Cristina Mecenero
Ciò che scrivo di seguito ha come cornice questo secondo convegno
organizzato dal Cesp, un tempo di riflessione e di confronto che si
propone non come parentesi tra le lotte, ma come parte di esse, e
naturalmente il grande movimento che ha preso forma in questi ultimi
mesi a partire dalle scuole elementari, per cui mi sento ora ancora
più orgogliosa di essere una maestra.
L’argomento del convegno, Non abbiamo tempo pieno da perdere, invita a
pensare in più direzioni – per esempio quella del rapporto tra tempo e
crescita, tra bambini e bambine e tempi di esperienza, tra noi adulti
che ci occupiamo di loro e ciò che possiamo fare accadere nelle
classi; io scelgo di seguirne una, e cioè di dare voce agli intrecci
tra le maestre che siamo e la scuola che abbiamo fatto finora.
Scelgo di parlare al femminile, le maestre, perché le maestre sono il
novantacinque per cento della scuola elementare, senza nulla togliere
a Gianluca, Gabriele, Andrea e Franco, maestri che ho conosciuto e che
stimo, e agli altri che fanno questo mestiere con grande impegno e
investimento emotivo e intellettuale. E dovendo più a loro che a noi
l’essere qui in un contesto pubblico a parlare di scuola elementare,
perché come maestre non abbiamo mai amato dialogare con la scena
pubblica. Ma voglio che la lingua esprima quello che è, sapendo che
ciò è importante sempre e soprattutto quando si vuole riflettere.
La prima vera preoccupazione che io abbia mai avuto da che ho iniziato
a insegnare – una sorta di sentimento di incertezza, precarietà, non
corrispondenza, e di lutto, per la scuola come è stata e come io l’ho
fatta finora – l’ho provata alcuni mesi fa, quando mi sono resa conto
che la nuova proposta di riforma scardinava alcune di quelle
condizioni che negli ultimi trent’anni hanno fatto sì che noi maestre
elementari abbiamo potuto fare una buona scuola. Tutor, frantumazione
dei tempi e forse anche del gruppo classe, anticipo, abrogazione del
tempo pieno: ciò che portano con sé queste “novità” sono un’atmosfera
di fondo, un’idea di base, una prospettiva che taglia con ciò che
abbiamo fatto fino a ora. Taglia senza indugi, come se niente fosse,
come se non ci fosse nessuno veramente nelle scuole elementari, non
veramente donne per la maggior parte, e uomini, che spendono la loro
vita dedicandosi a questo mestiere, non veramente bambini e bambine
che ancora oggi sono quello che sono e cioè appartenenti a quella fase
della vita che ha delle caratteristiche tutte e sue e non si può
ridurre ad altro, se non a costi umani altissimi.
Il tempo pieno è lo strumento che abbiamo accordato in questi
trent’anni per fare una buona scuola e per vivere bene a scuola. Così
è, molto semplicemente.
A me ha permesso di attraversare un periodo storico, quello degli anni
Ottanta e Novanta, esercitando un mestiere che non presupponeva grandi
fratture con la mia vita personale, non presupponeva una scissione
problematica tra il mio desiderio di lavorare bene, di fare cose con
senso, di partecipare alla vita della società contribuendo al bene
comune, nonostante la tornata cognitivista e gli “attacchi” a
un’organizzazione sensata, per esempio il dimezzamento delle ore di
contemporaneità. Mi ha permesso di stare nell’eredità delle grande
sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta da cui deriva il
modello di scuola del tempo pieno, di starci imparando il senso della
condivisione, della collegialità, del fare pratico, del fare
immaginativo, del lasciare spazio al corpo.
A partire da quell’eredità negli anni ho visto le maestre che siamo
continuare nella scelta della condivisione, della collaborazione, di
grandi eventi culturali, legati all’interculturalità, alla pace, alla
presa di consapevolezza di chi si è e chi sono gli altri e cosa
possiamo fare insieme, insieme ai nonni e alle nonne, agli anziani del
paese, agli extracomunitari, ai nostri vicini compagni delle scuole
materne e delle medie. Tutti eventi organizzati coinvolgendo decine e
decine di bambini e genitori, non più io credo per adesione a una
visione del mondo che aveva una traduzione in un movimento politico,
ma per risonanza.
Risonanza a che cosa? Io credo che abbiamo sentito risonanza con il
nostro compito di stare vicino all’inizio.
Se lo dico così il mio mestiere, e quello di chi lavora nella scuola
materna-d’infanzia, prende la forma che io sento che ha, di un
mestiere di grande respiro, un mestiere che porta con sé un profondo
significato simbolico sociale e culturale.
Stare vicino all’inizio sembra facile, ma non lo è. Perché? Perché
presuppone di rimanere in contatto con le cose essenziali, di base.
Significa accompagnare le bambine ei bambini in un percorso in cui si
giocano cose elementari, ma che appartengono all’ordine delle
fondamenta, cose intorno alle quali tutto si ordina, prende senso e
progredisce. Cose da poco? Chi ha il coraggio di dirlo… eppure per la
nostra società sapere stare vicino all’inizio è tutto fuorché
interessante.
