1 Settembre 2003
Ecole

La lingua che ci amora

Oggi, come ai tempi di don Milani, la lingua è un luogo cruciale di conflitto e di ricerca (in termini diversi).
Per il movimento per l’Autoriforma gentile e per la Società italiana delle Letterate – che hanno organizzato l’incontro nazionale La lingua che ci amora. Esercizi di libertà per imparare con (Roma 4 – 5 ottobre 2003) – la distanza linguistica e culturale tra le generazioni può diventare un’appassionante scommessa politica se la si considera in termini relazionali. Riportiamo il testo-invito al convegno

Un motivo ricorrente nei discorsi sulla scuola è lo sconcerto di fronte all’apparente rozzezza e povertà linguistica delle giovani generazioni. Spesso il mondo accademico la interpreta come un segnale “apocalittico” di crisi dei valori della cultura, a cui rispondere con una strategia di difesa e di restaurazione. Altre voci, specie nel campo della pedagogia, capovolgono la valutazione, esaltando le potenzialità espressive dei nuovi canali comunicativi a scapito del logocentrismo della cultura tradizionale. Noi pensiamo che, indipendentemente da questi giudizi unidirezionali, la distanza linguistica e culturale tra le generazioni possa diventare un’appassionante scommessa politica se la si considera in termini relazionali: dove c’è differenza tra esseri umani, lì c’è qualcosa di nuovo e di importante da scoprire. Per questo pensiamo che oggi, come ai tempi di don Milani, la lingua sia un luogo cruciale di conflitto e di ricerca, ma in termini diversi. Allora la scommessa aveva caratteristiche collettive, riguardava classi sociali da emancipare socialmente, sentite come portatrici di una cultura materiale e di una ricchezza linguistica capaci di scardinare l’opacità e il potere della lingua delle classi dominanti. Oggi ci pare che la scommessa riguardi la libertà e tocchi la singolarità di ogni essere umano, giovane e adulto, messa a rischio dall’affermarsi di forme di linguaggio standardizzato e omologante. Prima di essere un problema di insegnamento, si tratta di noi come parlanti, della nostra umanità e della sua espressione libera in ogni ambito della vita associata. A questa situazione la pedagogia linguistica ufficiale risponde con la proposta di modelli codificati, basati su una concezione funzionalistica e utilitaristica della lingua, ben inseriti nel pensiero aziendalistico dominante. Noi crediamo invece che dalle differenze possano nascere modi espressivi imprevedibili e multiformi, capaci di dar voce a quello che ciascuno e ciascuna vive, sa e vuole, nell’ambito di una relazione fondata sul piacere dello scambio: un grano di libertà che può cambiare ciascuna e ciascuno di noi, e il mondo che ci circonda. La storia della presa di parola femminile attraverso la quale molte di noi sono passate mostra come si possa diventare soggetti di discorso, trovando parole per dirsi fuori dalle categorie concettuali previste.
Tutto questo è accaduto non per caso. Noi intendiamo approfittare della crisi in atto per rovesciare i modi di strutturare il discorso che si pretendono esaustivi e negano così l¹esistenza dell¹altro da sé. In questo contesto, come si possono ridefinire in positivo le differenze tra le generazioni? Come liberarsi da una serie di modelli, come scartarli e giocarci? Fino a che punto convergere verso un italiano comune e fino a che punto dare spazio a una lingua meticcia? Come dare forza a una scommessa politica sulla lingua viva per cui le parole sappiano dare la libertà di inventare mediazioni indipendenti dal denaro e dal potere, e affermino il valore impagabile di essere al mondo con un senso libero di sé e dell’esperienza che si vive?

 


L’amore della lingua
DONATELLA ALESI *

 

La lingua che ci nutre insieme al latte materno e all’aria che respiriamo è il nodo politico della scommessa che abbiamo di fronte oggi: non solo per reagire alle politiche aziendalistiche, ma per ricominciare a fare della scuola il luogo realmente democratico dell’agire insieme, dunque dell’imprevedibilità delle relazioni incarnate. Imparare a parlare non per essere subalterni allo stato di cose presente, ma, come ha scritto Vita Cosentino, per “diventare se stessi e se stesse, diventare soggetti parlanti, che prendono decisioni e pensano”. Riguarda la scuola, o, in altri termini, il futuro di tutte e tutti

 

