4 Marzo 2004

La scuola che c’è

La scuola che c’è

Sono una docente di scuola media e insegno educazione fisica in un istituto comprensivo, questo mi permette di stare in relazione con maestre della scuola elementare. Questo aspetto della mia vicinanza alla scuola elementare non è secondario nella riflessione che voglio fare oggi. I luoghi sono importanti. I luoghi reali e simbolici che si sono attraversati e abitati, sono importanti perché danno la misura del vissuto e la prospettiva da cui guardi la realtà. Per questo mi è necessario dire, per prima cosa, che sono approdata al movimento dell’autoriforma gentile perché vi ho trovato echi e parole della politica femminile della Differenza che io già praticavo con altre colleghe nella scuola. Pratica politica che mi permetteva e mi permette, di starci partendo dalla mia soggettività, valorizzando il mio sapere e le mie passioni e dando parola alle pratiche di relazione e di scambio.

Autoriforma gentile ha nella parola “gentile”, oltre al gioco scherzoso su Giovanni, questa allusione al femminile e già in questo racconta la verità di una scuola abitata in gran parte da donne.

Nel ’94, quando l’Autoriforma è nata, eravamo in una situazione di critica aspra alla cosa pubblica gestita dallo stato. Tutti i luoghi comuni sulla scuola avevano risalto sui media, chiunque si sentiva autorizzato a raccontare la scuola come la vedeva dall’esterno, si richiedeva a gran voce una riforma che superasse lo statalismo con l’introduzione nella scuola di un’organizzazione ispirata al privato, si indicava nella logica di mercato il toccasana per raggiungere “efficacia ed efficienza” in un luogo, peraltro, abitato da viventi. Io avevo già spostato il mio sguardo da una scuola raccontata da altri a quella che abitavo, arrivando a capire il di più dato dalla presenza femminile e ribaltando lo stereotipo della scuola che non funziona perché ci sono troppe donne. Ero convinta che la scuola, nonostante tutto, funzionasse proprio per la cura, l’attenzione, la capacità di relazione che le donne vi avevano portato, soprattutto nella scuola di base, per questo non potevo che aderire con entusiasmo al movimento dell’autoriforma. Un movimento che non nasceva in contrapposizione a quanto stava accadendo, ma veniva da percorsi già in atto, da donne e da uomini, che partendo da luoghi e da pratiche diverse, si ritrovavano sull’esigenza che la riforma della scuola non poteva che partire da chi la scuola la stava facendo.

Per dirla con le parole di Vita Cosentino: “autoriforma è cambiare a partire da quello che c’è già e funziona. Far circolare il pensiero che c’è nella scuola, intendere l’insegnamento come un mestiere intellettuale alto, capace di produrre teoria sulla scuola basandosi sull’esperienza, è una politica scolastica fatta in prima persona…..E’, ovviamente, anche critica puntuale su ciò che non va.” 1Questo raccontare ed ascoltare le pratiche di soggetti in carne ed ossa, questo dare voce al positivo della scuola che c’è, mi ha portato, con questa idea di autoriforma, a ribaltare le categorie di pensiero dominante sull’educazione e la scuola e a rigettare il concetto tecnicista e aziendalistico presente in tutte e due le ultime riforme. Ha portato a dare valore ad atteggiamenti di curiosità per gli esseri umani che ci si trova di fronte, alla disponibilità all’imprevisto, al gusto per la risoluzione dei conflitti, al desiderio di giocare fino in fondo la propria soggettività.

Nella mia pratica questo significa dare il massimo valore all’essere lì in presenza, e a ciò che capita, con i ragazzi e le ragazze della mia classe.

