1 Dicembre 2003
Ecole

La pratica creativa del narrare

Donatella Alesi  *

A proposito di un romanzo, di un film, della presa di parola delle donne, della scuola e della lingua che ci nutre insieme al latte materno e all’aria che respiriamo

“Che ci fa Alu nelle capanne di un tessitore? Chiese stupito Gopal.
Non so. Li guarda tessere, probabilmente.
Bè, disse Gopal, devi spiegargli che se non va a scuola non potrà mai trovare lavoro.
Cosa? Balaram lo guardò con profonda meraviglia. Come potrei dire una cosa simile? Sarebbe sbagliato; sarebbe immorale. I bambini vanno a scuola per aprir gli occhi sulla vita della mente. Non per cercar lavoro. Se pensassi che il mio mestiere è solo un mezzo per trovar lavoro, smetterei d’insegnar domani”. [Amitav Gosh, Il cerchio della ragione, (1986) Torino, Einaudi, 2002, p. 64]

 

Il ricordo del dialogo tra un maestro elementare e il suo ex collega d’università, contenuto nel romanzo Il cerchio della ragione di Amitav Gosh, mi è tornato alla mente dopo aver visto il film-documentario del regista francese Nicolas Philibert, Essere e avere, proiettato nelle sale italiane l’inverno scorso. Del film avevo immediatamente apprezzato la felice presentazione di un’esperienza didattica in situazione con uno sguardo sensibile alla narrazione di parole e gesti nel cerchio vitale e vivente dell’agire pedagogico. Il nesso con quel passo del romanzo non ha fatto altro che mettere in parole l’emozione diretta e autentica di un’esperienza che vorrei fosse sempre presente nel modo in cui ogni docente narra la propria pratica didattica nell’epoca dell’aziendalizzazione del sistema scolastico. La dilatazione del tempo della relazione tra alunne, alunni e insegnanti, così ben mostrato nel film francese, nello spazio dell’aula deve essere il punto archimedico di ogni riflessione e discorso che parte dalla scuola ed ha per oggetto la sua narrazione: laddove si creano contesti viventi che attivano legami vitali, là si aprono spazi imprevedibili di libertà e di azione per ogni singolarità coinvolta. Di questo sapere è fatta la competenza simbolica delle/dei docenti; non è acquisito una volta per sempre e, soprattutto, in un modo unico e sempre uguale. Si alimenta con l’esperienza, per tutto il tempo necessario e non sempre misurabile, con buona pace di tutti i corsi di aggiornamento che per loro stessa natura negano la radice di quel sapere: il desiderio di imparare e di insegnare che trova spazio nell’amore e nella fiducia come fondamenti della passione dell’apprendere.
A partire da questo punto la distanza tra l’azienda e la scuola non può che essere massima: c’è bisogno di tempo inutile e non misurabile, di spreco e di pause per dare corpo, nel tempo, alla ricerca di parole e significati che diano senso e valore al nostro abitare nel mondo. La competitività e la produttività rispondono a logiche di dominio gerarchico del sapere e della conoscenza che nulla hanno a che fare con gli spazi delle relazioni incarnate intorno al desiderio di apprendere e alla libertà della ricerca.
Ecco, dunque, perché il dialogo del romanzo di Gosh, pubblicato nel 1986, può essere accolto e ascoltato in quest’inizio di secolo: quel fare e quell’agire, pur spostati nel tempo e nei luoghi, ci riguardano come una scommessa irrinunciabile per chiunque abbia a cuore la centralità dell’esperienza viva che cresce attraverso la quotidiana pazienza del raccontare in ogni aula scolastica, in ogni continente. Oggi le famiglie chiedono un’istruzione di “qualità” e sono disposte a spendere molto e perciò alla scuola e all’università chiedono risultati misurabili e immediatamente utilizzabili nel mondo del lavoro. Quanto più forte e pressante è la richiesta sociale, tanto più necessaria deve essere la risposta alla sfida per un’educazione non costretta a fornire le prove documentate di un saper fare ispirato utilitaristicamente ai modelli delle aziende e al linguaggio prodotto. Nel migliore dei casi è concepita come un servizio sociale e alle/ai docenti viene chiesto l’esercizio di un maternage orientato a soddisfare quel di più emotivo che l’ideologia delle tecnologie didattiche non riesce a soddisfare.
Dove i segni del potere e del denaro, del tempo frazionato e misurato s’incarnano in rapporti strumentali e autoritari, lì prendono vita e si sedimentano pratiche linguistiche che negano il piacere della relazione e del rispetto dell’altro, infarcite di metafore economiche che ne reificano la qualità umana. La scommessa che dobbiamo vincere riguarda precisamente la conquista del segreto dell’esperienza messa in parola, che somiglia al ritmo scandito dall’intreccio di trama e ordito, sempre uguale in tutti i tempi e in tutti i luoghi, come Amitav Gosh narra nel suo romanzo. Apre l’orizzonte di senso con un sapere relazionale, contestuale e della manualità. La scoperta di quel piacere restituisce al giovane Alu la passione dell’apprendere attraverso le mani e l’ascolto dei mille e più termini prodotti dall’arte del tessere, della quale non si stanca mai di sapere. Essa avviene fuori dall’aula scolastica e fuori dai confini delle discipline istituzionalmente accolte nei programmi scolastici. Dunque, i limiti della trasmissione tradizionale del sapere sono visibili nella lunga storia dell’educazione in Occidente e dei rapporti mai semplici con il sistema sociale e gli apparati produttivi. Approdano alla messa in questione dei fondamenti ideologici dell’istituzione e delle sue regole quando fanno irruzione soggetti non previsti: le donne, prima di tutto.

