22 Maggio 2008
L' Osservatore Romano

Intervento di Lucetta Scaraffia

In questi giorni la legge 194, che regola l’interruzione di gravidanza in Italia, compie trent’anni, fra polemiche che ricordano, per molti versi, quelle che hanno preceduto e seguito la sua approvazione. Con questa legge, l’Italia si è allineata agli altri paesi occidentali che, a cominciare dalla Gran Bretagna nel 1967 (Stati Uniti nel 1970, Germania 1974, Francia 1975) avevano legalizzato l’interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni. Si chiudeva così un ciclo legislativo aperto dalla Rivoluzione francese, che aveva introdotto nella legislazione francese prima, dei paesi occupati poi, una severa legge per punire l’aborto in base ad una concezione molto larga dei diritti del cittadino: anche il feto veniva considerato un cittadino. Ma questo atteggiamento anti-abortista non era certo motivato da ragioni umanitarie, o dal rispetto della dignità del concepito: la ragione di fondo era la nascita del nuovo stato nazionale, dove le tasse venivano pagate individualmente, e non più per nucleo familiare, e dove gli eserciti erano formati dalla coscrizione obbligatoria. Questi interessi, ribaditi dopo la grande strage della prima guerra mondiale, che aveva spinto molti paesi europei ad irrigidire la normativa che proibiva l’aborto, vengono meno nel secondo dopoguerra: la meccanizzazione delle forze armate, che sostituiscono i soldati con carri armati e bombardieri, e le innovazioni tecnologiche del lavoro industriale, che diminuiscono la necessità di manodopera, rendono i governi occidentali più disponibili ad accettare le richieste libertarie delle femministe. Mentre gli stati – come abbiamo visto – cambiano radicalmente la loro posizione giuridica nei confronti dell’aborto, spinti dalla trasformazione delle esigenze demografiche, la Chiesa cattolica non ha mai mutato la sua condanna verso l’interruzione della vita umana, temperata però dalla misericordia verso coloro che si pentono per l’atto compiuto.
I progressi medici realizzati in questi trent’anni, soprattutto riguardo alla possibilità di individuare malattie o malformazioni nel feto, hanno cambiato profondamente la pratica della legge, trasformando l’aborto terapeutico in una prassi di selezione eugenetica. Quindi è certo opportuno ripensare a scrivere linee guida per questa legge, e riflettere sugli effetti che ha portato nella coscienza morale del paese, come ha recentemente ricordato Benedetto XVI.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la liberalizzazione dell’aborto è strettamente legata all’instaurarsi di due nefasti sistemi totalitari come quello sovietico prima, e quello nazista poi, e che quindi, come ha scritto Romano Guardini, questa evidenza storica fa ricordare come “ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario”. Per il filosofo la questione dell’aborto è centrale per ogni società, la qualifica, perché “riguarda l’intero rapporto del singolo con la società, investendo il carattere fondamentale dell’esistenza umana”. E conclude contrapponendo la moderna “concezione dell’uomo quale unico responsabile e padrone della propria esistenza” con “il senso prima vivissimo della fondamentale intangibilità della vita umana”.

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