14 Marzo 2004
il manifesto

La pace nella guerra, la guerra nella pace

Le pratiche di pace femminili mostrano che il rifiuto della guerra comporta la rivoluzione di tutto il lessico della politica. Per chiarire le occulte parentele che legano la violenza pubblica e quella privata, e per inventare una politica della relazione contro la politica dell’identità
Paola Melchiori

Le considerazioni di Adriana Cavarero sul rapporto fra guerra e politica (Una politica oltre il potere, sul manifesto del 28 febbraio scorso) mi stimolano a una riflessione ulteriore che parte dalle molto diffuse quanto poco note o quantomeno poco considerate «pratiche di pace» delle donne, pratiche che hanno popolato la storia recente in molti luoghi difficili del pianeta. Sono d’accordo con la lucida e nitida radicalità con cui Cavarero prospetta la vicinanza/continuità tra politica e guerra ed evidenzia, del femminismo, la spinta al ripensamento radicale dei concetti di base che fondano il nostro pensare e il nostro vivere.

 

Poco note, poco considerate, attribuite al pacifismo tutto femminile del materno, o alla «vocazione sacrificale» delle donne, da molti (quanti?) anni, nei luoghi dove ogni dialogo si è ormai spento, si ritrovano gruppi di donne che non cedono nell’estenuante pratica del dialogare, parlarsi, continuare a confliggere, non rompere del tutto. Israele, Palestina, Colombia, Irlanda, Gran Bretagna, ex Jugoslavia per citare le più note, India-Pakistan, Ruanda, in ognuno di questi luoghi esistono tentativi di non arrendersi alle frontiere segnate dalla storia. Oggi, ogni organizzazione di incontri internazionali deve fare i conti con la eventualità di incontri/scontri/ dialoghi estremi tra «nemiche potenziali» o definite come tali dalla storia e da una soggettività che alla storia comunque non può sfuggire. Il ragionamento di Cavarero mi permette di esplicitare con maggiore chiarezza ciò che questi tentativi testimoniano, di tirarli fuori da una eccessiva ovvietà, da facili stereotipi.

 

Per chi non pratica queste esperienze e questi luoghi e ne vuole avere una idea un po’ più che descrittiva, invito alla lettura di un libro, non recentissimo, ma molto attuale in questa discussione, The space between us, Negotiating Gender and National Identities in Conflict (Zed Books). Cinthia Cockburn vi analizza le caratteristiche di queste pratiche in tre zone calde del mondo, Israele-Palestina, Irlanda-Gran Bretagna, ex Jugoslavia. Vi si trovano spunti utili al dibattito in corso, che da un lato evidenziano le premesse necessarie a una possibilità di dialogo, tra persone in guerra potenziale o reale: la rinuncia a una politica dell’identità, per esempio. Dall’altro vi si descrivono le strategie che appunto le donne si sono inventate, nelle varie e molto diverse situazioni, per stare al di qua della guerra, della rottura, per mantenere uno spazio abitabile dall’idea di relazione. Vi si descrivono i vissuti delle singole, si osano alcune ipotesi interpretative. Sono pratiche del tentativo di usare il conflitto al posto della guerra, pratiche che si collocano fuori dalle ideologie e sembrano fondarsi sulla disperata necessità del salvataggio di una relazione con le altre donne, sulla preservazione anche di uno spazio fisico comune, una «casa delle donne», per esempio, dove prima che il conflitto si radicalizzasse le donne si incontravano, in una sorta di terreno franco. Sono pratiche che cercano di preservare uno «spazio tra», uno spazio transnazionale e«transizionale» , più importante di ogni ideologia, di ogni identità da difendere, o terra, o principio. Pratiche che sono state affinate con l’esperienza, fatte anche di stratagemmi, di usi abili e consapevoli del silenzio, politiche del «fermarsi e deviare» prima che… sperimentate nel tempo, senza ingenuità, dove tutte sanno qual è la posta in gioco, dove vengono sapientemente dosate le possibilità emotive di conflitto di ognuna, i suoi limiti.

 

Tali pratiche, rigorosamente, condividono la radicalità di alcune revisioni concettuali. Prima di tutto esse sono fondate sulla più o meno esplicita coscienza che vi sia una occulta parentela da chiarire, comprendere, disfare e ri-comporre, tra il maschilismo della guerra e le violenze che popolano le case, i luoghi privati di quell’amore tradizionalmente contrapposto alla guerra dall’immaginario maschile. Mi ha più volte colpito come molte delle donne della rete internazionale di cui faccio parte che vengono da zone di guerra, dal Sudan , dal Mozambico, facciano tesi (di laurea o master) sulla guerra da cui provengono. Molte finiscono per focalizzare la contrapposizione tra guerre di liberazione e guerre nelle case. Molti titoli suonano: «Pace nella nostra terra, guerra nelle case». Molti dei racconti, negli incontri post pace, evidenziano i paradossi della pace dei tempi di guerra e delle guerre dei tempi di pace, secondo una percezione, quella delle vite femminili, che impongono rovesciamenti, ridefinizioni inaspettate. Pace e guerra si riempiono di significati opposti.

 

La nascita di una nuova antropologia può avvenire soltanto se e quando divenga impossibile «saltare» le domande che ri-accomunano in ogni singolo soggetto l’autoanalisi della distribuzione pulsionale tra le due «guerre», le due violenze, quella tra i sessi e quella tra uomini. Ciò che accomuna questi tentativi sono lo sforzo e il coraggio, che è stato già di molte donne, di guardare dentro il pozzo dei propri desideri, complicità, miserie, distribuzioni pulsionali, tenendo insieme questi paesaggi pubblici e privati. Alcuni uomini ci hanno provato, a partire dal vecchio libro di Glenn Gray, del 1959, The Warriors, diario da soldato in Italia, durante la seconda guerra mondiale, di un intellettuale americano. Ce ne sono ormai molti altri. Senza un lavoro di questo tipo ogni teoria della guerra e della pace, ogni pacifismo non puramente tattico ma sostanziale sarà sempre monco, di superficie, inadatto a sfiorare le forze profonde che operano nel sostenere le guerre, il desiderio di guerra, la repulsione della guerra, i sogni dell’andare e del tornare, i paradossi di paci che diventano altre guerre e di paci che coprono altre guerre.

 

In quale luogo sarà analizzabile questo rovesciamento dei luoghi comuni? Sarà possibile trovarne uno in cui liberamente si possano rimettere in questione i significati, le definizioni concettuali di pace, guerra, conflitto, a tutto campo? Questa è una delle questioni culturali e politiche su cui si giocano oggi sia la possibilità di un dialogo tra i sessi che la stessa presenza politica non subalterna delle donne nello spazio pubblico. Quanto di questa estenuazione dialogica cui le donne non rinunciano si basa sulla comune consapevolezza che esistono altre guerre e altre paci da trovare e che i fondamenti dell’una e dell’altra «pescano» in quell’ altro fondo, vivo e trasversale alle ideologie politiche, oltre il marxismo, che è il patriarcato?

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