2 Novembre 2005
il manifesto

La canzone incinta di Nahawa Doumbia

Di passaggio a Roma con un gruppo di donne che annuncia il social forum africano, la «diabolica» cantante maliana racconta la sua musica, l’incontro con le idee di Aminata Traoré e i retroscena di vita che hanno generato l’ultima canzone-omaggio per Thomas Sankara
Marco Boccitto

La voce di Nahawa Doumbia arriva da dietro, come una stoffa pregiata che avanza strusciando sul pavimento. Due o tre strofe a cappella sulla dignità (pentatonica) dell’Africa. Giusto il tempo di far riprendere fiato a Aminata Traoré, la scrittrice ed ex ministra della cultura maliana, che tornerà subito dopo al suo eloquio battente sugli squilibri nord-sud, la lotta contro l’immagine distorta che i media diffondono dell’Africa, contro il totalitarismo economico del Fondo monetario, per i diritti degli esclusi e dei migranti. Entrambe fanno parte di questa «carovana della dignità» che ha girato nei giorni scorsi pezzi di Africa e di Europa, per richiamare l’attenzione in una serie di incontri ufficiali sui temi che domineranno a gennaio il Social Forum di Bamako, Mali. L’intellettuale e la cantante, ma anche la biologa, la contadina e l’artigiana, una delegazione-spaccato per esprimere le urgenze di una società come quella maliana, che proprio a partire dalle sue creazioni musicali e dai suoi ministri della cultura (oggi tocca al grande cineasta Cheick Oumar Sissoko) si segnala da tempo tra le più dinamiche del continente. E da quel tempo la voce di Nahawa Doumbia ha un retrogusto di denuncia sociale più o meno manifesta. Insieme al talento un po’ selvatico, accanto al timbro vocale acidulo e penetrante, sono stati soprattutto i testi a renderla una regina della canzone maliana moderna, antesignana delle varie Rokia Traoré che ora emergono da lì. «Le mie canzoni sono sempre incinta – racconta – e attraverso le parole partoriscono significati. Aminata Traoré le ama proprio per questo, per il modo in cui trattano certi soggetti. Un giorno mi ha detto che dovevo assolutamente diventare la voce di questa battaglia. Io sono un po’ sospettosa verso la politica e quindi verso i politici, ma lei mi ha convinta rassicurandomi sulle finalità sociali di questa lotta. Però per cominciare mi ha affidato a sua figlia, che è una specie di stilista, affinché curasse la mia immagine pubblica».

 

Per fortuna ci sono andati leggeri. Nahawa Doumbia infatti non è diventata un’intellettuale né una diva. Se deve dire qualcosa, in genere canta. Lei che prima di Oumou Sangare e delle cosiddette «dive del Wassolou», era l’unica in Mali a provocare deliberatamente il corto circuito tra leggi tradizionali e indole femminista, tra islam, animismo e laicità. Vent’anni fa per esempio impazzava con Djina Mousso (letteralmente «donna diabolica»), manifesto di grinta e spregiudicatezza. «L’intero disco da cui veniva quel brano (Didadi, ndr) era molto forte – ricorda la cantante -, trattava temi sociali ma soprattutto ammiccava a una certa religiosità popolare e pagana, i sacrifici per i djinn, l’arte della divinazione e cose simili». Qui comincia a mimare le diverse posture in cui può morire un gallo dopo che gli hai tagliato la gola, spiegando nel dettaglio i corrispettivi significati. «Anche la scelta degli arrangiamenti elettronici così vistosi – aggiunge – doveva sostenere questa sorta di provocazione».

 

Erano i tempi in cui sul Mali regnava Moussa Traoré, un militare filo-cinese e anti-francese salito al potere con il solito colpo di stato. Lo hanno liquidato in seguito come un tiranno ottuso, ma Nahawa Doumbia – dimostrando subito quanto fosse sincera la sua dichiarazione di mlontananza dalla logica della politica – non è mica d’accordo. «Con me è stato sempre molto gentile. Solo una volta ebbe a rimproverarmi, dopo aver ascoltato un mio brano. La canzone diceva: «Se dio ti fa nascere cavallo ma tu non sei capace di gestire bene questa nobiltà finché sei in vita, stai pur sicuro che morirai da caprone». E lui: “Non ti sembra di essere un po’ troppo piccola per cantare questo genere di cose?”. Lo hanno accusato di avere incarcerato, torturato, ucciso i suoi oppositori, ma a me non risulta». Poche ore prima era Aminata Traoré che nell’incontro pubblico romano della delegazione faceva notare come anche il primo presidente del Mali indipendente, Modibo Keita, considerato tutto sommato un buon padre della patria, se non un eroe, secondo i parametri occidentali oggi sarebbe bollato come dittatore.

