6 Novembre 2005
Liberazione

La violenza, investimento del desiderio, è nemica del desiderio. Perché annichilisce i corpi nell’ossessione identitaria

Maschi, perché uccidete le donne?
«Non è vero e non ci credo». «La nostra epoca ridà legittimità alla guerra, nella famiglia fioriscono violenza e sopraffazione». «La nostra cultura è patriarcale». Non è immediatamente facile trovare spiegazioni al dato reso noto una settimana fa dal Consiglio d’Europa: la prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni, nel mondo, ma anche in Europa, è l’aggressione violenta da parte dei loro compagni di vita. Lo afferma una ricerca del neonato “Osservatorio criminologico e multidisciplinare sulla violenza di genere”. Abbiamo posto il quesito a uomini che sono collaboratori di Liberazione; queste sono le loro risposte.

Franco Berardi “Bifo”

 

Da tempo Adriano Sofri sostiene la tesi che negli ultimi anni è iniziata una sorta di guerra mondiale per la (ri) sottomissione delle donne, che nel corso del ventesimo secolo sono riuscite a conquistare spazi di indipendenza economica, psichica, sessuale. L’esplosione di integralismo islamica rappresenta probabilmente la forma più evidente di questa guerra, ma il discorso non può limitarsi all’islamismo. Le grandi religioni monoteiste, che tendono naturalmente verso l’integralismo, hanno riconquistato negli ultimi decenni una presa formidabile proprio perché nella riaffermazione dell’identità religiosa è implicita la riaffermazione della subordinazione della donna. Ma se vogliamo cogliere le dimensioni reali della guerra contro le donne che si sta svolgendo nel mondo del nuovo millennio occorre estendere lo sguardo oltre i confini dell’integralismo religioso, e vedere l’integralismo economico come una (forse la principale) fonte di oppressione del corpo femminile.

 

 

Se non si tiene conto del ruolo che l’economia di profitto ha svolto e svolge nella sottomissione del corpo sessuato, se non si tiene conto di quanto il fanatismo economico abbia contribuito a impoverire l’esistenza e la sessualità, e abbia contribuito a introdurre nella vita sociale elementi di violenza, di arroganza, di aridità, si finisce per credere nella tavoletta secondo cui i malvagi integralisti opprimono le donne (il che è fuori discussione) mentre le corporation contribuiscono all’emancipazione e alla libertà.

 

 

In effetti la guerra d’aggressione contro le donne è strettamente collegata con lo sconvolgimento della sfera affettiva prodotta dall’economia globalizzata. Nella fase della globalizzazione del mercato del lavoro, l’emancipazione delle donne occidentali viene a coincidere con una sorta di globalizzazione della prestazione affettiva, sessuale, e della prestazione di cura. Mentre le donne occidentali si emancipano dal ruolo di madre, di cuoca, di infermiera che si occupa dei figli o degli anziani, in Ucraina o nelle Filippine, in Senegal o nel Maghreb milioni di donne sono costrette ad abbandonare le loro famiglie e i loro figli per sostituire a pagamento emancipate occidentali.

 

 

«Gli stili di vita dell’occidente sono possibili grazie a un trasferimento globale dei servizi associati con il ruolo tradizionale della donna, cura dei bambini, cura della casa, sesso. In una fase passata dell’imperialismo, i paesi del nord del mondo estraevano risorse naturali e prodotti agricoli, gomma metalli e zucchero, ad esempio, dalle terre conquistate e colonizzate. Oggi, mentre ancora contiamo sui paesi del Terzo mondo per il lavoro industriale e agricolo, i paesi ricchi puntano a estrarre anche qualcosa che è più difficile da misurare e da quantificare, qualcosa che assomiglia molto all’amore. E’ come se le parti ricche del mondo si trovassero prossime ad esaurire preziose risorse emotive e sessuali, e dovessero rivolgersi alle regioni più povere per ricavarne nuove risorse». (Ehrenreich, Russell, Hochschild: 2002, Introduction “Global woman”, pag. 4).

 

 

Si tratta di un vero e proprio trasferimento coatto di affettività. Quali effetti potrà produrre nella storia futura questo sfruttamento affettivo che la globalizzazione porta con sé? Possiamo prevedere che si accumulino nell’inconscio globale cataclismi di odio destinati ad esplodere in futuro? Non si tratta forse di una bomba a tempo piazzata nel cuore dell’affettività planetaria?

