1 Settembre 2001
Via Dogana n. 56/57

La differenza oltre la differenza. Come non cedere oggi sul proprio desiderio?

Ermina Macola e Adone Brandalise

La realtà che in parte si sta svelando e in parte si sta producendo innovativamente negli ultimi mesi configura una dimensione di mutamento radicale nelle forme d’ordine, che si estendevano dall’esistenza personale fino ai rapporti tra stati, che erano, come lo stesso femminismo denunciava, piene di silenzi indotti, di realtà posticce, di idoli, di fallicità totemiche e nello stesso tempo costituivano la trama di un’esperienza che si presentava, e per alcuni versi riusciva ad essere, ordinata e capace di senso.
Il movimento femminista che ha elaborato in maniera originale il pensiero e la sensibilità su temi che riguardano il desiderio, criticava queste forme, ma al tempo stesso vi partecipava, e trovava nella vis polemica, nella contrapposizione e nella disapprovazione, condizioni di semplificazione per potersi dire. Tutta una serie di percorsi che avevano una grande forza soggettivante, attraverso l’assunzione di un elemento critico, ma che forse dovevano ad esso la possibilità di manifestarsi (non la sostanza di ciò che in esso si manifestava) fanno più fatica a vivere questa stessa modalità come ripresa positiva del desiderio.

