20 Dicembre 2005

Intervento di Laura Colombo per il ciclo “Sessualità, maternità, procreazione, aborto”

Sara Gandini e Laura Colombo hanno introdotto il terzo incontro al Circolo della Rosa, per il ciclo Donne a confronto con quello che capita: Sessualità, maternità, procreazione, aborto è un vecchio titolo di uno dei primi Sottosopra (1975). Vale la pena parlare della 194 senza tirare fuori la sessualità e il conflitto tra i sessi?

 

In Italia fino al 1975 l’aborto era una pratica illegale. Utilizzato da sempre dalle donne per far fronte a maternità indesiderate, era tuttavia perseguibile penalmente.

 

Nel 1975 un’importante sentenza della Corte Costituzionale stabiliva la differenza tra un embrione e un essere umano – precisamente la donna incinta -, e sanciva la prevalenza della salute della madre rispetto alla vita del nascituro.
Ecco un frammento della sentenza della Corte Costituzionale n. 27, del 18 febbraio 1975: “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare” (fonte http://www.cortecostituzionale.it)

 

Il 22 maggio 1978 viene approvata la legge 194, una legge di compromesso – e leggendola si sente. Non si deve dimenticare che fu firmata da ministri democristiani e da un presidente della Repubblica anch’egli democristiano (Giovanni Leone). Già nel 1981 Laura Conti nel libro Il tormento e lo scudo parlava di “compromesso contro le donne”.
La 194 riconosce il diritto della donna a interrompere, gratuitamente e nelle strutture pubbliche, solo in queste, la gravidanza indesiderata.
Inoltre si stabiliscono politiche di prevenzione da attuarsi presso i consultori familiari.
Ed è ammessa la possibilità di non operare per il medico che sollevi obiezione di coscienza.

 

Il Movimento delle donne assume sostanzialmente due posizioni nei confronti della richiesta di una normativa sull’aborto, posizioni che sono ben riassunte nella voce Aborto (scritta da Clelia Pallotta) del Lessico politico delle donne / Donne e medicina, una pubblicazione del 1978: “Mentre i laici e i cattolici contrapposti portavano avanti la battaglia per l’aborto a livello parlamentare, il Movimento delle donne ha continuato separatamente il suo dibattito. Schematizzando si possono individuare due posizioni di fondo: una che ha visto nella formulazione di una legge che legalizzasse e rendesse assistito e gratuito l’aborto, la conquista di un diritto civile e il riconoscimento sociale dei diritti e della forza delle donne; l’altra posizione non ha invece ritenuto utile per le donne una riforma sociale, come è una normativa sull’aborto (…) Rimanere incinte senza desiderarlo o essere costrette ad abortire anche se si desidera un figlio provoca nelle donne conflitti e situazioni tali che nessuna legge può pensare di regolare, sistematizzare o risolvere. (…) Per questo si è chiesta semplicemente l’abolizione del reato di aborto, la depenalizzazione; la cura medica sarebbe stata garantita, come lo è per qualsiasi altra necessità de assistenza dei cittadini“.

 

Il fascicolo speciale del Sottosopra rosso del 1975 inizia con queste parole: “Recentemente nella società è prevalsa l’idea di trovare un compromesso meno ipocrita e meno iniquo su tale problema (l’aborto n.d.r.), salvo restando che tocca e toccherà sempre alle donne assicurare la limitazione delle nascite con i vari sistemi esistenti dei quali l’aborto è quello principale.
Noi donne invece diciamo: (1) che non vogliamo più abortire; (2) che non si può parlare di aborto senza chiamare in causa la sessualità dominante e la struttura sociale
“.

 

I nodi posti alla discussione dalle donne che sostenevano la depenalizzazione dell’aborto sono pregnanti e a mio parere quelle questioni sarebbero da porre alla discussione anche oggi, in una società profondamente cambiata anche grazie all’avvento della libertà femminile. Naturalmente, in una situazione così modificata, alcune delle risposte potrebbero essere – a mio avviso – profondamente diverse. Vediamo le questioni in gioco nel movimento di allora:

 

1) Principio dell’autodeterminazione.
Rivolta femminile (gennaio 1975 – identità femminile e aborto): “L’inconscio della donna registra che la nascita di un altro essere avviene al prezzo dell’accettazione della sua propria morte. E nessuno, se non la donna stessa, può decidere se è giunto per lei il momento di tale accettazione”.