 

 

«Insegniamo ai nostri figli che il danaro non può comprare l’amore, e poi andiamo dritti a comprare amore per loro, noleggiando stranieri perché li curino, dato che noi abbiamo cose più importanti da fare. La ristrutturazione della famiglia americana ha creato un enorme bisogno di cura dei bambini ci sono quasi 400mila bambini sotto i tredici anni a New York con entrambi i genitori che lavorano, e ci sono meno di 100mila posti per loro in scuole a tempo pieno o programmi di assistenza quotidiana». (Susan Cheever: “The Nanny Dilemma”, “Global Woman”, 2002).

 

 

E magari si finisce per concludere che i bombardieri americani che uccidono decine di migliaia di donne in Afghanistan come in Iraq sono strumenti di liberazione.

 

 

L’ondata di violenza che si è scatenata nel mondo negli ultimi decenni del secolo ventesimo ha avuto come principale bersaglio le donne, non c’è dubbio. Un tempo la guerra era affare per maschi: cavalieri erranti, soldati di ventura, ufficiali romantici andavano a sfogare il loro eccesso di testosterone in qualche campo solitario ai margini dei villaggi e delle città, si ammazzavano allegramente tra loro, e chi s’è visto s’è visto. Ma dalla fine del diciannovesimo secolo la natura della guerra è cambiata. La guerra coinvolge sempre più direttamente la vita civile, devasta i territori, le fonti di sostentamento, le città e i villaggi, e colpisce essenzialmente i bambini i vecchi e soprattutto le donne.

 

 

E’ possibile definire una patologia dell’affezione, una patologia del desiderio? Non è forse il desiderio l’unico giudice di se stesso? L’unico luogo da cui possiamo giudicare il desiderio è il luogo di un altro desiderio. La violenza, che pure è un investimento del desiderio, è nemica del desiderio perché sempre mira a fissare, cristallizzare, e annichilire il divenire dei corpi nello spazio costringendoli nei limiti dell’ossessione identitaria. La violenza si iscrive profondamente nel codice genetico della società patriarcale, nelle sue successive evoluzioni, dato che la società patriarcale si fonda sull’identificazione del femminile e la sua delimitazione riproduttiva, subalterna, strumentale.

 

 

Con l’espressione società patriarcale intendiamo ogni formazione sociale in cui la differenza sessuale è fissata e cristallizzata secondo una logica di dominio, e in cui di conseguenza il desiderio femminile è rimosso perché l’identità femminile viene nominata e regolata dal maschile, che su questa identificazione obbligatoria fonda la propria identità. Il femminile (inteso non come genere biologico ma come modalità libidica e culturale) è soggiogato a esigenze economiche, psichiche e libidiche che non hanno nulla a che fare con la dinamica del corpo sessuato, ma hanno a che fare con il bisogno ossessivo di identità del maschio. Il principio regolatore della sessualità è qui esterno alla sfera del desiderio, e dipende invece dalla sfera dell’ordine simbolico, del potere politico, dell’accumulazione economica, in ultima analisi dell’identità.

 

 

L’identificazione sessuale è funzione di questa architettura del dominio su cui si basa l’intera economia psichica del patriarcato e delle sue successive manifestazioni storiche. Nella sfera del patriarcato la violenza domina ed informa di sé la vita affettiva, l’emozione, la sessualità. E questa violenza non è senza rapporto con l’immaginario, con la delimitazione del visibile, e la rimozione di ciò che non deve essere visibile. La violenza è la patologia generale dell’affettività, e da essa derivano tutte le patologie del desiderio. E quando la violenza è introiettata fino al punto che la vittima stessa la desidera, per poter conservare e riconoscere l’unica identità che le è rimasta?

 

 

Ci indigniamo davvero? O ci limitiamo a scuotere la testa?
di Alessandro Curzi

 

 

Lo confesso: sono stato uno dei tanti “miscredenti”. Nel senso che, ascoltata distrattamente da un qualche telegiornale (ero in Francia ed ero più attento a quanto stava succedendo nella periferia nord di Parigi, fra i giovani immigrati senza lavoro) la notizia sulle donne morte per violenza nell’Unione Europea, avevo pensato a un sicuro errore.

 

 

Più uccise o sfigurate nel corpo, fino a esserne invalidate, per mano del compagno o del figlio o dello spasimante o d’un altro qualsiasi familiare che non dalla guerra o dal cancro? Resistevo, istintivamente direi, ad accettare quell’idea, non perché non conosca quale e quanta sia la ferocia in mezzo alla quale viviamo ma, credo, perché l’idea mi era insopportabile. Mi ha soccorso mia moglie che crudemente m’ha detto: non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere; e soprattutto di chi non vuol credere che le sue battaglie non siano in realtà servite a modificare la realtà.

