24 Marzo 2006

Intervista a Odile Sankarà da Vita n°11 anno 13

 


Emanuela Citterio

 

Conclude l’intervista con un: “Grazie per esservi interessati alla mia piccola persona”. Odile Sankarà di piccolo ha solo di essere la petite soeur di uno dei più grandi leader che l’Africa abbia mai avuto: Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dall’ 83 al ’87, tragicamente ucciso dopo essere stato protagonista di una rivoluzione pacifica che tentava una via africana di sviluppo che non ricalcasse quella occidentale.
Anche il destino del cinema africano – soprattutto con il Fespaco, il festival panafricano del cinema che si svolge ogni due anni nella capitale del Burkina – è legato al nome e all’eredità culturale di Sankara. È stato lui a dare impulso al festival che ha trasformato Ouagadougou nella sede della più grande e interessante manifestazione culturale di tutta l’Africa, a cui accorrono critici e gente di cinema anche dall’Europa e dall’America.
Odile non fa politica. Attrice di teatro e di cinema, ha fatto della cultura la leva per lavorare per il suo Paese, per l’Africa e per una nuova relazione con l’Europa. Insieme alla Compagnie de Seeren (“fioritura”) organizza tourné nel suo Paese in cui tocca tematiche legate ai diritti delle donne, e a creato un’associazione, Talent des femmes, per far emergere il talento femminile, artistico e non, spesso nell’ombra e con scarse possibilità di crescita.
Odile, ha fatto scalpore la sua prefazione al libro della giornalista francese Anne Cecile Robert “L’Africa in soccorso dell’occidente” (in Italia edizioni Emi). Lei rovescia completamente la prospettiva, sostenendo che l’Africa non deve rinunciare al contributo vitale che può dare all’Europa…
La ricchezza culturale dell’Africa risiede nella forza della parola, e ciò significa apertura, condivisione di valori e relazione con l’altro. L’occidente rischia invece di implodere nell’autismo. Sono i valori culturali il grande contributo che l’Africa può dare in questo momento di globalizzazione. Ma è questo il punto: l’occidente è in grado di condividere i simboli, le tradizioni, i miti, le leggende che fanno parte dell’Africa? È grado di accogliere questo bagaglio? L’Africa, volente o nolente, non ha altro da condividere. E questo non è necessariamente un limite. Oggi il Burkina Faso è uno stato che ha una sua ragion d’essere, proprio in virtù di una cultura di questo tipo, che si basa sulla condivisione dei valori e sulla priorità della relazione umana. È ciò che ci permette di rimanere aperti al resto del mondo. Questo tipo di cultura e di atteggiamento verso l’altro permette al Burkina di non implodere e di aprirsi verso l’esterno. La cultura, la tradizione, la parola sono luoghi della resistenza. E sono i luoghi che danno vita ad alcune realtà africane come il Burkina Faso. Ma l’occidente è interessato a questi valori? Ha voglia di condividerli, di accoglierli?
Il film del sudafricano Gavin Hood, “Il suo nome è Tsotsi” ha appena regalato all’Africa l’oscar come miglior film straniero. Ritiene che il cinema africano, che è spesso legato al racconto della realtà e a temi sociali, possa essere un veicolo di cambiamento positivo per l’Africa?
Assolutamente. Mi viene subito in mente l’esperienza di Sémbene Ousmane, senegalese romanziere autodidatta, uno dei padri fondatori del Fespaco, che ha deciso subito di adattare i suoi romanzi al grande schermo. E ha fatto questo per toccare il maggior numero possibile degli individui. In Africa tutto è concentrato nei grandi centri di potere e nelle grandi città. La maggior parte della popolazione non partecipa alle questioni fondamentali dello sviluppo. Fare questo genere di operazione, riportare come nel caso di Ousmane i temi sociali sul grande schermo permette di toccare il numero maggiore di persone e di raggiungere ogni ceto sociale. Le persone si possono identificare, si rendono conto che certi temi le riguardano personalmente.
Anche il teatro può giocare questo ruolo?
Sì, anche se in modo diverso. Il prodotto cinematografico ha capacità di muoversi e di raggiungere qualsiasi ambito della società, in questo senso è molto più incisivo. Per quanto riguarda il teatro, si dice spesso che è nato in Grecia, ma si può anche dire che il teatro è nato in Africa, parallelamente. Da tutte quelle forme di oralità, di racconto popolare in cui tutta la comunità è coinvolta. Ognuno è in grado di prendere la parola e di raccontare una storia, non solo che faccia ridere ma che tocchi la coscienza degli altri, su argomenti che riguardano la vita comunitaria. È lì che deve tornare oggi il teatro africano, deve ripartire dalle sue tradizioni culturali. Ha senso oggi allestire uno Sheakespere o un Moliere senza riadattarlo alla nostra realtà? In Africa c’è un tentativo di attualizzazione del teatro, con tematiche contemporanee.
Il presidente Sankarà ha dato grande impulso al cinema africano, attraverso il Fespaco…
Il cinema ha un potere straordinario. Non bisognerebbe limitarsi al Fespaco, ma provare a organizzare qualcosa che stia prima e dopo questo evento. In Burkina, per esempio, stiamo cercando di portare il cinema nei villaggi. Con operazioni a poco costo – uno schermo e poco più – che però consentono di portare questi prodotti così immediati e così impattanti dove non arriverebbero.
Ci riuscite?
Ci stiamo provando. Per ora si tratta di esperienze limitate a in pochi casi in luoghi ancora vicini alla capitale. Comunque qualcosa di è mosso.
Perché puntare sulla cultura?
La parola, libera e vera, è simbolo dei luoghi di libertà attorno a cui si possono riunire i popoli. Direi che la cultura è uno dei punti di incontro dell’umanità.

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