Alessandra Pon
Si fanno tanti incontri su una grande strada. Il primo di Fabrizio è stato con un tamburo, lo djambè, comprato da un ambulante africano a Levanto, durante le vacanze estive, sei anni fa. “L’inverno, poi, a Milano, cercai qualcuno che mi insegnasse a suonarlo, e trovai Marco”. Non esattamente un maestro accademico, Marco Patanè, ma l’amico che lo conduce a un nuovo incontro, quello con l’Africa. “L’estate successiva siamo partiti insieme per il Burkina Faso. Il centro teatrale interculturale Koron Tlè di Milano organizzava il suo primo stage “meticcio”, con allievi africani e bianchi. Noi due, in realtà, eravamo due estranei, del tutto digiuni di teatro, infervorati solo di musica”. E Fabrizio De Georgio Trecate Ferrari, più che incontrare l’Africa, ne è travolto. “Mi sono innamorato del luogo. Completamente, come di una donna. E quando accade non nesci a dire come e perché è successo”.
Dopo un mese rientra in Italia, dove l’aspetta un esame all’università, ma sta malissimo. “Per tre settimane ho patito una sofferenza infernale, misteriosa. Nonostante una miriade di esami ancora adesso non so cosa mi avesse preso. Ma credo che in qualche modo mi stessi preparando al grande distacco”. Il dolore fisico, per Fabrizio, è una sorta di ultimo falò dove bruciare aspettative deluse, rancori, falsi legami, modelli irriconoscibili. “Già da tempo, mi qualche modo, mi stavo allontanando. Tanti aspetti del nostro Occidente mi sembravano intollerabili, e rifiutavo di soffrire ancora per una situazione familiare complicata. L’Africa, invece, pareva disegnata per me”. A ritmo di record dà tutti gli esami che gli mancano e si laurea alla Bocconi con un solo pensiero fisso: tornare in Burkina il prima possibile e realizzare qualcosa di tangibile insieme a chi ha incontrato laggiù, un eclettico gruppo di inguaribili sognatori. Marta Moroni, architetto e attrice, Serena Sartori, regista e pedagoga teatrale, Sotigui e Dani Kouyaté, padre e figlio, il primo artista della compagnia di Peter Brook, il secondo cineasta, e Desiré Sornè, ballerino. Per la prima volta la diaspora africana, in questo caso burkinabé, sembra poter invertire il flusso, non più disperdersi, ma unirsi. E nasce, nel 1999, l’associazione Sirabà (“la grande strada” mi lingua dioula), con tutta la provocazione delle utopie. “Parlare di iniziative culturali in un Paese come l’Africa – dove intervenire di solito significa costruire ospedali, case, scuole – sembra inopportuno, per i più sconsiderato, rispetto alle “vere necessità””. Quasi scandaloso. Creare un centro dove gli artisti possano incontrarsi e scambiare esperienze? Ammettiamolo, un progetto un po’ insensato, che ignora i reali problemi della gente. Credere che arte e cultura possano regalare benessere più di farmaci, cibo, strade? Romanticherie da intellettuali e bohémien viziati. Ma capita che i sognatori sappiano essere più concreti dei realisti. Gli studi di economia di Fabrizio sapranno disciplinare i sogni in progetti con fondamenta fisiche, assolutamente reali. Dal comune della città di Bobo Diotilasso l’associazione ottiene un terreno di 5.000 metri quadri e dalla Ong Mani Tese il finanziamento per costruire la prima tappa della “grande strada” – il Centro di formazione artistica e artigianale: una sala di lavoro per il teatro, uffici, cucina. E presto seguono, grazie alla fondazione Nando Peretti, sei case per ospitare stagisti, allievi e insegnanti, un’altra sala di lavoro polivalente, un bar e un ristorante. Tutto edificato recuperando e perfezionando, con l’aiuto di Architetti senza Frontiere, la tecnica tradizionale burkinabé di costruzione in terra cruda. Sirabà decide di giocare la sua sfida alla concretezza anche nel campo più avverso, la lotta all’Aids, dove l’arte pare sconfitta in partenza, travolta da una battaglia combattuta a colpi di cifre, soldi, ricerche di laboratorio. Hamlet Noir è la sua prima produzione teatrale – dedicata a Desiré, uno dei sognatori che dalla realtà della malattia è stato sconfitto, morendo – e mette in scena in parallelo la vicenda di una troupe che recita Shakespeare e quella personale degli attori. “Il dilemma di Amleto, essere o non essere, traduce quello dell’Africa, agire o non agire, parlare o tacere, affrontare o nascondersi. Man mano che Amleto si tormenta nel dubbio e nell’attesa, l’attore si consuma nella malattia”. Portato in tournée nel Burkina Faso e nei più importanti festival africani dal 2001, lo spettacolo colpisce 2 tabù che protegge e alimenta l’Aids – il silenzio, il non-detto – in un Paese dove alla parola è attribuita la forza magica di creare, appena pronunciata, la realtà. “Tra sieropositivo e sieronegativo preferiscono l’essere “sieroignoranti”. I test a tappeto, tanto dispendiosi, risultano inutili: la maggior parte degli africani ha paura di farli e, se li fa, non va a ritirare il risultato”.
Paradossalmente, il clamore della battaglia all’Aids sta anestetizzando l’attenzione, soprattutto dei più giovani. Il nuovo progetto di Sirabà, finanziato dalla Comunità europea, in collaborazione con Anlaids, ha coinvolto proprio loro, invitando gli alunni di tre licei di Bobo Dioulasso ad assistere a uno spettacolo teatrale e a rispondere a due questionari. A ispirare il racconto, recitato su base rap, di Taffè Fangà (Il potere del panno, ovvero il potere della donna che si toglie il panno per accogliere nel suo letto l’uomo), una dichiarazione dell’infettivologo Mauro Moroni: il vaccino contro l’Aids esiste già, sta nel comportamento umano. “Quello che purtroppo abbiamo scoperto dalle loro risposte è che, da una parte, sono saturi di allarmi: l’Aids si è banalizzato, diventando una delle ennesime piaghe che affliggono l’Africa. Dall’altra l’unica soluzione che credono possibile è quella medica, il preservativo e il vaccino. Eppure l’amore può Vincere il virus”. L’amore vero, aggiunge Fabrizio. La più difficile delle lezioni da insegnare, materia da sognatori puri. Per affrontarla, nel Centro di formazione di Bobo, sono già previsti dei “consultori” specifici per donne e uomini, molto particolari. Un posto dove apprendere e lavorare insieme – le professioni del teatro, l’arte della tessitura o gli strumenti musicali – e dove poter parlare e ascoltare di amore, affetti, sessualità, prima e al posto dell’ospedale o della farmacia. “Un luogo che ti sia veramente vicino. Che ti accolga come una nuova casa”. Fabrizio sa che può succedere. È accaduto anche a lui. Unico della tribù dei sognatori ha deciso di vivere a Bobo. Una famiglia l’ha accolto nel suo cortile e lui vi ha costruito la sua nuova casa. Non si è fatto la villa e nemmeno lo stipendio da toubaboù, da bianco. E forse non lo è neanche più. Ora si chiama Zekelè Traoré, un nome che non sa cosa significhi, ma che tutti gli riconoscono, e sorride spesso, quasi quanto un africano. Il suo sogno adesso è regalare a Bobo il primo vero teatro della città. Un sogno imponente di architettura maestosa. Ma la strada è grande, ci dovrebbe stare.