25 Settembre 2005
il manifesto

L´America riscopre i pacifisti in centomila sotto casa Bush

Vittorio Zucconi

Il granello di senape che la madre di un caduto buttò davanti al ranch di Bush in agosto, mette radici in settembre a Washington davanti alla Casa Bianca. Cresce nelle migliaia di persone venute qui a raccontare il malessere di un´America che non marcia più compatta al suono dei tamburi di guerra. Non è la presa della Bastiglia, la folla che vedo marciare e scandire “Bush lies, thousands dies”.
Bush mente e migliaia muoiono, attorno alla casa vuota del presidente. Non è ancora la sollevazione popolare che per giorni e notti assediò Lyndon Johnson e Richard Nixon. E non c´è neppure Bush, portato dalle sue baby sitter in un bunker militare del lontano Colorado per seguire l´uragano Rita a distanza di sicurezza. Ma è la prima manifestazione visibile, tangibile, televisivamente reale di quello che l´effimero dei sondaggi ci ripete da settimane, che l´America dell´autunno 2005 non è più quella del 2003 che Bush poteva mobilitare e compattare con la promessa di giustizia armata per i martiri dell´11 settembre. Quel link, quel cordone cruciale fra l´aggressione delle Due Torri e l´occupazione dell´Iraq si sta spezzando e nessun discorso davanti alle truppe riesce ormai a ricucirlo Non so dire con approssimazione realistica quanti fossero gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi e i cani, come il bellissimo golden retriever paralizzato e spinto dal padrone su una carrozzella artigianale. Forse erano 100 mila, forse di più o meno, nella solita fisarmonica di numeri che segnano tutte le manifestazioni di piazza. Ma erano certamente di più, e diversi, da quelli che gli organizzatori, i media e gli scudieri della presidenza speravano o temevano. Nel torrente di persone che escono dalla Farragut Square, la stazione del metrò di Washington più vicina alla Ellissi, il grande prato dietro la Casa Bianca, ci sono gli immancabili revenents del Vietnam. Si riconoscono le pantere grigie di tutte le proteste contro “il sistema”, i sindacalisti organizzati, i patetici trotskisti che tentano di vendere la loro letteratura d´antiquariato, i gruppi che appendono le loro cause al balcone altrui, come tre donne che chiedono “libertà per i consumatori thailandesi di droga”, un dramma che era sfuggito ai più.
Ma se anche sul palco passano i soliti noti per recitare il loro copione standard, Jesse Jackson, l´uomo per tutte le stagioni di protesta che per l´occasione invoca “manifestazioni di massa come queste anche in Italia e in Europa”, le ragin´ granmas, le nonne furiose che invocano pace per i nipotini, le madonne pellegrine di tutti i comizi anti-guerra nel mondo, la sempre più fragile, esile e piccola Joan Baez che lancia ponti di musica fra generazioni che non sembravano più ascoltarsi, lo stupore viene da quei ragazzi e da quelle ragazze che i sociologi vorrebbero indicarci come generazione dissipata e interessata soltanto alla Mtv, ai reality show e al successo. Si distinguono dai loro padri e madri per i cartelli, che sono scritti a mano, inventati, in una timida riedizione della formidabile fantasia del maggio francese.
I loro vecchi inalberano la sloganistica d´ordinanza, spesso stampata dalle lito-tipografie, “La Guerra non è la soluzione, la Guerra è il problema”, “La sola cosa bella di ogni guerra è la sua fine”, citazione da Abramo Lincoln, l´immancabile “No Blood for Oil”, un po´ fuori posto, visto che la realtà è esattamente il contrario, poco petrolio in cambio di molto sangue.
Gli studenti, dai liceali che arrivano battendo sui bidoni di plastica vuoti come orchestrine giamaicane, agli studenti delle università che devono giustificare le scellerate rette pagate dei genitori e dunque essere più creativi, sfoggiano più humour, più originalità. Soprattutto le femmine, sfacciate, che non temono totem e tabù. “Clinton era meglio. Lui se ne scopava una, Bush ci fotte tutte”. “Meglio un pompino che un missilino”. Più casto, un plotone di signore arrivate in bus dal Tennessee, un viaggio di un giorno intero, si chiede devotamente: “E Gesù chi avrebbe bombardato?”. Le “madri dal North Carolina”, certo mica tutte, chiedono di “Sostenere i nostri soldati: non mandateli a morire”. La bellissima sorella di un soldato morto esibisce una gigantografia della bara del fratello coperta dalla bandiera. “Parlate a nome della maggioranza silenziosa”, implora la scritta. “Parlate a nome dei morti”.
I padri girano con le foto dei figli morti. Jesus Suarez del Solar ha i baffi e il volto da cafè Paulista, è messicano come il figlio che portava avanti e indietro marijuana attraverso la frontiera di Tijuana. Lo arrestarono e fu liberato dai reclutatori che gli diedero un permesso di soggiorno e la promessa di un posto nella polizia di frontiera. Morì a Falluja, con l´uniforme dei Marines.
Non so dire se questo sia l´inizio della fine per l´unanimismo patriottico che Bush aveva saputo cavalcare per portare l´America in un´invasione che ormai quasi il 60% della gente trova ingiustificata e sbagliata. Non lo sa dire neppure il seme di senape al centro del campo, la donna alta, scialba, loquace, manipolata, maldiretta, troppo chiacchierona, dalla quale tutto questo è nato: Cindy Sheehan che parla senza sosta, con la loquacità nevrotica dei funerali. È vestita con i pantaloni di cotone bianchi a mezzo polpaccio e con la immancabile maglietta gialla, che in America è il colore del rimpianto, della nostalgia, del ritorno. E della senape.
Le chiedo se si renda conto che sarà attaccata, svillaneggiata, insultata dai crociati della nuova ortodossia bellicista che la raccontano come una povera marionetta tirata da radicali estremisti, e lei fa un gesto silenzioso, indicando la folla attorno: “Fin qui siamo arrivati, no?”. Appunto, dalla California, dove era nato suo figlio Casey ucciso in Iraq, dal Texas, dove si era accampata per 26 giorni davanti al ranch di Bush, circondata da più telecamere che supporters, è arrivata fino ai cancelli della Casa Bianca: dunque la controffensiva delle marionette di Bush sarà ancora più violenta.
Risponde citando Gandhi, un altro che sembra avere detto una frase per ogni occasione della storia: “Prima ci ignorano, poi ci ridicolizzano, poi ci attaccano, poi sono costretti ad ascoltarti”. Ha la faccia piena di efelidi, gli occhi eccitati. Nel coro di “Where have all our children gone?”, dove sono finiti i nostri figli? che la folla intona con sgangherata commozione per seguire Joan Baez, lei si copre gli occhi, per nascondere non lacrime, ma un sorriso. Quante madri possono dire di avere avuto 100 mila sconosciuti al funerale del proprio figlio e di averlo trasformato nella speranza, o nella illusione, che da qui sia cominciato anche il funerale di una guerra?

Print Friendly, PDF & Email