25 Febbraio 2003
il manifesto

La coscienza di Toni Smith

Trenta anni dopo Muhammad Alì e i pugni chiusi di Città del Messico, una sconosciuta cestista americana volta le spalle alla bandiera a stelle e strisce perché contraria alla guerra in Iraq. I militari e i tifosi la prendono di mira, la sua università la difende a spada tratta
Peter Parker

Il primo a dire no, quaggiù, fu il grande Muhammad Alì. Che al momento di giurare nell’ufficio reclute di Houston, primavera del `67, rimase fermo al suo posto e anzichè fare un passo avanti recitò una poesia: «Chiedetemelo pure insistentemente/ sulla guerra in Vietnam io canto questa canzone/ Non ho proprio nulla contro i vietcong». Fu condannato per renitenza alla leva, finì in carcere e perse la corona dei massimi. La sentenza fu poi annullata dalla Corte Suprema, ma due anni e mezzo di carriera andarono in fumo. Un anno più tardi, toccò a Tommie Smith e John Carlos, i pugni chiusi delle Black Panthers, ai giochi di Città del Messico, ottobre `68: la guerra non c’entrava, c’entravano le discriminazioni razziali, il Klan, i ghetti in fiamme. Sul podio, al momento dell’inno americano, i due velocisti si presentarono senza scarpe, con guanti e calzini neri: sulle note di The Star-Spangled Banner, alzarono il pugno e abbassarono la testa. Furono espulsi dalla squadra, cacciati e banditi per sempre. Nel `91 fu la volta di un cestista italiano, Marco Lokar, che si rifiutò di cucire sulla maglia dell’università di Seton Hall la bandiera a stelle e strisce in supporto ai militari americani impegnati nella guerra del Golfo. Fu fischiato da tutto il Madison Square Garden, minacciato di morte e costretto a tornare a casa. 7 anni fa, infine, ci provò il piccolo Mahmoud Abdul-Rauf, guardia «convertita» dei Denver Nuggets. Sulle note dell’inno nazionale, pensò bene di restar seduto in panchina perché per lui l’Islam era «l’unica via» e quella canzoncina nazionalista cantata da tifosi e colleghi proprio non gli garbava. Fu sospeso a tempo indeterminato. Poi si ravvide e tornò in piedi. A giocare. Cominciò Alì, finì Abdul-Rauf. Tutta gente più o meno famosa. Tutta gente che utilizzò i riflettori della ribalta sportiva per gettare un po’ di luce su quello che non andava fuori dal campo.

 

7 anni dopo, ecco Toni Smith. Una ragazzina newyorchese dell’Upper West Side, 21 anni, laureanda in sociologia al Manhattanville College, sobborghi nord della «grande mela». Guardia ma all’occorrenza anche ala della locale squadra universitaria, le Valiants, III divisione del campionato Ncaa. Una formidabile catturatrice di rimbalzi (8,2 di media a partita quest’anno), anche se il suo futuro è altrove, lontano dai canestri. Tre mesi fa, all’inizio della stagione, comunica all’allenatore Shawn Lincoln la sua personale e silenziosa «diserzione»: «Quest’anno, quando suonano l’inno, io volto le spalle alla bandiera americana. Perché il nostro sistema se ne frega delle ingiustizie e dei poveri. L’assurda guerra che stiamo per cominciare, lo dimostra». A Manhattanville non fanno una piega. Il First Amendment (la libertà di opinione) garantisce per lei. Di più, il preside della scuola, Richard A. Berman, rilascia una dichiarazione scritta: «Da noi, l’obiettivo è educare e crescere sul piano etico e sociale dei leader responsabili per la comunità globale. Ogni opinione è degna di rispetto e dignità. Non importa se siamo o meno d’accordo con la signorina Smith, quel che conta è il suo diritto di espressione. Noi siamo con lei». Non se li fila nessuno, perché è un piccolo college di «belle arti» (1400 anime) che non fa notizia, nè a livello accademico né a livello sportivo. Nella squadra, qualcuna storce il naso, ma l’allenatore avverte: «Tutte unite, ciascuna con le proprie idee. Giocate a basket, please…»

 

All’inizio di febbraio però, durante una doppia sfida vittoriosa con St. Joseph, tre avversarie con parenti nell’esercito si accorgono di quella di Manhattanville che anziché cantare, dà le spalle alla bandiera che ha resistito all’11 settembre e guarda per terra. A fine gara, una di loro le urla: «Hai una bella faccia tosta, stronza!». La voce circola e una settimana dopo a Kings Point, contro quelle di Merchant Marine Academy, c’è un palazzetto pieno di cadetti che sventolano bandiere Usa e fischiano ogni volta che Smith tocca il pallone. Manhattanville vince lo stesso. Dieci giorni e a Newburgh, contro Mount St. Mary, la stessa scena (senza i cadetti): quando lei per falli si accomoda in panchina, il pubblico comincia a chiamarla: «Vogliamo Toni Smith». E alla fine la saluta con God Bless America. Lei allora, che non ha mai parlato e adora Lauren Hill, scrive una lettera: «La priorità del governo americano non è migliorare la qualità della vita di tutto il suo popolo, ma espandere il proprio potere. Dunque, per buona coscienza, non saluto la bandiera. Il patriottismo ha tante facce, ma anche chi mi critica sa che la bandiera americana rappresenta l’individualità e la libertà. Dunque, ogni vero patriota deve rispettare il mio diritto a essere diversa». Passano tre giorni e il vero patriota Jerry Kiley, un veterano del Vietnam, entra in campo durante la partita con Stevens Tech e le piazza davanti il drappo a stelle e strisce. «Hai disonorato te stessa e la bandiera». Prontamente, viene portato via dalla polizia.

 

Infine, tre giorni fa, ancora contro Kings Point, a Manhattanville arrivano i media. I suoi tifosi sono divisi: qualcuno incita, qualcuno le dà le spalle quando lei va in lunetta per i tiri liberi. Il New York Times lancia la storia. Anche perché questa volta, a fine gara, Toni Smith parla. «Non volevo farne un caso pubblico, era solo una forma di rispetto per la mia coscienza. Non ce l’ho con i veterani di guerra, so cosa significa per loro la bandiera. Ma per ognuno di noi, la bandiera ha un significato diverso». E aggiunge. «Molta gente si alza a occhi chiusi e saluta la bandiera americana, ma questo comportamento causa sofferenza a più persone. Nel nostro paese, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Le priorità americane stanno da un’altra parte». Le chiedono se non crede che la sua protesta possa aiutare Saddam Hussein. «Dubito che Saddam mi stia guardando in tv, al momento. E comunque, anche se siete venuti qui per un altro motivo, noi siamo una squadra di basket. E quest’anno andiamo forti». Per la cronaca, 17 vittorie e 9 sconfitte. Manhattanville College non era mai andato così bene.

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