 

 

Credo abbia ragione. Anche in quella parte di mondo, benché ancora limitata, nella quale le donne hanno raggiunto una condizione di non più aperta sudditanza e sopraffazione (miglioramento certo dovuto alla lotta continua e sincera dei progressisti), anche lì resiste una zona oscura dovuta al più antico dei retaggi, che vede nella donna se non più un mezzo per stringere alleanze ed allargare regni, se non una pura merce di scambio… qualcosa comunque che “appartiene”.

 

 

Appartiene all’uomo che l’ha amata o la ama, che l’ha sposata o vuole sposarla o l’ha abbandonata, o che vanta comunque su di lei un diritto di sangue o d’affetto. Figlio, fratello, padre, marito, compagno d’una stagione magari breve. E’ la cruda verità: noi ci indigniamo per le bambine mutilate nel sesso, per le adultere lapidate a morte, per le madri che per guerra o per fame vedono morire i figli. Ma riflettiamo un attimo: ci indigniamo davvero altrettanto per uno di questi assalti violenti, tanto spesso mortali, dei quali è vittima una donna?

 

 

O ci limitiamo a scuotere la testa e a dire che il mondo è pieno di pazzi? Credo valga la pena di pensarci un po’ su.

 

 

 

La gravità dei fatti sempre sminuita colpevolizzando le vittime
di Giuseppe Di Lello

La violenza subita da parte di un partner o padre o fratello o marito – e cioè la violenza giustificata dal primato patriarcale – è la prima causa di morte delle donne (tra i 16 e i 46 anni) nell’Unione europea e nel mondo. Sembra una notizia incredibile: non è vero e non ci credo.
La fonte, però, è attendibile perché si tratta del prestigioso Consiglio d’Europa (un organo che non ha nulla a che vedere con le istituzioni comunitarie dell’Unione) il cui principale obbiettivo è la salvaguardia dei diritti fondamentali per mezzo della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, un organo giurisdizionale alle cui decisioni gli stati membri non si sottraggono mai: è vero, ma non ci credo.

 

 

Stento a crederci anche perché, come hanno spiegato quelli che ci hanno ben riflettuto, nei mezzi di comunicazione la gravità della violenza e/o dell’omicidio di una donna viene sempre sminuita con spiegazioni che tendono a colpevolizzare la vittima e a giustificare il carnefice: lui che non regge all’abbandono; la gelosia (ovviamente indotta dalla vittima) che l’acceca; lui che non regge al richiamo dei sensi; lui che la vuole ricondurre sulla retta via; lui che vuol salvare l’onore della famiglia; e simili. Nulla di strano se, a furia di sminuire, non si fa più caso ai numeri e, alla fine, ci si ritrova con questi dati apparentemente incredibili: è vero e ci credo.

 

 

E’ vero e ci credo anche perché le radici “culturali” della nostra società globale sono giudaico-cristiane-islamiche, con tre patriarchi come entità supreme.

 

 

Questa potrebbe essere una delle centomila spiegazioni dei dati fornitici dal Consiglio d’Europa. Sarebbe, comunque, interessante avere i dati disaggregati di paradisi socialdemocratici (la Svezia?) o socialisti (Cuba?) o comunitari (il Chiapas?) prima di decidere se suicidarsi (ovviamente le sole donne) o insistere a lottare.

 

 

 

E’ una guerra mondiale, ora non puoi dire:io non c’entro
di Pietro Folena

E’ in corso la grande guerra mondiale. Il fronte è in tutti i paesi, al nord e al sud, a levante e a ponente, dov’è freddo e dov’è caldo, tra i poveri del pianeta e fra i privilegiati. Investe antiche società tribali e modernissime società dell’innovazione. La guerra di genere – assassinii, stupri, violenze, maltrattamenti, abusi – di noi maschi contro le donne. Ce n’è un’altra, collaterale, sorella, indotta: dei padri contro i figli, dei grandi contro i bambini.
E’ difficile chiamarsi fuori: riconoscersi in quella generazione che è stata travolta dal ciclone femminista, che si è rimessa in discussione, che condivide pratiche di cura, che ha scoperto in sé la propria componente femminile, che – eternamente e a volte un po’ stucchevolmente in crisi – cerca nuovi paradigmi. Ora non puoi dire: io non c’entro. Come di fronte a un genocidio, a una strage, al terrorismo. Per una generazione di maschi colta, progressista e nonviolenta nel proprio codice genetico c’è la letteratura e il pensiero che ha rimesso in discussione la natura sociale del maschio cacciatore e guerriero. Ma c’era anche l’intima convinzione che la rivoluzione delle donne avrebbe quasi naturalmente portato, nella modernità, un nuovo modello sociale.