Interrogarsi a partire dalla scoperta di sempre più evidenti segnali di sconnessione del rapporto tra parole e cose significa da un lato rivedere un patrimonio di conoscenze usurate e non più dicibili e, dall’altro, approfittare dell’avvistamento delle fratture per costruire altri nessi logici, rivedere il rapporto tradizionale tra oralità e scrittura a favore della prima, riscoprire la fisicità della lingua occultata nell’esercizio secolare degli atti della lettura e della scrittura. Insomma, ricreare-inventare l’amore della lingua che è l’opera prima di civilizzazione compiuta dalla mediazione materna.
Intorno al La lingua che ci amora si è concentrato il dibattito del convegno nazionale Roma 4-5 ottobre 2003) del movimento dell’Autoriforma gentile, organizzato insieme alla Società Italiana delle Letterate (SIL).
Può apparire retorica la definizione di incontro fatale, eppure l’aggettivo tanto abusato dice qualcosa di essenziale sull’apertura necessaria del confronto tra movimento e SIL intorno ad un tema ? la lingua – e con una pratica politica – la narrazione d’esperienze – che ritroviamo sin dalla nascita dell’associazione, nel 1996. La rete di relazioni delle docenti impegnate nella scuola e nell’università tra movimento e SIL spiega il resto.
Noi viviamo nella lingua, essa nutre chi parla, come l’aria che respira gli permette di vivere; non parliamo o scriviamo per frasi precostituite, cerchiamo piuttosto continue conferme nelle relazioni, la vita è un grande laboratorio di costruzione della personalità. Prima di diventare prodotto, ogni atto linguistico è una ricerca di senso radicata nell’esperienza che implica operazioni di percezione, ideazione, ricordo e rappresentazione, è una esplorazione dell’universo mentale che, a partire da schemi significanti, si arricchisce continuamente.
Insieme all’opera della madre, è la scuola lo spazio in cui impariamo a parlare e a mettere in gioco la nostra passione per la/della parola: qui sperimentiamo il buon uso e i buoni effetti dell’opera di civiltà della mediazione materna tra noi e il mondo. In questa sperimentazione siamo sempre costantemente coinvolte/i, sia come docenti che come allieve/i.
In tempi di richiami sempre più minacciosi ad identità chiuse di lingua, suolo e sangue, la possibilità di narrare esperienze su realtà di bilinguismo e plurilinguismo focalizzate sulla relazione vitale tra parlanti e tra parole e cose significa contribuire alla frantumazione della retorica dell’identità culturale e linguistica “nazionale” attraverso l’esperienza della vicinanza di alunne e alunni nati in Italia e in paesi europei-extraeuropei.
Anche la positiva esibizione delle differenze culturali e linguistiche tra generazioni può diventare un’appassionante scommessa politica per illuminare il guadagno delle differenze che abbiamo incarnato e nominato nel corso degli anni. Nella politica delle donne, ad esempio, la presa di parola è stata segnata sin dall’inizio dalla nominazione degli scarti e dei residui del non detto o del cancellato, del guadagno della relazione fino al limite di fare spazio a sentimenti ed emozioni negative, agli errori nella pratica, alle deviazioni-divagazioni. Questo andare e venire del pensiero in relazione trova spazio nel linguaggio e nell’uso quotidiano delle lingue che ci abitano: di questa ricchezza vive l’esperienza dell’insegnamento e dell’apprendimento/auto-apprendimento, centrata sulla libertà dell’invenzione che il convegno vuole mettere in circolo nel prossimo ottobre. Al limite, anche la felicità liberante del lasciar sbagliare e del tempo non utile che la faccia irrompere – imprevista – sulla scena pedagogica mettendo in gioco vitale e vivo tutti gli attori della relazione.
Quanto più riconosciamo il vincolo tra linguaggio e ordine simbolico tanto più viviamo l’irrinunciabile necessità di approfittare della crisi dei linguaggi settoriali e specialistici, compresi quelli pseudoaziendalistici e burocratici che hanno invaso le più recenti ipotesi di riforma scolastica, fino alle più raffinate e astratte tecnologie didattiche, alle tassonomie programmatorie e agli schematismi curricolari, non ultima l’utopia dell’oggettività della valutazione, la critica della quale tanta parte ha avuto nella primissima discussione in seno al movimento dell’Autoriforma.
Il bisogno simbolico di rinominare il rapporto lingua-realtà non può non investire la struttura stessa delle discipline, che dell’ordine autoritario del sapere condividono radice e sviluppo: l’esercizio di libertà agita dalla relazione innesca esiti imprevedibili nel chiuso dell’aula scolastica, con buona pace dei marchingegni progettuali calati dall’alto delle riforme curricolari. Nel dibattito dell’Autoriforma l’indisciplina delle discipline è stata subito messa al centro; parallelamente la SIL ha lavorato sin dalla sua fondazione al rovesciamento dei canoni letterari e alla revisione della nozione stessa di canone, ovvero di quel termine che sancisce divisioni e confini con il supporto di un vocabolario specialistico. Quanto più si allenta il vincolo tra lingua e realtà, favorendo l’ispessimento delle terminologie astratte, tanto più si favorisce la formazione delle professionalità separate e delle competenze specialistiche alimentate dall’ideologia del mercato come fondamento regolativo del sistema sociale.