Mi porta a comprendere che chi ho di fronte è un essere umano con la sua componente corporea, la sua caratteristica cognitiva e soprattutto la sua affettività. E’ con questo unicum che io mi metto in relazione per riuscire a compiere ogni volta il miracolo dello scambio che sta nel processo di apprendimento. Il coinvolgimento affettivo, lo starci in ciò che si sta facendo è ciò che permette ai ragazzi e alle ragazze di non sentire il sapere come lontano da sé, come cose che devono imparare, ma che con loro non c’entrano nulla. Voglio fare un esempio: in un laboratorio teatrale, dove io e una collega volevamo portare il gruppo a lavorare sulle parole che raccontano la realtà, leggemmo Natale di Ungaretti. Senza dare troppe spiegazioni chiedemmo ai ragazzi e alle ragazze quali sensazioni avevano suscitato in loro quelle parole, se qualcuno aveva vissuto le situazioni e i sentimenti narrati dal poeta. Un ragazzo di prima media, con grosse difficoltà d’apprendimento e che non partecipava mai alle attività scolastiche, quella volta raccontò che lui aveva provato quella apatia, quella voglia di starsene da solo, di non partecipare ai giochi dei compagni, quando un anno prima aveva perso sua madre.

Questo poter mettere insieme il proprio vissuto con la poesia di Ungaretti, trovando nel testo le parole per comunicare la sua esperienza, cambiò in quel momento e da quel momento in poi il suo rapporto con il sapere.

Il ragazzo riuscì con il gruppo a produrre una pièce teatrale che raccontava ciò che gli era successo e come ne era venuto fuori. Durante le rappresentazioni, quando la compagna leggeva la poesia di Ungaretti, lui, che non riusciva ad imparare neanche mezza paginetta nelle varie materie, ripeteva a bassa voce tutto il testo. La poesia che non era più solo di Ungaretti, ma anche sua. Dall’esperienza, portandola nell’incontro con altre e altri, riesco a formulare teoria che poi rigiocherò nella pratica, con tutti gli aggiustamenti che le diversità che ho di fronte mi portano a fare.

Nel caso che ho raccontato, come in altri, io ho fatto esperienza di quanto possa essere dirompente riuscire a tenere assieme – emozioni – affetti – conoscenze – e questo per me è un elemento che diventa teoria non sulla scuola, ma della scuola. Come dice Luisa Muraro: Per teoria intendo, alla lettera, le parole che fanno vedere quello che è.

Questa conoscenza che mi viene dallo scambio delle pratiche mi porta inevitabilmente a ribaltare anche la gerarchia tra sapere accademico e sapere dell’insegnante, tra la competenza di chi pensa la scuola da luoghi lontani, dove non arrivano gli odori e le puzze delle aule, e chi invece sta con, e in prossimità, di bambine e bambini. Questo ribaltamento è stato il tema del Convegno 2001 dell’autoriforma gentile “ Le maestre e il professore”.

Questa operazione simbolica è stata espressa con queste parole: “Le scuole dell’infanzia ed elementari sono la parte migliore della scuola italiana e fin dalla fine dell’800 sono principalmente donne, maestre ed educatrici, ad abitarle. Nel nostro incontro vogliamo interrogare la loro esperienza per capire come si è creata questa qualità, e mostrare come tutta la scuola possa cambiare imparando da loro. Intendiamo così mettere in discussione la tradizionale gerarchia tra i diversi gradi di scuola: al livello più basso la scuola dell’infanzia, al livello più alto l’università. In questa rappresentazione l’idea di fondo è che bisogna man mano emancipare l’insegnamento dai lacci affettivi attraverso cui passa l’apprendimento nell’infanzia, cosa tipicamente femminile (“la maestra” appunto), per passare al sapere neutro condensato nella figura del “professore”, considerato più nobile perché più vicino all’accademia e depurato dagli aspetti emotivi implicati nel gioco della relazione.” 2

Questa operazione simbolica mi ha fatto guardare con più attenzione vicino a me, alle persone con cui mi relaziono a scuola, magari lasciando in secondo piano i vari vademecum della perfetta insegnante. Così ho scoperto la maestria di alcune colleghe della scuola elementare del mio istituto.

