28 Gennaio 2009
il manifesto

La rabbia di Ramallah, la pochezza dell’Anp

Parla la scrittrice Suad Amiri
Giuliana Sgrena

Qual è stata la reazione dei palestinesi della West bank di fronte al massacro perpetrato da Israele a Gaza? Lo chiediamo alla scrittrice palestinese Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, a Roma per presentare il suo ultimo libro Niente sesso in città . «Per due giorni tutti i palestinesi sono rimasti incollati davanti alla televisione, senza nemmeno andare al lavoro, paralizzati dalle immagini trasmesse dalla tv al Jazeera», ci risponde. «C’è stata fin dall’inizio grande solidarietà umana, senza politica. La politica ha cominciato a emergere con l’intervista rilasciata dal leader di Hamas Khaled Meshal a Damasco che, con un tono molto arrogante, invitava a manifestare a favore di Hamas. Questo appello ha allarmato le autorità palestinesi. Va aggiunto che Abu Mazen si trovava all’estero e, sbagliando, non è rientrato subito».
La gente era ammutolita dagli eventi, ma quando ha cominciato a scendere in piazza?
Fin dalla prima sera, il 27 dicembre, vi è stata una fiaccolata, tutte le chiese hanno sospeso le loro cerimonie. Il giorno dopo, alle 13, senza nessuna convocazione, ci siamo ritrovati tutti in piazza, nel centro di Ramallah: c’erano tutti i partiti con le loro bandiere, ma non c’era nessun leader politico. C’era molta polizia e quando dal check point di al Bireh sono arrivati un centinaio di militanti – molte donne – di Hamas con le loro bandiere, la polizia voleva fermarli, ma gli altri gruppi lo hanno impedito urlando slogan unitari. C’era chi proponeva di eliminare le bandiere di partito e portare solo quelle palestinesi. Piccoli scontri sono scoppiati tra Hamas e Fatah, per i vecchi rancori. C’era molta depressione, finché Amal Khreshe, ex militante comunista, è riuscita a rianimarci urlando slogan unitari e dietro a lei, in prima fila le donne, un corteo ha percorso la città.
Però alla televisione abbiamo visto la polizia che attaccava i manifestanti.
Sì, i giovani che volevano dirigersi ai check point dove c’erano gli israeliani sono stati bloccati, picchiati e anche arrestati.
Perché non c’era nessun leader politico?
Perché in Palestina non esiste nessuna leadership, Fatah si è disintegrata, e questo è il risultato prima degli attacchi e dei bombardamenti di Israele contro Arafat nel 2002-2003 e poi della «guerra civile» scoppiata a Gaza. La gente è confusa, l’impressione era che Abu Mazen non volesse opporsi, solo dopo cinque giorni ha chiamato tutti a manifestare imponendo la partecipazine dei dipendenti pubblici. La brutalità di Israele era contro il popolo palestinese e la solidarietà era con il nostro popolo, non con Hamas.
Si può dire che il massacro compiuto da Israele, al di là delle dichiarazioni di intenti, alla fine abbia rafforzato Hamas?
Hamas adesso ha una grande responsabilità, quella della ricostruzione, che sicuramente non potrà fare senza l’aiuto internazionale e per ottenerlo dovrà fare concessioni. Quale percorso si può immaginare? Ci sono due strade possibili: o un governo unitario con Abu Mazen, oppure Hamas ripercorre la strada fatta dall’Olp negli anni ’70 per arrivare al riconoscimento di Israele.
Il problema degli aiuti però è urgente, c’è chi propone una forza di controllo alla frontiera egiziana…
Israele è riuscito a spostare l’attenzione dal blocco del valico di Erez, che doveva essere tolto dopo l’accordo per la tregua con Hamas, a quello dei tunnel che invece aveva tollerato. L’Europa con il boicottaggio imposto al popolo palestinese ha assunto un atteggiamento stupido e ora si propone di controllare la frontiera di Rafah invece di controllare il valico di Erez da dove provengono tutti i prodotti consumati dai palestinesi. Così tutta la pressione si trasferisce sull’Egitto come se il responsabile non fosse Israele.
Qual è il futuro di Abu Mazen?
Non potrà restare al potere senza un processo di pace che peraltro Hamas ha eluso. Forse l’elezione di Obama potrà aiutarci, il modo di pensare nel mondo può cambiare a partire dalla maggiore potenza. Altrimenti saranno gli islamisti fondamentalisti a guadagnare terreno perché sono gli unici che resistono all’occupazione e i giovani conoscono solo quel modo di resistere. Noi laici abbiamo perso gli strumenti per sostenere una giusta causa, non abbiamo articolato un modo di resistere che non sia violento, la resistenza pacifica è considerata da Israele violenza e repressa allo stesso modo, il prezzo da pagare è troppo alto.
Ma Israele vuole il processo di pace?
No, sono convinta che Israele voglia tutta la nostra terra, ma siccome non può buttarci a mare deve fare di tutto per farci sentire degli sconfitti – questo è l’obiettivo dichiarato da diversi esponenti politici e militari israeliani – umiliandoci e istituzionalizzando il sistema dell’apartheid.

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