13 Dicembre 2005

Introduzione al dibattito matrimoni, pacs e libertà

Vita Cosentino

Io sono qui a spendere una moneta a favore della proposta Prodi sull’introduzione dei Pacs in Italia. Non sono una che si affida alle leggi, penso che il cambiamento vero è quello che in prima persona riusciamo a fare nelle nostre relazioni e nella nostra vita, e il senso del mio gesto sta nel fatto che la vedo come una proposta che non fa che recepire qualcosa di un cambiamento molto più grande che già c’è stato nella società a causa della libertà femminile che, come cercherò di mostrare, ha cambiato i termini stessi della questione matrimonio e famiglia. È una legge che viene dopo, come per es. è stata quella sul divorzio, a cui si può ricorrere o no, non obbliga nessuno, con una libera scelta. Do il mio appoggio continuando a basarmi sull’idea che le cose importanti sono quelle che continuiamo a far capitare nelle nostre vite prendendoci libertà e quindi ritengo che possiamo approfittare del dibattito attorno ai Pacs per cominciare a raccontarle e a dare valore alle nostre scelte, come ha fatto di recente Chiara Zamboni in un articolo sul manifesto in cui metteva in luce nuovi rapporti di amore-amicizia che già corrono nella società.

 

Credo che questo ci aiuti a toglierci dalla logica degli schieramenti, che rimpicciolisce la questione nello scontro tra laici e cattolici, tra una destra per i valori e la famiglia e una sinistra per l’ammissione di qualunque tipo di legami. È una rappresentazione della realtà falsa, basti pensare che a proporre i Pacs è un cattolico, sposatissimo, che ha appena scritto un libro con sua moglie dal titolo “Insieme” e a parlare contro, è un altro cattolico, delle alte gerarchie, il Cardinal Ruini, di cui con una felice battuta la Lettizzetto ha detto che ormai “parla anche quando dorme”. Io sono mossa anche da una preoccupazione del momento: è già successo, di recente, per la legge 40, che il campo è stato interamente occupato da politici, scienziati, alti prelati, tutti uomini schierati gli uni contro gli altri, e delle donne si è detto che sono state in silenzio. Questo non è vero alla lettera. Alcune hanno provato a parlare e avevano parecchio da dire, come Maria Luisa Boccia che studia da anni la questione, ma non c’era spazio simbolico perché si sentisse la loro voce. Per me è stata un’amara lezione e non voglio che ricapito la stessa cosa, nel dibattito sui Pacs. Perché la voce delle donne si possa sentire è necessario costruire un’altra cornice di senso facendo vedere come e in quali direzioni la libertà femminile ha cambiato i termini stessi della questione matrimonio e famiglia. E questo è il mio intento.

Le ultime indagini demografiche danno risultati abbastanza impressionanti. Il matrimonio è al minimo storico, nell’ultimo decennio il numero delle unioni di fatto è salito a 550.000 circa, il doppio dei matrimoni (rapporto ISTAT). In Europa una creatura su tre nasce in una coppia di fatto (Eurostat 2004). Due donne su tre che amano un uomo non lo sposano. Io stessa conosco parecchie giovani donne che la pensano così e ho ragionato soprattutto a partire da una mia cara amica che ormai ha le figlie grandi e fin dall’inizio non ha mai accettato di sposare l’uomo con cui vive e con questo gesto ha proposto a lui di stare in una contrattazione libera dell’amore. Su questa base azzardo un’ ipotesi: la libertà femminile, a livello sotterraneo, profondo, ha aperto una crepa proprio in quel senso comune femminile che vedeva nelle nozze il compimento dell’incontro tra i sessi. Quello che era il sogno d’amore, il finale delle fiabe, l’esito della vita di una giovane donna, come racconta nei suoi romanzi Jane Austen, il matrimonio, oggi sembra sospeso. Sembra esserci una strategia femminile complessa che non si muove più così, sceglie proprio di non arrivare alle nozze, ma non per questo rinuncia alla posta in gioco dell’amore. Anzi. Questo è un fenomeno veramente nuovo. Possiamo vedere la libera contrattazione dell’amore come un bene portato dalla libertà femminile e significato dalla scelta del non matrimonio.
Va in questa stessa direzione la testimonianza risentita di Marina Mastroluca che risponde al cardinal Ruini sulle “coppie di fatto” da lui ritenute un modo di vivere che mina la convivenza sociale. (Unità, 21-9-05), Sostiene la sua scelta mettendosi dalla parte di un amore che non vuole essere sancito per legge, spento in obbligo, in ruoli, in status sociale, ma vuole vivere di vita sua in uno scegliersi ogni giorno. la Mastroluca parla di quella che chiama la “sua famiglia”: una convivenza di 16 anni con la stessa persona e due figli che stanno crescendo insieme. Dice: “Non ci siamo sposati senza avere un motivo particolare, se non la voglia di rinnovare ogni giorno l’impegno a stare insieme, in un certo senso -potrei dire- ci siamo sposati ogni giorno senza scriverlo da nessuna parte”.
La Mastroluca, chiamando la sua convivenza “famiglia”, solleva poi un problema non da poco: o accettiamo che “la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”, come dice la Costituzione, e allora dobbiamo anche accettare che la famiglia è in profonda decadenza e forse si avvia all’estinzione; oppure è necessario orientarsi diversamente e prendere in considerazione una “famiglia” non fondata sul matrimonio, come lei intende.