Stare vicino all’inizio significa stare nel contatto, è dal contatto
col corpo culturale dei bambini che le maestre sanno, sanno cosa fare,
se di mattina o di pomeriggio, sanno quando aspettare perché qualcuno
è assente, sanno quando è necessario dare una mano, o chiedere
consiglio quando le vicende si complicano. Sanno dialogare con le loro
passioni legandole alla didattica, che è un oggetto duro, in mezzo a
tutto quel ben di dio che è l’intelligenza morbida, sfumata,
sfrontata, leggera e spietata dell’infanzia, quella didattica che a
volte sfugge, e sfugge via anche dai corpi bambini.
Saper stare vicino all’inizio: all’inizio c’è affetto e conoscenza,
affetto e sentimento, affetto e emozioni. Stare nel movimento che si
produce nella vicinanza a tante piccole creature e al loro esserci
affettivo, quell’esserci nel sentimento della conoscenza, è questo che
ha imparato chi fa bene la maestra. Per stare lì, stai in contatto con
la tua vita, con te stessa, prima e di più che con le competenze
tecniche.
Noi maestre e maestri ora siamo scesi in piazza, abbiamo invaso la
Rete, penso qui a quello che sta succedendo nel sito di Rete Scuole,
abbiamo tenuto assemblee, per dire no a questa riforma e insieme alle
bambine e ai bambini e ai loro genitori stiamo dicendo pubblicamente
in varie situazioni perché la scuola elementare funziona.
Io lo dico così: la scuola elementare funziona perché le maestre non
praticano il mestiere ad arte, lo praticano con arte .
Le maestre non c’entrano quasi niente coll’essere professioniste. Le
maestre sono molto di più. E molto di meno. Ed è attraverso questo più
e questo meno che le maestre lasciano passare gli entusiasmi, i
coinvolgimenti e l’esserci che distingue l’essenza del nostro lavoro
da quello di chi insegna negli altri ordini di scuola. Le maestre sono
donne che vanno e vengono da corsi, letture e partecipazioni a eventi
sociali e culturali: vanno – ricevono, prendono, si infervorano – e
vengono-tornano a scuola filtrando tecniche e approcci e specialismi
attraverso l’intelligenza dello stare in presenza dell’infanzia.
Ma per praticare un mestiere come il nostro con arte abbiamo bisogno
di uno spazio simbolico e concreto. Lo spazio che ha tutte e due
queste caratteristiche è quello che si crea intorno all’essere in due,
alla collegialità, alla collaborazione, alla corresponsabilità,
all’avere un tempo generoso a disposizione. Quello spazio ora è messo
completamente in discussione dalla nuova Riforma.
Ma i bambini non chiedono a noi un portfolio, o attività opzionali, o
di essere tutorati: chiedono a noi di esserci, prima di tutto, stando
lì al loro fianco, presenti con tutto il carico e la leggerezza della
nostra e della loro storia. Quell’esserci è un elemento strutturale
della relazione a scuola con i bambini e le bambine. Sentirsi chiamate
in causa: è questo che per noi ne consegue, e di questa chiamata a
esserci fa parte anche la fatica del fare la maestra. Per esserci a
fianco dell’infanzia, abbiamo fatto scuola finora sporcandoci le mani,
nei laboratori, nelle attività teatrali, nelle invenzioni del momento,
nei pasticci dei bambini.
Le maestre sono donne che si sporcano le mani. Si sporcano le mani per
il sapere. Per accompagnare le creature piccole a padroneggiare alcuni
strumenti della nostra cultura. È indispensabile sporcarsi le mani se
si è maestre, perché la materialità, la corporeità, la fisicità –
della materia, in senso lato e duplice, della voce, del contatto,
dello sguardo – sono la dimensione delle bambine e dei bambini con cui
stiamo per quattro o sei ore al giorno per cinque anni. Il pensiero si
muove dentro di noi e circola fuori di noi molto diversamente se la
partenza è la mente, il ragionare, l’intellettualizzare, o se si parte
dal corpo, e quindi dall’esserci affettivo, emotivo, con sentimenti e
intuizioni e sensibilità…. Con le mani manteniamo un contatto
intelligente con l’esperienza, e ciò che guadagniamo dall’esperienza
lo manipoliamo subito dopo per farlo diventare di nuovo materia, come
quando si cucina. Ed è di questa pasta che è fatto il nostro sapere.
Le nostre voci ora stanno contribuendo al passaggio che si può avere
dall’esperienza diretta al sapere, e cioè al passaggio dall’esperienza
di stare vicino all’inizio (all’inizio dei percorsi, all’inizio della
vita, all’esperienza più che alla teoria) al sapere che può derivarne
e di cui potrebbe fare tesoro la società, una società interessata al
rapporto tra generazioni, non dimentica che il mondo è fatto ogni
giorno da noi bambini-adolescenti-adulti, che siamo un po’ tutto, un
po’ tutto assieme.
Gregory Bateson conclude uno dei suoi libri con una domanda: come
insegnanti siamo saggi?
Io dico che sì, come maestre siamo sagge.
Cara Ministra, cara società, per dare una buona nuova forma alla
scuola, non avete che da ascoltarci.