21 Marzo 2004

La danza della consapevolezza – da Il Manifesto

 

In scena a Ferrara la compagnia burkinabè Salia Nï Seydou
FRANCESCA PEDRONI
FERRARA

 


È un fenomeno in crescita la danza contemporanea africana. I suoi esponenti vengono dal Senegal, dal Magadascar, dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio, dal Sudafrica. Coreografi e interpreti il cui corpo è memoria ancestrale di tradizioni che però si rinnovano nell’incontro con la scrittura coreografica occidentale e con problematiche attuali come la globalizzazione, il dialogo tra etnie, culture e religioni, il dolore, purtroppo inarrestabile, per le devastazioni della guerra. Sono gruppi portavoce di una danza combattiva, intimamente allergica all’enfasi della tecnica fine a se stessa. Non è un caso che siano stati fondati negli anni `90 concorsi come le Rencontres Chorégraphique de l’Afrique et de l’Ocean Indien, grazie ai quali esplorare questa nuova linfa creativa, né che rassegne come la Biennale di Lione, il festival di Montpellier, o in Italia, a Torino, il Festival Afro dei tenaci Katina e Bruno Genero, abbiano dedicato edizioni intere a questo tipo di danza.

 

Bene ha fatto perciò il teatro Comunale di Ferrara ad ospitare due repliche di Weeleni, l’appel, quarta creazione della Compagnia Salia Nï Seydou. Il gruppo è stato fondato nel 1995 da Salia Sanou e Seydou Boro, danzatori entrambi originari del Burkina Faso, con alle spalle alcuni anni nella compagnia francese di Mathilde Monnier. Curioso il percorso. Monnier nel `92 va in Burkina per «rinnovare» il proprio linguaggio coreografico. Sanou e Boro la seguono in Francia. Dopo tre anni fondano il loro gruppo in Burkina Faso, dove ora tentano di dare vita a un Centro Coreografico.

 

Weeleni, l’appel è uno spettacolo potente. Nasce da tre assoli, riuniti poi nella stessa creazione. È «appello» alla consapevolezza. La scena, vuota al centro e circondata da una semplice struttura di ferro con appesi grandi pannelli colorati, ospita oltre ai danzatori – Sanou, Boro e Ousséni Sako – i quattro musicisti: dal Burkina Faso Saïdou Khanzaï (chitarra), Ibrahim Boro (chitarra), Dramane Diabaté (percussioni, djembé), dal Marocco Youssef El Mejjad (tastiere e canto). Apre Sanou: il suo assolo, Gestes, è un canto sulla fatica, sul dolore antico della schiavitù, danzato con la schiena al pubblico. Un dorso dalla muscolatura parlante in ogni fibra, dolente nel graffio impulsivo di una danza che comincia a terra per poi possedere, nel lavoro, lo spazio. Waati, di Sako, è un assolo sul «tempo», sullo stare nel mondo, sulle scelte possibili e non, nel quale una danza piena di scatti e ralenti ci racconta il dialogo tra il corpo e l’avvolgente scorrere del tempo della natura. Masculin-feminin di Boro è l’incontro uomo-donna, il pianto delle madri, la sensualità, l’attesa e la preghiera. I tre danzano soli e insieme, in un momento anche con i musicisti (struggente la composizione), in una diversità nell’uguaglianza che appella alla salvaguardia dell’identità nell’incontro. Un appello «politico», capito e salutato con partecipazione dal pubblico.

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