 

 

Il problema, invece, in tutta evidenza è quello della modernità, non dell’arretratezza. Di come in questa modernità Thanatos – l’istinto di morte come cultura della realtà, la violenza come pratica politica – abbia fatto arretrare Eros – l’istinto di vita, l’amare il prossimo, anche il nemico, come sé stesso. Thanatos sposa la politica con la morte, Eros rifonda la politica nella vita. La procreazione, la gravidanza, la generazione di nuova vita è intrinsecamente donazione, ricerca dell’altro, consapevolezza del limite, coscienza che la vita è anche perdita.

 

 

La nonviolenza diventa allora l’unica via – dolorosa ma ragionevole, ricerca permanente di coerenza tra il dire e il fare. Resiste e indica un altro modo di pensare e di vivere rispetto a quello fondato sulla reificazione delle relazioni umane – in questo inedito mix neoliberista tra spirito proprietario, costruzione di un mercato del corpo e della vita, brevettabilità di ogni forma vivente, aggressività, fanatismo fondamentalista, familismo chiuso – e all’idea attualissima che la politica sia la prosecuzione della guerra con altri mezzi, e che anche la vita faccia parte di questa guerra.

 

 

Altro che famiglia tradizionale/unioni di fatto: vogliamo ricominciare a discutere di come – pensando all’amore come grande forza collettiva, alla cura di sapersi stupire di cui ci avvertiva in modo illuminato Paul Ricoeur – facciamo uscire la guerra, a partire da quella quotidiana dei maschi, dalla storia?

 

 


Come Quasimodo mi chiedo: siamo ancora quelli della pietra e della fionda?
di don Vitaliano Della Sala

I dati diffusi dal Consiglio d’Europa e riportati da Liberazione sabato scorso (e come spesso accade, solo da Liberazione!) sono di quelle notizie che sembrano assurde o inventate, se non fosse che a raccogliere i dati è stato un organismo tanto autorevole: «La prima causa di morte delle donne è la violenza subita in famiglia, dal padre, dai fratelli, dal fidanzato, dal marito».
Quello che i dati non possono dire è il “perché” una cosa tanto assurda accade. E non solo in quelle realtà dove la donna è maltrattata per…legge, ma anche nei Paesi che si dicono progrediti, dove la discriminazione tra sessi sembra retaggio di un passato remoto.

 

 

Ma se ci pensiamo bene, proprio in questi Paesi le “pari opportunità” si danno, anche qui, per…legge, che non è proprio una bella cosa. Ad esempio, ultimamente abbiamo assistito ad uno di questi falsi momenti di promozione della parità tra i sessi, dove i politici maschi, che solitamente occupano la stragrande maggioranza dei posti di potere, hanno concesso alle donne di proporre un articolo della legge elettorale che prevedesse le cosiddette “quote rosa”, nella compilazione delle liste elettorali, articolo prontamente bocciato dalla maggioranza maschile del Parlamento.

 

 

Qualche tempo fa, poi, alle elezioni regionali della Campania, il presidente Bassolino impose un listino esclusivamente composto da donne, badando bene, però, a conservare il posto più importante per sé e, secondo me, offendendo le donne come persone incapaci di costruirsi carriere politiche da sole.

 

 

In politica, come in ogni ambito della nostra società “progredita”, maschilismo e patriarcato sembrano sconfitti, ma comunque è sempre il maschio che concede, che accontenta, che regala alle donne, forse con più eleganza rispetto al passato, però badando bene a conservare per se il potere di dare e di togliere a proprio piacimento, raccontando poi la favoletta consolatoria che “dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna”: una grande donna ma sempre “dietro” l’uomo. Perciò può essere contenta, ad esempio, la “grande” signora Mastella, diventata presidente del Consiglio Regionale della Campania, non per suoi meriti, ma grazie a quelli (?) del “grande” marito!