 

Gruppo donne di Torino (Sottosopra 1975 – la perdita del nostro corpo): “Diritto di decidere sempre e in ogni momento in prima persona quanto è bene per noi”.

 

2) Necessità di una presa di coscienza femminile a partire dalla sessualità e, da qui, messa a fuoco della centralità del conflitto tra i sessi, necessità che il conflitto si apra nella società (e non venga invece “pacificato” con la legge).
Rivolta femminile (luglio 1971 – Sessualità femminile e aborto): “Libera maternità e libera sessualità devono trovare i loro significati all’interno della nostra presa di coscienza: solo così saremo sicure che la libertà di cui si parla è la nostra e non quella del maschio che si realizza attraverso di noi, attraverso al nostra più occulta oppressione”
“L’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare fecondata nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale, nel momento in cui si compie l’atto che la rende sessualmente colonizzata. Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile che fa del concepimento un problema di chi p

ossiede l’utero e non di chi detiene la cultura del pene”.

Collettivo cherubini (febbraio 1973 – A proposito dell’aborto): “Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive sull’aborto (…) ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri nostri problemi (sessualità, maternità, socializzazione dei bambini e del lavoro domestico). (…) Perché l’aborto non sia un nuovo strumento di oppressione, esso deve rientrare in un programma di mutamento radicale delle nostre condizioni”.

 

Sottosopra 1975 (p.3): “Non è nel nostro interesse trattare del problema dell’aborto per se stesso. Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, e a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo”.

 

Gruppo donne di Torino (Sottosopra 1975 – la perdita del nostro corpo): “Abbiamo così iniziato un discorso che oltre a contestare l’impostazione alienata della questione “aborto”, era un tentativo di incentrare il discorso sul nostro corpo, sulla nostra sessualità, nel convincimento che solo da questa riflessione può emergere una pratica autonoma originale, che facci esplodere la contraddizione dell’essere donne in un mondo che ci nega continuamente in quanto tali”.

 

Collettivo cherubini (Sottosopra 1975 – noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso): “Emerge qui la contraddizione tra sessualità femminile e sessualità maschile, la realtà del dominio maschile sulla donna (…) La clandestinità dell’aborto è una vergogna degli uomini, i quali spedendoci negli ospedali ad abortire ufficialmente si metteranno la coscienza in pace in modo definitivo. (…) Al contrario noi donne preferiamo: o essere lasciate in pace (le statistiche sulla frigidità parlano chiaro) o cercare godimento e gioia in altri modi”.

 

Collettivo cherubini (Sottosopra 1975): “[necessità di] mettere l’accento … sulla violenza, cioè sull’attuale rapporto di potere, di forza, che c’è tra uomini e donne. (…) Io credo che sarebbe utile analizzare tale rapporto di potere sia da parte di chi ha avvertito in modo tremendo la violenza che gli uomini hanno fatto sul corpo della donna ed è stata frigida completamente, sia da parte di chi non è arrivata a questa censura e magari ha somatizzato in modo diverso ad esempio è ricorsa alla finzione o alla seduzione per sostenere il proprio desiderio, per non dover tagliare e censurare totalmente il proprio corpo”.

 

Gruppo donne di Torino (Sottosopra 1975 – la perdita del nostro corpo): “[esigenza di parlare dell’aborto] in relazione alla legge, a ciò che il vecchio capitale esprime nella proibizione di questo intervento sul corpo della donna, che permette di far crescere nell’illegalità i traffici che vanno dai meno redditizi (alcune ostetriche ecc) ai più redditizi (cliniche di lusso). Distinguiamo da questi interessi quelli di un capitale più avanzato che preme per la pianificazione dei problemi inerenti alla crescita demografica e che quindi vuole l’aborto libero in condizioni igienico-sanitarie accettabili. (…) In tutti e due i casi l’atteggiamento è sempre univoco, astratto: dalla negazione di questo atto si passa alla proposta di “renderlo legale” senza andare alla radice dei motivi che avevano prodotto questo divieto, trasgredito peraltro continuamente (…)D’accordo sulla depenalizzazione dell’aborto in condizioni igienico-sanitarie buone, controllato da noi donne (..) Ma non ci basta. L’aborto non è la soluzione”.

