25 Gennaio 2004
il manifesto

La trappola mortale dell’identità

Stefano Sarfati Nahmad

Sono ebreo e sono contro l’occupazione israeliana. Mi capita spesso di discutere con amici e conoscenti ebrei ma queste discussioni non hanno mai portato da nessuna parte, non ho mai convinto nessuno. A qualunque argomentazione storica, etica o solo di buon senso, mi rispondono con un’altra argomentazione che a loro modo di vedere legittima o giustifica l’azione del governo israeliano. Mi sono chiesto a lungo perché la maggior parte degli ebrei difende Israele incondizionatamente arrivando persino a negare l’evidenza. Poi una sera a cena, commentando i recenti fatti, dico a un mio amico: comunque Fini è pur sempre meglio di Sharon (sottintendendo che Fini è sì un politico di destra, magari ex-fascista, amico di gioventù della Mambro, ma Sharon è pur sempre un criminale). E lui risponde: no, perché almeno Sharon è ebreo.
Ecco infine svelato cosa muove gli animi: il meccanismo di identificazione.
Una volta ho chiesto a Peretz Kidron, israeliano, passato dai campi di concentramento, attivo nel movimento pacifista di obiettori di coscienza Yesh Gvul, cosa direbbe ai numerosi ebrei della diaspora che difendono incondizionatamente la politica israeliana. Lui ha risposto: “…che non abbiamo bisogno di amici che si comportano come dei tifosi di calcio”.
Già, interisti contro laziali, ebrei contro musulmani, mondo occidentale contro mondo arabo. Ognuno sta con il suo schieramento e contro lo schieramento che in quel momento gli è contrapposto. E la cosa a volte è grottesca: il rappresentante degli ebrei italiani (Luzzatto) che appoggia un partito che discende da chi li aveva perseguitati, oppure figli di meridionali immigrati al nord che votano Lega Lombarda (e odiano gli immigrati albanesi).
Mi torna alla mente Danny, il protagonista del film The Believer, basato sulla vera storia di Daniel Burros, alto gerarca del Ku Klux Klan e membro del Partito Americano neo-Nazista del quale, in seguito a uno scoop giornalistico, si viene a sapere nel 1965 che è ebreo e così si suicida. Nel film, Danny è un ebreo americano, con un forte senso identitario ebraico. Compresa nell’identità c’è anche il vissuto di “vittima” dei genitori e dei nonni che erano stati perseguitati dai nazisti in Europa. Solo che Danny vive negli USA dei tempi moderni, una nazione forte, con un forte immaginario. Ed ecco allora che avviene il ribaltamento: nel momento in cui il ruolo di debole vittima gli diventa insopportabile, Danny, cresciuto dentro lo spazio mentale dell’identità collettiva, quella ebraica, trova più semplice sostituirla con un’altra identità contraria, diventa neo-nazista, piuttosto che compiere un percorso personale dove ci sia spazio per la sua storia e il suo presente. La bellezza di questo film è che fa vedere tutta l’umanità e il dramma personale di un individuo che cerca spazio per sé nel solo modo che conosce: all’interno di un’identità collettiva, che per definizione annulla il singolo – e infatti muore nel film come nella realtà.
Sono convinto che nella capacità dei singoli di stare alla larga dai modelli identitari, oggi si giochi il conflitto in medio oriente e molto di più. Il meccanismo identitario genera gli schieramenti (come la tifoseria di cui parlava Kidron) i quali portano avanti soltanto gli interessi di pochi furbi, che da soli non si bastano: Sharon senza il conflitto israelo-palestinese non avrebbe senso di esistere, Bush senza l’11 settembre, nemmeno.
Ma non devo a mia volta rischiare di ricadere nella logica degli schieramenti contrapposti e trovare un senso nella mia politica in quanto contrapposta a quella di Sharon e Bush. È quindi fondamentale trovare la forza di collocarsi, di prendere una posizione partendo da chi si è veramente, dal proprio modo di sentire e pensare, se occorre anche saltando la rappresentanza politica come fanno i girotondini. Solo quando dico IO e non NOI, posso rifiutare la domanda di adesione che Sharon fa a me e ad altri, in quanto ebrei, di essere parte del suo schieramento. In fondo, io mi ritengo ebreo perché figlio di madre ebrea. Poi non voglio rinunciare alla mia esperienza di ebreo, alla storia della mia famiglia che, essendo stata perseguitata, mi ha lasciato in eredità l’obbligo di fare un passo indietro e di iniziare a pensare, quando la legge del più forte viene messa in campo (cioè memoria si, ma non a senso unico). Il mio ebraismo è una parte di me. Non annullo la mia soggettività nell’identità ebraica, ma cerco di far confluire l’esperienza ebraica che è in me nella mia soggettività, arricchendola.

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