23 Maggio 2004
il Manifesto

La luce dell’Africa è molto più forte

Parla Ousmane Sembene, vincitore del Certain regard con “Moolaadé”, film con cui il padre del cinema africano racconta la rivolta delle donne contro l’escissione. “Sono loro, più degli uomini, a muoversi verso nuove consapevolezze”
Cristina Piccinno

 

L’oggetto da cui non si separerebbe mai è la sua pipa, il personaggio che ama di più nella storia del cinema è Charlot e se gli chiedi cosa significa fare un film risponde: “È come cucinare un buon pranzo”. Lui del resto si definisce un bravo cuoco – pure se in occasioni molto speciali, proprio come sono i suoi film. Sembene Ousmane, che ha scoperto Chaplin da ragazzino, a Ziguinchor, nel sud del Senegal, deve amarne l’humor obliquo, lo stesso che riempe ogni sua frase di provocazioni gentili. Moolaadé ha vinto il concorso del Certain regard, quasi “rimediando” alla pessima figura fatta da Thierry Frameaux che non l’ha voluto in competizione – nella giuria ci sono anche due direttori di festival che ancora prediligono l’indipendenza come Michel Demopoulos (Salonicco) e Eva Zaoralova (Karlovy Vary). Poi Carlos Gomez (Le Journal du Dimanche), Eric Libiot (L’Express), Baba Richerme (Rai). Perché Moolaadé è un film magnifico e importante, che polverizza la violenza spacciata per identità, tradizione, valore religioso.

 

La rivolta delle donne africane contro la pratica dell’escissione, di questo parla Moolaadé, dedicato dal regista alla madre che come la protagonista del film, Collé, l’eccentrica del villaggio, ha vissuto lottando per sconfiggerla. Sembene, considerato il “padre” del cinema africano ha la stessa determinazione: un immaginario potente e libero che racconta l’Africa rovesciando le “leggi” coloniali dell’esotismo, con intelligenza e gusto del cinema. Lo incontriamo sulla terrazza del Palais, un pomeriggio di sole, elegantissimo e con l’inseparabile pipa.

 

La pratica dell’escissione continua in 38 dei 54 stati che appartengono all’Unione africana. Lei dedica il film a sua madre, pioniera nella lotta per abolirla. È da qui che nasce “Moolaadé”?

 

Non riesco mai a spiegare con precisione come si formano le idee in un processo creativo. Certamente il punto di partenza è la realtà quotidiana in cui le donne rappresentano per me l’anima contemporanea dell’Africa. Sono loro, molto più degli uomini a compiere un percorso verso nuove consapevolezze, a cominciare dalla lotta contro l’escissione. La protagonista del film ha subito l’escissione da ragazzina. È una ferita dolorosa, e non solo fisicamente. Questo la spinge ad aiutare le altre. Si è opposta all’escissione della figlia ed è diventata un punto di riferimento per tutte quante cominciano a prendere coscienza della propria individualità.

 

Al tempo stesso convive con la cultura della tradizione, la poligamia…

 

E le diverse mogli vanno d’accordo nonostante i continui litigi… Conosco la mia società, so come sono le donne della mia famiglia: l’uomo pensa di occupare un certo posto e loro lo lasciano fare, così si sente un maestro. Non c’è un conflitto reale, il problema riguarda la società che cerca di imporre ruoli e regole… Forse anni fa in Italia era un po’ la stessa cosa.

 

Dove è stato girato “Moolaadé”?

 

In Burkina Faso, non lontano da Ouagadougou, una zona che amo molto. Sono luoghi di pace e di serenità. È importante perché ho sempre girato i miei film in un décor naturale. L’elemento più difficile è la luce: in Africa è molto forte, bisogna catturarla con attenzione.

 

La radio. Nel film si direbbe un mezzo sovversivo in mano alle donne e temuto dagli uomini.

 

In Africa è un media molto diffuso e molto potente. Per un paese dove ci sono ancora tanti analfabeti, radio e satelliti, che parlano le lingue nazionali, arrivano a tutti. Quando la figlioletta di Collé dice al “mercenario” che lei sa bene cosa significhi il suo soprannome, che lui fa parte di quegli eserciti che in Africa hanno massacrato migliaia di persone, è perché ascolta la radio. I capi religiosi le vietano, si rendono conto che sono un’arma di conoscenza. In generale temono il ruolo della “cultura”, che non sono solo i libri ma è conoscere quanto avviene nel mondo per rispondere all’oppressione.

 

La presenza della moschea al centro del villaggio vuole dirc che in Africa sta dilagando l’integralismo?

 

Non proprio. In Africa c’è rispetto per le religioni, le moschee hanno fatto sempre parte della società come le chiese cristiane. Non è questione di integralismi: gli uomini sono molto più conservatori delle donne, così utilizzino tutti i mezzi per mantenere la situazione bloccata.

 

“Moolaadé” arriva quattro anni dopo il suo ultimo “Feat-Kinè”. Questo perché il cinema africano oggi non riesce più a trovare i finanziamenti? Ma è sempre stato difficile averli…

 

Moolaadé è stato girato in otto settimane ma ci è voluto un anno e mezzo di preparazione, gli attori che sono quasi tutti non professionisti dovevano appropriarsi dei loro personaggi. È la lezione di Rossellini: il cinema deve essere un po’ parola e molto silenzio. Gli africani come gli italiani non stanno mai zitti, quindi si deve lavorare per tirare fuori lo sguardo, l’emotività che si esprime nell’immagine e non solo nella parola. Per me tra queste due componenti c’è una relazione molto precisa. Lo stesso vale per la musica, che deve entrare dentro all’immagine senza invaderla.

 

Il finale del suo film è aperto e ottimista…

 

Penso che l’escissione finirà, come altri problemi gravi del nostro continente. Gli uomini saranno liberati dalle donne perché ogni conquista è un passo avanti in cui ci guadagnano tutti, e questo vale soprattutto per le generazioni a venire. Faccio film per l’Africa, in cui si affrontano temi che non vediamo in altre cinematografie. La società africana sta vivendo un’evoluzione, è molto cambiata da quando ho cominciato a fare cinema. Ecco perché mi sembra sempre di essere a un nuovo inizio.

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