 

3) Nell’analisi, nell’autocoscienza, emerge in forma molto forte la frigidità come sintomo di una sessualità che resiste all’asservimento. Cosa dice il sintomo della frigidità? Che cosa permette di mettere in luce? Attraverso la pratica dell’autocoscienza e dell’inconscio, i collettivi femministi cercano una via politica che permetta di far fronte ai nodi che via via emergono senza “delegare” alla legge un’improbabile soluzione. Viene messo al centro il rapporto con la madre, luogo dell’origine e contemporaneamente di una censura che non ha permesso la libera significazione del corpo e del desiderio sessuale femminile.


Collettivo cherubini (Sottosopra 1975):”C’è secondo me una mancata scoperta, perché non poteva avvenire autonomamente, liberamente, in un rapporto libidico con la madre (…) la madre è l’altra donna che doveva aiutare, quindi a investire in senso sessuale, in senso fantastico, positivo, il proprio corpo; mancando questa cosa, c’è una proposta di tipo coloniale e cioè ti dicono “guarda noi come ti desideriamo, vedi il nostro desiderio e riconosci lì che sei sessuata””.
Sottosopra 1975 (p.10): “La madre che ci è mancata (…) la nostra sessualità, legata alla percezione del nostro corpo, è censurata, muta; non esprime un desiderio autonomo nei confronti dell’uomo, ma rimane in attesa della chiamata dell’uomo al suo desiderio”.

 

Sottosopra 1975 (p.13): “Si parlava di questo rapporto con la madre, che è il primo rapporto che abbiamo avuto tutti, con la differenza che gli uomini l’hanno avuto con una donna, e noi invece … anche. (…) Ho l’idea di trovare proprio lì qualche cosa che ci dia un’indicazione diversa, nuova, che ci individui davvero come donne. (…) Da donna a donna si può forse ricostruire qualcosa di perso e che non ha mai avuto modo di crescere e di diventare reale. Tra noi potremmo ritrovarci madri l’un l’altra e ricominciare da lì, dalla percezione di un corpo uguale e potremmo al fine trasmetterci qualcosa di diverso che non questa censura del nostro desiderio, o questo rifarsi al desiderio dell’uomo che ci chiama a soddisfarlo”.

 

Torniamo alla legge, che sancisce in parte il principio dell’autodeterminazione femminile, per quanto, come dicevamo, sia un compromesso.
Contro questa legge vennero avviate tre raccolte di firme per indire altrettanti referendum: una da parte dei Radicali (che ne chiedevano una modifica in senso più ampio), e due da parte del Movimento per la Vita (una per un’abrogazione “minimale”, una per l’abrogazione totale). Quest’ultimo verrà poi dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale.
Il 17/18 maggio 1981 il voto: la proposta cattolica venne bocciata a schiacciante maggioranza (68%), quella radicale anche (88%).

 

Tuttavia gli attacchi (in senso restrittivo) alla legge, o meglio, i tentativi di una sua correzione non sono mancati dopo il referendum abrogativo, anche da parte di uomini del centrosinistra.
Mi chiedo: qual è il fine di questi attacchi? Di fatto, dopo la perdita secca del referendum abrogativo del Movimento per la vita la posta in gioco della politica istituzionale non ha più potuto essere il ritorno nell’illegalità dell’aborto. Infatti questa legge è considerata una legge forte, su una materia delicata e difficile da legiferare. Non mi pare che sia tanto la legge la cosa da difendere, ma sicuramente c’è da portare avanti una battaglia culturale perché non passino alcune idee sulle donne, sul piacere, sulla vita, sulla morte, il fatto che l’aborto sia qualcosa di immorale ecc…. perché altrimenti si forma un BLOCCO IDEOLOGICO, con personaggi anche molto distanti come Ferrara e Ruini, che però per esempio sull’aborto sono alleati. Certamente poi c’è il calcolo politico, che è di ottenere i favori della chiesa cattolica (irriducibilmente contraria alla pratica abortiva).

 

Andando a rileggere articoli che riguardano questo tema, ho notato una sorta di ripetizione: ogni volta, e anche questa volta, c’è in ballo la paura degli uomini, il tentativo di introdurre nei consultori personaggi del Movimento per la Vita che dissuadano le donne, la questione dei diritti dell’embrione.

