le situazioni secondo il mio senso di donna adulta che vive su questo pianeta e ne ha esperienza da più di quarant’anni: le torte le abbiamo riprese a mangiare, senza più chiedere permessi o no, i legnetti si usano per giocare e anche la palla, e non di spugna. A volte tentenno, e allora ripercorro da capo la strada che mi ha portato a non provare l’ansia e la paura. So che potrebbe succedere non tanto un incidente quanto, molto più probabile, un guasto con una mamma o un papà che potrebbero montare un caso intorno a un piccolo evento: c’è una cultura, televisiva e di comportamento sociale, che è molto ricca in materia, per cui la tentazione di denunciare per i genitori è più forte di prima. Ma io scelgo di rischiare, non intensificando il controllo in modo irrazionale o stonato. E se andrà storto qualcosa, a me o a qualcun altra, possiamo sempre fare delle gran collette! E’ bene dirci che nessuna denuncia può toccare quella parte intima di noi che si dà anima e corpo al nostro mestiere, con tutte le imperfezioni-disattenzioni-incomprensioni-cattive valutazioni che la nostra umanità comporta. Ovvero è bene dirci che questo è vero se si è all’interno di reti di scambio di forza e pensiero con altre e altri, di confronto e sostegno con le colleghe, i colleghi e i genitori. E a patto che i dirigenti facciano la loro parte, assicurando in questo modo il non dilagare o amplificarsi del disordine simbolico.
Abbiamo bisogno di un’atmosfera di base pregna di sentimenti e emozioni di fiducia, abbiamo bisogno di governare gli spazi – reali e simbolici – con il buon senso, quello che prima della legge della sicurezza era all’opera e ci faceva predisporre gli arredi in modo sano. Insicurezza, timore e controllo se sono così pervasivi intaccano anche il nostro rapporto con l’infanzia in senso più generale, non si sa più cosa è meglio fare, non si sa più come trattare disciplina-discipline e vissuti. Il buon senso è abbastanza se riiniziamo a pensare che siamo comunità educanti di viventi, con storie e sensibilità sufficientemente sane e strutturate da reggere agli imprevisti da valutare man mano, alla quotidianità con il suo margine di rischio positivo e negativo, e se facciamo del buon senso delle cose e delle buone risposte (come le chiama Anna Maria Ortese) una traccia da seguire nei prossimi anni in cui, invece che cambiamenti, introduciamo spazi pubblici allargati e locali di riflessione e ricostruzione di un discorso sulle vite educative delle bambine e dei bambini delle nostre città, sulle vite educative delle maestre e sulla storia educativa delle mamme e dei papà.
Partendo dal nostro troppo – di vita piena, di stanchezze accumulate, di timori cresciuti, di tendenza alla passività e alla deresponsabilizzazione – vissuti questi che hanno una cornice contestuale epocale da guardare quindi non come a insufficienze individuali, ma come tendenze collettive uniformanti. Partendo dal troppo che le condizioni istituzionali producono perché quando si aggiunge o si toglie qualcosa dalla scuola si deve pensare a quale sarà il contraccolpo:
– è stato tolto l’esame di quinta elementare: è venuta a mancare la cornice simbolica di un’elaborazione di un passaggio a un altro ordine; in molti casi questo ha significato meno cura nell’accompagnamento alla conclusione di un percorso; molte maestre hanno dismesso la pratica delle ricerche finali (una tradizione della scuola elementare italiana), hanno disinvestito sull’uso della biblioteca scientifica e storica sia perché non c’è più l’esame sia perché la storia da trattare secondo le indicazioni nazionali della Moratti era solo fino al medioevo; il livello della qualità dell’esperienza umana ed educativa così si abbassa velocemente e sono le stesse maestre più esperte a lasciarlo andare senza vergogna…
Abbiamo bisogno di individuare le soglie al di là delle quali l’istituzione produce frustrazione, come ci indica Ivan Illich, e di far circolare altre parole e altri discorsi nelle nostre esperienze di insegnanti e di donne e uomini che stanno nell’istituzione scolastica che ha aspetti oggi più di ieri decisamente ingombranti e ambigui. Io ne ho trovate alcune da Anna Maria Ortese, che voglio condividere con voi, lasciando che siano queste ad aleggiare come chiusura nell’aria:

 

la vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti – proprio da tutte le parti – chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo e il valore di ogni buona risposta è immenso, se anche non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese e di ogni vita vivente. (…) E’ tutto il respiro. E’ Dio stesso; ed è la cultura quando non fine a se stessa; quando d’un tratto – voi non lo sapevate che era anche questo – solleva e trasporta i popoli, come fa a volte, con le confuse onde del mare, un gran vento celeste“.

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