La parola famiglia è ben più sottoposta a scossoni dalla libertà femminile. Irigaray intervenendo nel dibattito sui Pacs ha posto l’accento sulla fine della famiglia patriarcale, (La Repubblica,16/9/05), affermando che per quanto se ne possa avere nostalgia e tentare di ripristinarla, quella Storia lì è finita. Poi ricordando l’origine della parola famiglia da famulus, servo, ha fatto un’apertura a un possibile nuovo sviluppo riferito all’entrata nelle nostre case di donne e uomini stranieri come un luogo di relazioni interculturali. Esattamente dice: “Nei nostri tempi la famiglia potrebbe diventare un luogo di apprendimento della convivenza multiculturale”. Io penso che la parola famiglia sia oggi una parola “vacante”. In attesa di nuovi significati. E che si stia aprendo per nominare aspetti nuovi della vita relazionale di oggi. Nello stesso senso proposto da Irigaray va l’esperienza di una mia amica sposata, che, uscite di casa le figlie, ospita gratis un giovane straniero per permettergli di frequentare l’università. E lo chiama “nipote”. Ora di “nipoti” ne ha tre, un maschio e due femmine, che segue negli studi. Sarebbe interessante vedere che cosa sta capitando a questa parola in altre esperienze femminili qui dentro. Che cosa sta capitando anche per negazione, per donne che di famiglia non ne vogliono più sentir parlare, capire quali altri modi di vivere si sono inventate.

Sono favorevole ai Pacs perché in qualche modo recepiscono – nei limiti di quello che può fare una legge – la libertà che già donne e uomini comuni si sono presi e, se non c’è più il matrimonio come unico modello sociale, si può creare nella società una dinamica viva tra le scelte di vita che ciascuna, ciascuno intende portare avanti, eterosessuale o omosessuale che sia. E questo a mio modo di vedere farà bene allo stesso matrimonio, che viene restituito a una scelta libera e dunque di valore. Mentre oggi oscilla: c’è chi sceglie il matrimonio religioso perché ci crede davvero, ma spesso è ridotto a una faccenda burocratica per avere punteggi o pensioni reversibili; oppure a un rito sociale privo di sacralità in cui – lo notava Don Milani ormai parecchi anni fa – le classi povere inseguono quelle ricche e si indebitano pur di esibire un uguale sfarzo. Un contesto sociale che offre più possibilità, chiama a dare senso alla propria scelta.

Non c’è propriamente una battaglia da fare per i Pacs, in quanto c’è già una proposta in tal senso (casomai il problema si sposta e diventa a chi dare il voto). In realtà non ci sarebbe neppure una battaglia da fare contro, in quanto è un fatto che quel tipo di famiglia tradizionale che tanto evoca il Cardinal Ruini ormai non esiste più e invece sempre più esistono situazioni nuove che vogliono essere guardate con attenzione.

 

Io da ragazza sono scappata di casa, ho vissuto nelle comuni, insomma appartengo a quella generazione che ha potuto sperimentare di persona, prima nel 68 poi nel movimento delle donne, quanto può essere trasformativo dell’intera società ciò che liberamente scegliamo in prima persona assieme ad altre e altri. So che oggi è più difficile percepire questa possibilità, ma c’è. Ci si può fare forti di un simbolico di libertà femminile che circola e si esprime nel gesto anonimo di moltissime giovani donne che semplicemente dicono: “no, io non mi sposo”. La legge viene dopo. Può risolvere forse problemi pratici, ma io non affiderei allo stato la funzione simbolica, di riconoscimento simbolico, proprio quando si è aperto uno spazio per ripensare e reinventare le forme del celebrare, del condividere con le persone care, del vivere la dimensione spirituale che è propria di ogni essere umano, che si aderisca o meno a una religione rivelata.

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