Le maestre con cui sono in relazione nella mia scuola, conoscono le singolarità, gli umori, i modi di fare, le potenzialità e le debolezze delle bambine e dei bambini delle loro classi, ne parlano con competenza e amore.

Ho percepito il grande dolore di queste colleghe di fronte alle imposizione dei decreti attuativi della legge 53/03: dolore di perdere la relazione tra loro costruita nel tempo, di fronte alla riduzione dei tempi di lavoro con la classe, la sofferenza di vedere non riconosciuti né considerati, da chi sta trasformando la scuola pubblica in un supermercato di spezzoni di sapere, progetti e modalità didattiche costruiti proprio sullo scambio e su scommesse fatte nell’interclasse.

Queste maestre, nella lotta che stiamo portando avanti, hanno saputo raccontare cosa stava succedendo alle mamme e ai papà, con cui avevano un invidiabile colloquio quotidiano (invidiabile per noi delle medie, per non parlare delle superiori), trovando il modo di raccontare la scuola.

Così è avvenuto che in difesa della scuola pubblica, per la prima volta, si è formato un movimento di genitori e di docenti, partito si usa dire “dal basso”. Io direi: dall’alto della pratica di relazione.

E in questo modo di fare hanno trascinato anche noi docenti delle medie, ci hanno mostrato la strada per l’incontro con i nostri genitori, che, non accompagnando più i figli all’entrata di scuola, si erano – e avevamo – relegato in spazi stretti: convocazioni per le malefatte del figlio o della figlia, aiuto nella raccolta per qualche progetto, ma mai coinvolti in pieno in un progetto di scuola.

Le maestre e i maestri – e noi con loro – hanno cominciato a mettere in parola ciò che si fa a scuola, hanno cominciato a raccontare le pratiche pedagogiche e a dire il buono della scuola che c’è.

Finalmente la scuola ha trovato la lingua che è la sua, che guarda alle cose elementari e quotidiane, vicine al linguaggio e alla sensibilità di bambine e bambini. Sono le cose che veramente contano.

Un esempio di quali siano le cose quotidiane che veramente contano lo danno le parole di Claudia Fanti, una maestra di Forlì: Che ne sanno loro della NOSTRA scuola fatta di un quotidiano lavoro “artigianale”, con gli strumenti artigianali da noi inventati per avvicinare ogni piccola persona alla bellezza della scoperta dei concetti…Che ne sanno loro della geometria con gli origami, della narrazione orale incentivata da giochi in palestra, del leggere e dello scrivere imparato, più che sui banchi, in movimento e nei “teatri” improvvisati negli spazi angusti dei vecchi edifici scolastici in cui “abitiamo”, che ne sanno loro del tempo che impiega un bambino di prima elementare a superare la paura delle turche e del fatto che fino al momento in cui non l’ha superata non si interessa d’altro …………., che ne sanno dell’importanza del far scorrere le ore conversando, scambiandosi le esperienze e del ritrovarle nelle fiabe e nei testi di letteratura dell’infanzia che i bambini ascoltano a bocche “ancora” spalancate? 3

Questa è una voce che racconta le cose che contano di una scuola che c’è.

C’è una frase di Clara Bianchi, detta nell’incontro di costruzione del forum delle scuole del milanese, che mi è piaciuta molto: stiamo lottando per la scuola che vogliamo e che in parte c’è.

La cosa nuova è che, portati dalle maestre, a raccontare dal loro punto di vista l’esperienza scolastica, ci sono oggi anche i genitori. Sul sito di rete scuole mi è capitato di leggere delle lettere di mamme che, per spiegare la propria contrarietà alla riforma, hanno sentito il bisogno di raccontare ciò che il figlio o la figlia fa a scuola e di come questi stanno bene durante certe attività. Queste mamme raccontano la scuola che c’è e che va loro bene.

Io credo che in questo protagonismo e in queste pratiche, in cui non si delega nessuno, in cui si è presenti fisicamente con le proprie competenze e diversità, stia la forza “rivoluzionaria” di questo movimento. Io sono convinta che questa oggi sia l’unica politica possibile!