 

Rossana Rossanda, in un articolo del manifesto del 2 giugno 1988 commenta la posizione di Giuliano Amato che pone in discussione il fondamento stesso della legge sull’aborto: la decisione autonoma della donna. La 194 ha riconosciuto che spetta alla donna la decisione per un processo che si compie in lei sola; ma ciò non significa negare la partecipazione affettiva dell’uomo in una scelta così importante. Significa solo che l’uomo non potrà più dire, come dice Amato, “non tollero che non nasca un figlio che io voglio“.
Qui emerge il tema ricorrente della paura dell’uomo, paura della perdita di controllo, paura dell’unico potere in mano alla donna – potere di dare la vita ma anche toglierla.
Annamaria Guadagni, in un articolo dell’8 marzo 1989 pubblicato sull’Unità scrive: “fuori dal corpo della donna si combatte un’altra battaglia. La guerra non dichiarata tra l’uomo che vede se stesso embrione davanti al fantasma di una madre distruttiva e non accogliente. E quella dichiarata e combattuta da millenni per il diritto patriarcale sulla prole, che ha fatto scempio del corpo delle donne, ridotto a strumento e oggetto di contrattazione“.
Lea Meandri in un recente articolo pubblicato su Liberazione (27-11-2005) dice: “Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione (…) significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno“. E propone di rimettere al centro il conflitto tra i sessi nella sessualità, propone di ricominciare a parlare di sessualità, oltre a manifestare in difesa della legge.

 

Nel 1989, in un articolo del manifesto, Grazia Zuffa (allora senatrice del PCI) evidenzia come l’allora ministro democristiano Donat-Cattin, antiabortista di ferro, nella sua relazione annuale ha di mira la trasformazione dei consultori statali in presidi di dissuasione dell’interruzione di gravidanza. Anche oggi, come noto, siamo alla riproposizione di questo punto. Stefania Giorgi sul manifesto del 22-11-2005 scrive: “La lotta inesausta della Chiesa contro le donne con a fianco vecchi/nuovi chierichetti disseminati nel centrosinistra e nel centrodestra – ringalluzziti dal vittorioso referendum sulla procreazione assistita (qui c’è un’errata valutazione politica: ai referendum è mancato il quorum, non c’è stata vittoria) – si ammassano nel ventre di questo cavallo di Troia: ripensare le modalità applicative della legge, battere il tasto di quanto non è stato fatto per la tutela della maternità. La prevenzione – affidata ai consultori e presente nella 194 – ben presto è scivolata nella dissuasione cui il testo della legge non fa alcun cenno“.

 

Un articolo dell’Unità del 4-3-1989, Emanuele Lauricella (ginecologo, si è occupato di procreazione assistita con Flamigni) parla di RU-486 dicendo che se esistono i mezzi che producono il distacco dell’uovo nelle primissime fasi non vede perché non debbano essere usati. E sottolinea come vi sia una mistificazione del termine “embrione“, che non deve essere usato per tutto lo sviluppo, dall’uovo fecondato alla nascita del bambino. È necessario usare “termini differenziati, che tra l’altro collimano con la grande tradizione teologica, filosofica, anche della patristica cristiana“. Il termine “zigote” indica l’ovulo fecondato, che ancora non ha iniziato la moltiplicazione cellulare. “Embrione” è il termine che indica che le cellule si sono differenziate in tessuti. Sente l’esigenza di “assicurare il legislatore che l’ammasso di cellule finché è divisibile meccanicamente per dar luogo a due individui differenti non è un individuo umano. Quando si sviluppano i tessuti allora questo organismo diventa indivisibile. E quando l’individuo ha possibilità di vita autonoma? Anche questo lo possiamo dire: verso la fine del 6 mese“.
Questo in parte si incrocia con la controversa questione della legge 40, la cui esistenza è in contraddizione con la 194. Addirittura Gianfranco Fini, in un’intervista del 6 giugno 2005 afferma: “Ma il provvedimento approvato (legge 40 n.d.r.), a mio avviso molto restrittivo, pone un problema di coerenza legislativa con altre leggi dello Stato. A partire dalla legge che regola l’aborto. Il comitato che si oppone al referendum ha coniato lo slogan “sulla vita non si vota”. Rispetto questa posizione, però mi chiedo: il principio della sacralità della vita è tutelato integralmente nella nostra legislazione? Come far finta di nulla dinnanzi alla legge 194 e alla possibilità di interrompere la gravidanza in certi casi? Ecco la contraddizione insanabile: se l’embrione è vita, non lo è ancor di più il feto?”.
E Stefano Rodotà, in un bellissimo articolo di Repubblica del 21 novembre 2005 intitolato “Se l’embrione è più importante di una donna” scrive: “Tutto per l’embrione, purché nasca. Nulla a chi è già nato, ai bambini adottabili, che possono rimanere privi della possibilità di inserimento in un nucleo familiare anche quando vi sia la richiesta di adozione da parte di una persona sola“.
Certamente le questioni sono delicate, i piani molteplici, ma a me pare che il criterio in base a cui regolarsi sia che la vita umana passa necessariamente attraverso l’accettazione di una donna che la accoglie, la coltiva per consegnarla al resto dell’umanità. È la posizione che Luisa Muraro ha espresso in un articolo per il sito, “Sulla vita umana”, e che ha ribadito in un recentissimo pezzo, sempre per il sito, in cui afferma la necessità che “il diritto inscriva il principio della libertà femminile all’inizio della vita umana“.