L’ultimo numero di “Via Dogana” porta come titolo: E gli uomini? Domanda molto opportuna che apre a più direzioni. Per cominciare potremmo dire che noi viviamo in un mondo in cui le condizioni fondamentali dell’esistenza sono segnate dall’elemento maschile che, proprio ora, rivela una sua avanzata decomposizione, se non addirittura, come si sarebbe portati a dire nel clima di questi giorni, una vera e propria catastrofe, per cui ha meno senso rivendicare l’alterità della donna rispetto ad un mondo che, senza essere diventato più aperto all’esigenza della differenza, è sempre meno maschile. In un articolo di “Repubblica” del 28/9/01, Adriano Sofri scrive: “non siamo più così virili, ci siamo effeminati, compimento (ancora parzialissimo) e svolta insieme della nostra storia culturale”.
Alla luce delle recenti trasformazioni ci pare che il femminismo, com’è stato articolato dal pensiero della differenza, sia attualmente chiamato, anche in relazione a ciò che accade nel mondo, a fare i conti con il grado di capacità che ha avuto d’interpretare il desiderio che lo esprimeva. Ci sollecita a dire questo la propensione di una certa ricerca femminista ad attraversare una riflessione teologica: (Il Dio delle donne, Le amiche di Dio…), a frequentare i testi delle mistiche e i percorsi di santità.
Chi è questo Dio delle donne? Non è certo un Dio maschile violento e patriarcale, di cui ha parlato nel convegno di Torino la pastora valdese Elisabeth Green, ma piuttosto quello di Teresa d’Avila che sostiene il suo progetto, la incoraggia e, all’ora di scrivere, le suggerisce persino i paragoni. E’un Dio attraverso il quale si può partecipare ad un ordine che non grava pesante e violento sull’emergenza umana, ma che consente invece d’intervenire attivamente nel prodursi del suo evento, un ordine che contemporaneamente attira al di là di ogni aspettativa meramente individuale, e afferma al massimo grado la singolarità e il suo tradursi in opere e in invenzione.
Nel suo caso, ma mi pare anche in quelli di cui stiamo parlando, quando si nomina Dio si nomina una potenza che si manifesta come un’ apertura (che fa tutt’uno con il nostro aprirci ad essa) a cui si accede per una via diversa dall’articolazione logica e dalla definizione. Nella vicenda femminile la via speculativa viene intuita come bloccata, non solo perché è stata da sempre prerogativa maschile, ma perché la sua pratica costringe la donna a tagliare troppo di ciò che è più suo, di ciò che costituisce il nucleo del suo essere e che è importante per lei non perdere
Come emerge nei punti alti dell’esperienza del pensiero e come la ricerca psicoanalitica lacaniana ha saputo sottolineare con singolare vigore, nel linguaggio la verità non si colloca tanto nella posizione del contenuto o dei significati, quanto nell’evento del dire, quello stesso in cui il soggetto concretamente avviene. Ma in questo avvenimento il linguaggio non è tutto e la parola, colta nella sua separatezza, appare insufficiente. Per questa ragione al prodursi del linguaggio si accompagna costantemente quello di un non-detto con il quale gareggia l’arte del dire e dello scrivere. Precisamente con questo non-detto le donne intrattengono un rapporto segnato da intensità e da urgenze del tutto particolari. Dio indica forse uno spazio in cui la pratica di questo tentativo si sostiene con la forza di un nome che legittima senza limitare.
Non stupisce quindi che la propensione del discorso femminista a frequentare tematiche teologiche si leghi così frequentemente anche alla presenza tanto assidua, nel discorso della differenza del riferimento, all’amore. L’amore è un termine spia, a parer nostro, di una tensione speciale che le donne hanno verso un’ulteriorità del desiderio che lo fa diventare una condizione assoluta: senza misura, senz’alcuna proporzione con il bisogno di un oggetto, svincolato anche dall’altro che può dire sì o no. Nella percezione di questa ulteriorità vi è un grande senso di ampliamento della possibilità d’amare perché vi è libertà dalla paura di mettere a rischio la propria immagine. Se chi ama ha bisogno di ritrovare costantemente se stesso nell’oggetto che sceglie riduce di molto la sua potenzialità. Se invece riesce a non inciampare su di sé, se il suo occhio non è rivolto al proprio interno potrà vedere e amare le cose così come sono.
Ma l’amore ha anche un altro versante; sta al posto di quanto sfugge alla nominazione; occulta un debito simbolico; preserva il corpo da quel sacrificio che l’accesso al simbolo comporta, essendo la parola morte della cosa. Quindi l’amore allude ad una possibile salvezza della carne, di quella fisicità e pulsionalità che oggi la dimensione mondana tende spesso a risolvere in mero consumo d’immagine.
L’insistenza con cui il discorso femminile ritorna sull’amore si presta in controluce a far emergere le ragioni di un’altra costante, quella rappresentata dal mantenersi della donna ai margini della politica. In quest’ambito il godimento appare terribilmente distante dalla dimensione del corpo. Il politico gode il più delle volte nel mantenere una posizione di potere e nell’avere una presenza condizionante nell’esistenza e nelle attività di molti esseri umani; gode anche di qualcosa che si esprime attraverso la possibilità di annientamento, senz’escludere che egli sia dotato di una potenza creativa. Questa è una condizione in cui le donne avvertono, in particolar misura, l’aspetto derealizzante.
Al desiderio che promuove il discorso della differenza non può dare, al presente, una risposta adeguata per qualità nessun discorso che recuperi la figura giusnaturalistica e moderna dell’individuo soggetto di diritti, perché i diritti vengono dati, riconosciuti a volte imposti, ma il desiderio che ha sempre operato nel femminismo, anche se è produttivamente passato attraverso la rivendicazione di diritti, alla fine non si alimenta di essi. In questo senso le donne esprimono con più diretta intensità qualcosa che, in maniera più dolorosa e spezzata e più irta di crisi, esprimono anche gli uomini: non sopportano più di essere considerate individui, soggetti di diritto, che concorrano alla formazione di una rappresentanza politica. La donna avverte che la politica esclude zone che la sua sensibilità le fa ritenere importantissime e che, per sanare questa falla, non può ricorrere alla risorsa di mettersi a fare politica, cioè di avere per sé più spazi che tradizionalmente occupano gli uomini. Le donne percepiscono che nella dimensione importantissima della politica c’è troppo poco di quel desiderio femminile che ha prodotto il movimento del pensiero della differenza, ma che non si è completamente espresso attraverso di esso. Forse a questo punto è lecito chiedersi se quel desiderio non abbia la necessità di dipendere ancora di meno dallo sfondo maschile, per riuscire a dirsi e a tradursi in pratiche, senza subire il condizionamento che gli è derivato dall’urgenza di rispondere al rifiuto implicitamente espresso da ogni articolazione della logica maschile.
Forse tutti, donne e uomini, sanno ancora poco del loro desiderio. Infatti, sia le architetture di molti modelli maschili, sia la rivendicazione femminile della differenza producono storicamente dei livelli d’interpretazione (dove interpretazione è contemporaneamente comprensione, ma anche svolgimento attivo) che, seppure hanno prodotto momenti di affermazione soggettiva e di libertà, rimangono limiti che il desiderio chiede di superare.
In tal senso le tradizioni che costituiscono il complesso delle nostre risorse culturali ‘formate’, pertanto riconoscibili e nominabili, danno probabilmente il meglio di sé, non quando mostrano di proteggere e garantire certezze nelle quali continuare ad abitare a tempo indeterminato, ma quando fanno intendere quanto noi oggi si sia esposti, senza protezioni, alla necessità di ridelineare gli orizzonti e le linee di orientamento della nostra realtà.
Freud diceva che il meglio di ciò che sappiamo non lo possiamo insegnare ai nostri allievi. Ed è proprio perché il meglio di ciò che sappiamo non è altro che lo spazio vuoto nel quale possiamo rimettere totalmente in gioco il nostro sapere, nel presente in cui si decide quello che siamo.
Occorre andare oltre la differenza, ma nella direzione in cui pensare la differenza mette in moto il desiderio. Per dirlo con Lacan, si tratta di comprendere come ora si debba “non cedere sul proprio desiderio”; il che significa innanzitutto non confondere il desiderio con oggetti che pretendano di esaurirne la ragione.
Altrimenti a fronte dei sommovimenti planetari in corso si rischierebbe di ripetere l’esito di molti dissidenti dell’Est europeo che dopo la caduta del muro di Berlino vennero liquidati dagli affaristi e peggio, dai guerrafondai, molto più adeguati di loro a gestire perversamente il caos prodotto, al tempo stesso, dalla catastrofe delle vecchie strutture e dalla natura non angelica del cosiddetto libero mercato.
E gli uomini? Ci sembra che un incontro con gli uomini ci possa essere in un luogo in cui le donne sono donne e anche altro, gli uomini sono uomini e anche altro, ma tutti insieme non sono il genere umano, se per genere umano s’intende qualcosa in cui la differenza si spenga. Le donne e gli uomini riescono veramente ad essere quando sono così disponibili al loro accadere da essere ulteriori alla pura affermazione della loro maschilità o della loro femminilità, che è poi la condizione a cui tante volte hanno cercato di approssimarsi nel loro percorso i mistici e le mistiche, trovando nel loro nascere in Dio il luogo in cui fruire l’infinito godimento di tutto sé stessi.
C’è in questo l’aspirare ad una libertà superiore a quella che vi è tradizionalmente nel gioco ad incastro dei ruoli sessuali. Se non c’è la possibilità di questo dobbiamo accettare che una parte di noi possa essere tagliata via perché non è importante che si esprima. Nel nostro tempo grandi quantità di avvenimento umano sono concepite come superflue e sacrificabili. Sono pezzi di uomini e di donne, ma sono anche porzioni di mondo di cui si decide, quasi inconsapevolmente, di poter fare a meno, avviandosi così in direzione di una sopravvivenza sempre più costosa e devitalizzata.

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