E in questo va ricercata la spiegazione del perché questo movimento, nonostante le continue risposte negative da parte del governo alle sue richieste, non solo continua a vivere, ma si allarga a macchia d’olio e coinvolge sempre più persone e situazioni.

E’ un momento stupendo per una riforma vera della scuola che parta da chi la scuola la fa e la vive. Io vedo che sta succedendo quello che abbiamo visto accadere quando abbiamo iniziato l’autoriforma; una grande spinta ad esserci in prima persona. Per questo abbiamo parlato di AUTO-RIFORMA che non è un’etichetta o un’organizzazione, ma solo un nome che dice la modalità di far politica.

E’ il momento anche di mettere in luce ciò che non va, di riprendere la riflessione sul senso della scuola. Perché è vero che c’è chi intende il lavoro come impiegatizio, che lo pensa come un part-time pagato per intero, che aspetta l’una e mezza per scappare da scuola. E’ vero che ci sono genitori che leggono il successo scolastico come una competizione del proprio figlio con i pari. E’ vero che il tempo pieno e il tempo prolungato rischiano a volte di essere delle “prigioni” dove, innaturalmente, si tengono inchiodati per otto ore corpi e cuori, pensando solo di dover riempire le menti. Ma come coinvolgere queste persone, se non riprendendosi in mano il senso profondo della scuola e raccontando la passione che ci portiamo, le nostre esperienze più parlanti e ciò che veramente conta ed ha valore per ciascuno e ciascuna di noi?

Io, in questa operazione del dare senso, mi ispiro alle maestre; e questa è un’operazione simbolica. Il modo di tenere insieme affetti e conoscenza, di star lì in presenza come cosa più importante, aiuta anche me a non essere sopraffatta dai programmi, dalle verifiche, dalle scadenze. Nel momento in cui devo scegliere tra un ragazzino che vuole parlare con me perché per lui è urgente e la verifica sull’acquisizione degli schemi motori che devo fargli fare con il gruppo, ho un criterio di valore e scelgo il ragazzino.

Il movimento che è in corso è fatto soprattutto da maestre che finora sono state mute e cominciano a parlare della scuola che fanno. Io vi invito ad ascoltare queste voci. Chiudo il mio intervento con una frase significativa di Cristina Mecenero, una maestra di Milano di cui è appena uscito per l’editrice Junior il libro Voci maestre: ricerca fatta dal vivo intervistando altre maestre, andandole ad osservare in classe e poi discutendo con loro per riuscire a far emergere alcuni nuclei essenziali del sapere delle maestre.

“ Che lavoro faccio? Io ho il compito di stare vicino all’inizio, è questo il mio mestiere. Detto così il mio lavoro mi pare bello e importante.

Saper stare vicino all’inizio è un’altra cosa ancora, io l’ho imparata un po’, ma so che posso impararla di più. Non è che non sono abbastanza sveglia o intelligente, è che stare all’inizio sembra facile, ma non lo è. Perché? Perché presuppone di rimanere in contatto con le cose essenziali, di base. Questa capacità è un dono di cui tutti possono godere ed al contempo è un’arte che va continuamente esercitata. Un’arte che nella nostra cultura è posta ai margini, quando addirittura non è del tutto eclissata.” 4

Gioconda Pietra.

1 Intervento al convegno LA SCUOLA CAMBIA MUSICA? – Lecco 23 ottobre 1999

 

2 Introduzione Atti del quinto incontro nazionale del movimento per un’autoriforma gentile della scuola LE MAESTRE E IL PROFESSORE – Roma 28-29 aprile 2001

 

3 Lettera di Claudia Fanti apparsa sul sito di RETESCUOLE dal titolo TRONFI TRIONFI – 1 marzo 2004

 

4 Articolo dal titolo VICINO ALL’INIZIO, tratto da VIA DOGANA – L’UNIVERSALE IN UN CONTESTO – n° 62 settembre 02

 

Print Friendly, PDF & Email