 

E chissà, magari anche Thomas Sankara rischierebbe qualcosina. Nel suo recente disco, Diby, Nahawa Doumbia trova non solo un equilibrio plausibile e suadente tra antico e moderno, ma anche lo spunto per la sortita anti-revisionista di Thomas Sankara, un brano in cui torna a ricordare il capitano dell’utopia vissuta negli anni `80 dal Burkina Faso, a due passi da casa. «Sankara era davvero un buon amico, oltre che un grande fan. Nelle mie canzoni sembrava trovare un prezioso alleato per le sue politiche. In più di un’occasione mi invitò personalmente a cantare in Burkina. La prima volta c’era molta tensione tra i nostri due paesi, ma dopo il concerto dichiarò che avrebbe revocato la sera stessa lo stato d’allerta alle frontiere. A chi gliene chiedeva il motivo spiegava: “Ha già detto tutto Nahawa Doumbia”. Tra i nostri popoli c’erano stati troppi matrimoni misti, sapeva bene che l’unica soluzione era la pace».

 

Nella nuova canzone dedicata al presidente del «paese degli uomini liberi», la cantante dice tra l’altro che «una pecora può sedere sulla pelle del leone solo quando quest’ultimo è morto». È forse un affondo a Blaise Compaoré, assassino di Sankara e attuale leader del paese? Macché. «Sono stata invitata anche da lui e sono andata – confessa senza imbarazzo la cantante -, ma la gente mi ha fatto notare che dal volto traspariva tutta la differenza del mio stato d’animo». Così la mmoria torna dove la porta il cuore. «Il 4 agosto 1986 – rievoca – Sankara voleva celebrare il giorno dell’indipendenza con un grande concerto di vedette africane, con Miriam Makeba ospite d’onore e tutto il resto. All’epoca io lavoravo ancora come infermiera e non riuscivo a ottenere il permesso dall’ospedale, inoltre ero appena rimasta incinta e non stavo affatto bene. Lui niente, fece intervenire il presidente: fu Traoré in persona a ordinarmi di andare. Cantai Baroo, nel quale esorto Sankara a diventare “una terra su cui i suoi connazionali possano camminare a testa alta”. Da lì partii subito per un tour regionale, ma a Ouahigouya, la città santa del Burkina Faso, ho avuto un’emorragia e sono finita in ospedale. La gente al concerto non voleva credere che stavo male, sospettevano ci fosse qualche strana manovra politica sotto. Insomma, stavano facendo venire giù il teatro, così fu permesso a una delegazione di andare in ospedale per accertare la verità. Alla fine niente concerto, ma quel che è peggio è che ho perso il bambino».

 

L’orgoglio di mamma oggi è qui, è l’artista più giovane aggregata alla delegazione e si chiama Dousso Bagayoko. Nahawa Doumbia l’ha avuta dal musicista maliano Ngou Bagayoko, con il quale continua a lavorare anche dopo il divorzio («di fronte al nostro rapporto – dice maliziosa – anche i bianchi si tolgono il cappello»). Pare che questa unica figlia prometta bene come djina mousso del futuro. «Giuro che non le ho insegnato nulla – dice Nahawa Doumbia -. Posso dire che era molto brava a scuola e che alla maturità qualcuno le ha persino detto “stai attenta alla tua vita, sei troppo intelligente per cantare”. Il fatto è che a dieci anni ha vinto un premio, perché era bravissima a imitare i cantanti famosi. Poi i miei musicisti l’hanno invitata sul palco, durante la pausa di un concerto, e il pubblico è impazzito. Che devo dire? Ha già fatto due dischi e attualmente in Mali è seconda in classifica».

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