 


Passaggio d’esperienza e desiderio raccontando

 

La questione è quella di narrare le esperienze, di interrogarle e chiamarle in gioco sulla passione dell’apprendimento come esercizio di libertà. Non per riassumere o sintetizzare, ma per chiamare a raccontare migliaia di piccoli episodi che chiedono di essere narrati, segni di cambiamenti che sono avvenuti e avvengono nella pratica e sono riconoscibili quando si presentano nel cerchio delle esperienze della scuola e dell’università. Raccontare esperienze didattiche permette di mettere in parole la propria pratica non come prodotto finito, ma precisamente come sedimentazione del vissuto messa in relazione con altre narrazioni, in una sorta di spazio virtuoso in cui fatti, gesti e parole si accumulano e si ristrutturano in un ordine del discorso nuovo perché divenuto intersoggettivo. Errori, perplessità, vicoli ciechi, imprevisti, improvvisazioni sono funzionali alla narrazione di processi in atto, che debbono diventare materiale per sperimentazioni praticabili in altri contesti. In questo movimento dobbiamo riconoscere i segni della sapienza radicata nella pratica e alimentata dalle relazioni: è la sapienza dell’apprendimento che le/i docenti scelgono di non lasciare tacitamente occultata, facendo propria, fino in fondo, la pratica creativa della parola che narra l’esperienza. Per un lavoro caratterizzato dall’alto tasso di consumazione delle esperienze didattiche, dettata dai tempi serrati della programmazione e dall’invenzione di sempre nuove tecniche, la narrazione rappresenta, da ultimo, la possibilità di tesaurizzare e dare valore a quell’enorme accumulo di sapere contestuale, relazionale e della manualità scommettendo sulla sua struttura in divenire – processo e non progetto.
Intorno alla competenza dei nessi tra le narrazioni e le esperienze il movimento dell’Autoriforma gentile costruisce i propri appuntamenti annuali, veri e propri discorsi polifonici circoscritti nello spazio e nel tempo. Essi sottopongono a revisione critica la forma stessa del convegno, lasciando spazio al libero susseguirsi di interventi e relazioni di contesto, come sa chi ha avuto la fortuna di partecipare al grande sforzo collettivo di rovesciamento della sua struttura autoritaria. Così il convegno tradizionale può provare a trasformarsi in contesto relazionale che mette in collegamento esperienze narrate di ricerca e didattica, ovvero diventare punto di approdo del già vissuto e sponda verso nuovi orientamenti del non ancora esperito, attraverso lo scambio vivo dell’oro della parola accostata all’esperienza. Solo così la narrazione di storie apre spazi di senso significativi per le soggettività in gioco.
Di questo rovesciamento resta traccia nel primo libro polifonico e polimorfico del movimento, costruito per superare l’impianto accademico della saggistica specialistica e degli atti di convegni. Anche su questo terreno l’incontro con la Società Italiana delle Letterate è di grande rilevanza perché sin dalla sua fondazione la SIL è impegnata attivamente a rimettere in discussione forme e linguaggi della comunicazione scientifica – lezioni, seminari, laboratori, convegni – e le conseguenti elaborazioni scritte1. Consapevoli della necessità della forma scritta e della sua intrinseca inadeguatezza, anche la forma del libro-convegno e dei suoi testi esibisce punti di dissonanza e fuga, temi ricorrenti, vicoli ciechi, insomma l’intera trama segnica di emozioni comuni vissute in presenza nella discussione circolare e poi trasferite nello spazio della scrittura.

 

* Società delle Letterate

 

NOTE
1. Sul Convegno e sulla lingua ritorneremo nel prossimo numero di école con un altro articolo di Donatella Alesi.
2. Il riferimento è, in particolare, alle esperienze in corso del Laboratorio di mediazione interculturale di Prato e del Seminario residenziale di Trevignano, che affiancano il dibattito del Convegno nazionale.

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