 


La natura della crisi

 

Il tesoro di questa esperienza coincide con l’avvenimento della libertà femminile nel Novecento: coincide, in altre parole, con il processo irreversibile della presa di parola e della visibilità pubblica delle donne. Esso ha innescato la crisi del modello moderno della scuola come spazio della trasmissione gerarchica dei saperi attraverso forme di apprendimento pensate da uomini per uomini e di questa gigantesca critica dell’autorità e della trasmissione unilaterale sicuramente più donne che uomini hanno voluto approfittare. Ne ha fatto tesoro il movimento dell’Autoriforma gentile, nel quale donne e uomini da alcuni anni hanno stabilito relazioni politiche per approfittare di quella crisi e provare a rovesciare la struttura dei discorsi che omologano l’altro da sé negando tutte le differenze1. Il processo di doppia femminilizzazione in atto nelle società occidentali – maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro e metamorfosi femminile del sistema produttivo – si è manifestato prima e con caratteristiche peculiari proprio nella scuola: il desiderio di lavorare creando contesti, utilizzando metafore, simulazioni, drammatizzazioni, insomma, facendo narrazione dell’esperienza viva che mette al centro la relazione incarnata, è la più potente espressione – potente perché rappresentata e visibile – della scommessa educativa che ha il proprio centro nella scuola come istituzione e come contesto relazionale. Di un pensiero politico dell’educare hanno parlato e scritto le/i docenti dell’autoriforma partendo dalla consapevolezza autenticamente inaugurale di ripartire dalla scuola come cuore della società che sta cambiando e sfidare contemporaneamente sia l’ideologia del cambiamento a tutti i costi, dai tempi serrati e non governabili, sia quella del catastrofe: il suo movimento procede dall’interno, dunque, ed è stato inaugurato dall’agire politico delle donne che hanno messo in gioco la capacità di partire da sé e dalla felicità delle relazioni incarnate con il senso dell’autorevolezza giocata in positivo nel vivo dell’esperienza. Il rovesciamento del punto di vista sull’inizio – dalla crisi della scuola al cambiamento della realtà – rappresenta l’imprevisto – nuovo e naturale come ogni nascita, direbbe Hannah Arendt – di una sfida che rifiuta la comoda immagine delle Cassandre ospiti dell’Hotel Abisso con il loro corredo di lamenti e di demoralizzanti effetti di ritorno: approfittare della crisi e della conseguente frammentazione dei nessi provocati dalle abitudini linguistiche del ordine simbolico patriarcale ha conseguenze dirette sull’efficacia della relazione con l’altro, sulla qualità dell’ascolto e dello scambio, rimette in movimento il presente qui e ora.