 

Sul cosa fare e come procedere il movimento delle donne non ha mai avuto – per fortuna a mio avviso – una compattezza e una risposta univoca. Accanto a una risposta di tipo “movimentista”, che pure ritengo importante, si è sempre affiancata la necessità di parlare, approfondire, discutere, fare ricerca. E queste esigenze, accompagnano anche la storia della 194.
In un articolo del maggio 1989 pubblicato su Noi Donne, Roberta Tatafiore e Silvia Tozzi si interrogano: Ma la legge ci piace? Interrogano cioè la risposta di piazza a sostegno di una legge che presenta molte ombre. E riportano le parole di Silvia Vegetti Finzi: “Bisognerebbe davvero creare occasioni di incontro tra noi dove mettere insieme parti della nostra identità senza fughe e senza deleghe. Non per rimettersi a fare figli per obblighi sociali. Per accettarci, col nostro istinto di procreazione, quello che a volte ci fa incorrere nello “scacco” dell’aborto, e però anche col nostro bisogno di scelta“.
Alessandra Bocchetti, in occasione della grande manifestazione del giugno 1995 diceva: “Noi del Virginia Woolf/B pensavamo di fare una convention, ma da altri gruppi è venuta una forte spinta per il corteo. Riteniamo che il corteo significhi più che altro rabbia; è una forma significante rivendicazione, protesta. A mio avviso il salto che si deve fare è di non mostrare la rabbia, ma far agire la forza, la fermezza, la determinazione che abbiamo. Il corteo quindi non ci sembrava una forma adatta ad esprimere questa forza reale. In seguito abbiamo pensato a questa soluzione della convention all’aperto dove la forma corteo potesse confluire, unirsi. Questo mi sembra un modo per stare insieme rispettando i due sensi“.

 