 


La scommessa politica

 

Per queste ragioni, ho trovato immediatamente godibile – perché rassicurante per il mio bisogno simbolico – la messa in scena del film Essere o avere. Mi era familiare quell’abitare pienamente lo spazio dell’aula con la concretezza delle esperienze educative agite quotidianamente. Allontanava la minaccia dell’impura contaminazione della realtà e dei suoi intollerabili cambiamenti.
Eppure, uscendo dalla sala cinematografica, qualcosa non tornava mentre analizzavo con pazienza le emozioni che il film mi aveva regalato. La figura onnipresente e rassicurante del maestro, sempre pronto a dare risposte ad ogni domanda, cancella il margine incerto dell’apprendimento giocato sulla reciproca domanda. Era qualcosa che il corto circuito con il romanzo di Gosh ha reso pienamente parlante: la scoperta dell’arte della tessitura che permette al giovane Alu, dopo l’inutile tentativo di frequentare la scuola ufficiale, di accostarsi al segreto di un mestiere antichissimo attraverso il libero e appassionato apprendimento del sapere della manualità destinata a diventare in breve tempo sinonimo di felicità del fare e del creare. Lontano dalla scuola. Nel corso del romanzo siamo chiamati ad osservare i passaggi di quella scoperta assimilata al lento e progressivo procedere nelle pieghe di un operare che ha bisogno di tempo e di errori per crescere più sicuro e più forte attraverso le mani. La felicità del ragazzo non aveva trovato accoglienza nelle aule scolastiche, nonostante le preoccupazioni pedagogiche dello zio maestro e noi lettrici/ lettori non possiamo non salutare con gioia l’imprevisto di una scoperta che lo condurrà nello spazio dicibile dell’esperienza accostata alle cose, in relazione vivente con coloro che sanno fare e dire a partire da sé: è il segreto di ogni mestiere e di quell’attività umana che sa produrre linguaggio, modi di dire, metafore, come la tessitura. Di quel segreto non c’è traccia nelle aule scolastiche del villaggio indiano così come nella scuola rurale del film francese.
Tuttavia questo scacco della pratica didattica, comune a molte narrazioni artistiche sulla scuola degli ultimi anni, è sempre meno vero perché corrisponde agli stereotipi del senso comune impegnati in una gigantesca opera di svalorizzazione collettiva dei cambiamenti avvenuti nella scuola. Rincorrere l’ideologia della cultura professionalizzante al servizio del sistema produttivo, esercitare forme di maternage emotivamente esaustivo, separare pubblico e privato della propria immagine di docente sono i punti critici delle due rappresentazioni artistiche che ho voluto richiamare nel mio discorso: a quei modi di incarnare il mestiere dell’insegnamento io non riconosco l’autorevolezza per aprire conflitti e un radicale, differente agire politico nella scuola perché da essi non nasce la domanda che innesca l’apprendimento e l’auto-apprendimento, che solo il movimento politico del partire da sé può provocare. Solo con quel gesto, che mi viene dalle donne del femminismo che ho conosciuto, creo il contesto in cui la relazione si incarna, cresce, matura, si rivela in parole senza le quali l’azione e il discorso perderebbero ogni rilevanza umana, a cominciare dal suo carattere di imprevedibilità, che è radice di ogni agire all’insegna della libertà e del desiderio.

 

* Società Italiana delle Letterate. Di Donatella Alesi abbiamo pubblicato l’articolo “L’amore della lingua” sul numero di école di ottobre 2003.

 

NOTA
1. L’Autoriforma gentile e la Società italiana delle Letterate hanno organizzato nello scorso ottobre a Roma l’incontro nazionale “La lingua che ci amora. Esercizi di libertà per imparare con”.

 

Bibliografia di riferimento
Paola Bono, Sara Cabibbo, Marina Camboni, Maria Vittoria Tessitore, et al., Lett(erat)ura. Lavori in corso, Roma, La goliardica, 1985.
Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del movimento di autoriforma, a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini, Milano, Pratiche, 1998.
Vita Cosentino, Guido Armellini, Scuola, Bologna, CLUEB, 1999.
Cambia il mondo cambia la storia. La differenza sessuale nella ricerca storica e nell’insegnamento, a cura di Marina Santini, suppl. di Via Dogana, n. 62, 2002.

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