Ora mi chiedo: oggi cosa fare? La macchina organizzativa della manifestazione del 14 gennaio è in moto, benissimo, sarà un successo anche per la forza e l’impegno che molte ci stanno mettendo. Tuttavia ritengo che il campo in cui spendere le energie più preziose non sia quello disegnato dalla reazione, anche se dalla reazione all’ingiustizia possiamo trarre la forza per tratteggiare la contraddizione più stridente, quella che è necessario far scoppiare perché vi siano reali modificazioni. In causa, qui, ci sono gli uomini. Non certamente come i “soli responsabili” del “problema aborto” in quanto portatori di una sessualità che riproduce il dominio sessista. Gli uomini e la nostra relazione con loro. Che non deve rimanere (per chi ce l’ha) nel privato, ma deve essere analizzata politicamente (quindi anche insieme alle donne che non hanno una relazione affettiva con l’uomo) per disegnare un nuovo spazio pubblico, politico.
Non si tratta qui di correggere la legge per introdurre l’assenso dell’uomo (che si dichiara il padre). Non voglio mettere sotto tiro il fatto che sia la donna sola a decidere se sì o no alla vita che porta dentro. Si tratta piuttosto di capire se l’altro, che è un uomo, in una relazione di scambio, mi è necessario per un lavoro politico che parta dalla vita, dai problemi, dagli scacchi, da quello che per lui è una frustrazione che si trasforma spesso in attacco (intendo: il non poter decidere, perché è la donna che ha l’ultima parola sul suo corpo) per creare nuovo pensiero, una nuova civiltà, che forse, un giorno, il diritto potrà registrare. Insomma, per non restare sempre in una posizione di “retroguardia”, che si limita a difendere i diritti già ottenuti, ma che non si pone come posta in gioco un cambiamento nel sentire comune, e lascia all’avversario, alla mentalità conservatrice e di destra, il monopolio dei valori.
È per questo che bisogna coinvolgerli, perché si crei nuova cultura, un senso comune, condiviso. Abbiamo visto che invece da parte degli uomini si è sempre sentita paura, variamente espressa, oppure si sente un’accettazione intellettuale, di chi ha presente l’istanza democratica, ma poi esce questa paura, la paura della sproporzione.
Gli uomini di oggi sono cambiati, perché le donne sono cambiate con il femminismo. Non si tratta più – a mio avviso – di separare, di dividere, mossa importantissima del primo femminismo per una presa di coscienza radicale, quanto di guadagnare cambiamenti, saper vedere i punti di scacco, in una relazione politica con gli uomini (politica nel suo senso più largo, che comprende la vita di tutti e ciascuno).
Se l’altro mi è necessario, allora devo lottare per trovare lo spazio di praticabilità di questa relazione, perché questo spazio ancora non c’è: non può essere quello della manifestazione, non è quello della politica istituzionale (possiamo vederlo anche nello scambio tra Lea Meandri e Bertinotti su Liberazione di Ottobre).
Alcuni uomini iniziano a interrogarsi – faticosamente – a partire dalla propria esperienza. L’abbiamo visto, per esempio, su Liberazione, dove Angela Azzaro ha chiesto il contributo ad alcuni a partire dalla domanda “maschi, perché uccidete le donne?”. C’è stato anche un convegno a Parma nel giugno di quest’anno, intitolato “Per amore della differenza. Percorsi di uomini e di donne per un altro rapporto tra i sessi”…
Ripartiamo a parlare di sessualità con gli uomini, e con le donne in età feconda, con quelle che ricorrono all’aborto, quelle che ne fanno a meno, in uno spazio di ascolto che è da inventare.

 

Alcuni numeri dell’aborto
Come nota finale, indispensabile secondo me per la discussione oggi, è necessario fornire alcuni dati, prodotti dallo stesso ministero della salute. Infatti, al fine di sorvegliare l’andamento del fenomeno, la legge prescrive che il Ministro della salute presenti una relazione annuale sull’applicazione della legge stessa. A ottobre 2005 è stato reso noto il rapporto che raccoglie i dati definitivi per il 2003 e quelli generali del 2004.
Nel 2004 gli interventi sono stati 136.715, il 2,6% in più rispetto ai 132.178 interventi del 2003. Tuttavia bisogna sottolineare che il decremento dal 1982 (anno in cui, con oltre 234 mila casi, si è registrato il picco più alto) è del 41,8%.
In particolare, il contributo maggiore all’aumento della tendenza è stato dato dalle regioni del centro (+6%) e del nord (+4,8%), mentre nel sud e nelle isole è stato registrato un leggero calo (-0,1%).
La valutazione della tendenza si basa sul tasso di abortività, ossia il numero di IVG per 1000 donne in età feconda (15-49 anni). Il tasso di abortività è passato dal 9,6 per 1000 del 2003, al 9,9 per 1000 del 2004.
Dal 1983 al 2003, i tassi di abortività sono diminuiti in tutti i gruppi di età, con riduzioni meno marcate per le donne con meno di 20 anni (-12,5%), inoltre, dal 1995, è stato osservato un leggero aumento per le classi di età 20-24 e 25-29 anni.
La distribuzione per titolo di studio segue un andamento già rilevato negli anni precedenti con prevalenza di donne in possesso di licenza media inferiore (46,4%) e superiore (40,4%).
Per quanto riguarda lo stato occupazionale si è evidenziata una prevalenza di donne con un lavoro (48,9%), mentre il 27,1% è casalinga e il 10,1% studente.
Un dato rilevante è quello relativo alle donne straniere, che hanno praticato l’aborto in Italia, e che sono passate da quasi 9 mila nel 1995, anno in cui si è iniziato sistematicamente a rilevare l’informazione sulla cittadinanza, a 29 mila nel 2002, con un aumento complessivo del 226,3%, per arrivare a circa 32 mila del 2003. Nel 2003 gli interventi di interruzione delle donne straniere hanno rappresentato il 25,9% del totale delle IVG, mentre, per esempio, nel 1998 tale percentuale era del 10,1%.
(fonte http://www.ministerosalute.it/)

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