 

 

Tutto questo per dire che la nostra società è solo apparentemente progredita, almeno in ambito di parità tra i sessi; o meglio, noi siamo convinti che è progredita perché così ci raccontano, così ci dice la legge, così appare, così ci impone il salotto buono d’Italia, quello di Bruno Vespa. I dati sconvolgenti del Consiglio d’Europa – tanto sconvolgenti da non venire diffusi se non da qualcuno – ci dicono che dietro la facciata di rispetto “femminista” all’interno della nostra società si nasconde, subdolo, il maschilismo e il patriarcato di sempre, che ha escogitato metodi sempre più raffinati di controllo e di repressione del mondo femminile, soprattutto in ambito familiare.

 

 

Questi metodi sono tanto nascosti e tanto camuffati da non apparire, ma provocano comunque sofferenze e morte: come sempre, come prima, forse peggio che prima, perché oggi è più difficile denunciare tale stato di cose. Una donna che parla di maltrattamenti probabilmente viene irrisa, accusata di complesso di persecuzione, tacciata di vittimismo. «Non siamo mica un paese islamico», si sente sempre più spesso dire in giro, e «il femminismo è cosa del passato», come a dire «vi abbiamo concesso di protestare, ora tornate al vostro ruolo di sempre».

 

 

Salvatore Quasimodo si chiedeva: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo?». Sì, siamo ancora “quelli” delle caverne, i primati delle prime scene del film “2001: odissea nello spazio”, che hanno scoperto quanto gusto si prova a dominare, ad esercitare potere, a spadroneggiare, non solo sugli altri animali, ma soprattutto su quelli, quelle, della propria specie; e il godimento che si prova nell’esercitare il “potere dei poteri”, quello di dare la vita o la morte.

 

 

Forse è qui la risposta al “perché” della violenza sulle donne: loro danno la vita, i maschi, invidiosi di tanto potere, danno loro la morte. O è l’eterna paura del “diverso”, e della femmina in quanto essere totalmente diverso dal maschio; paura che ha prodotto, e produce, il peggiore patriarcato, il maschilismo, la caccia alle streghe, i roghi, le lapidazioni, gli “studi” e le teorie sull’inferiorità femminile.

 

 

I dati raccapriccianti del Consiglio d’Europa confermano una sensazione che chi, come il sottoscritto, raccoglie spesso le confidenze di tante persone, non solo nell’ambito del Sacramento della Confessione, aveva da tempo. Sempre più spesso sento storie di donne maltrattate dai familiari, di mogli e fidanzate umiliate dai rispettivi mariti e fidanzati, di figlie offese dai padri. Non sono storie di grandi violenze, ma non c’è un metro per misurarle! Violenze “piccole” di quelle per le quali non ci sarebbe posto nemmeno nei trafiletti dei quotidiani, comunque violenze; spesso non violenze fisiche, ma psicologiche, comunque violenze.

 

 

Quello che mi colpisce non è però il racconto di queste “piccole” violenze, ma la paura che si sappia in giro, la rassegnazione che «tanto così sono sempre andate le cose», il terrore delle ritorsioni dei maschi di casa e forse quello dell’irrisione degli altri: «Non siamo mica l’Iran».

 

 

Forse è proprio questa la peggiore violenza, quella “piccola”, quotidiana, quella che si consuma nel chiuso delle case e all’ombra delle famiglie. Una violenza travestita di amore (anche questo mi è capitato di sentire: «Mi picchia perché mi ama!»), una violenza difficile da denunciare, anche per l’opposizione delle vittime alle quali basta sfogarsi con il confessore. Una violenza che, come confermano i dati del Consiglio d’Europa, troppo spesso causa la morte.

 

 

Una violenza che dovrebbe farci solo vergognare: più cresciamo, più progrediamo, più diventiamo super-uomini… più diventiamo disumani!

 

 

 

Tra chi picchia e chi no un confine molto labile
di Andrea Milluzzi

Innanzitutto, una premessa: chiunque abbia alzato le mani su una donna è un vigliacco violento. Perché non c’è niente di più semplice che far valere la propria forza sapendo di non rischiare praticamente nulla.
Detto questo, perché gli uomini picchiano le donne? E, soprattutto, perché le picchiano così violentemente da arrivare ad ucciderle? Difficile dare una risposta valida per tutti i casi.

 

 

I dati che abbiamo a disposizione ci dicono che le violenze avvengono per mano di mariti, fidanzati e padri e che l’età in cui le donne rischiano di più va dai 16 ai 44 anni. Cosa vuol dire questo? Che il male da ricercare è all’interno della famiglia, o comunque degli affetti più cari. Si potrebbe quindi azzardare la teoria che più stretto è il legame che ci stringe ad una donna, più alto è il rischio che le facciamo correre. Ma anche questa è una spiegazione che non convince del tutto.

 

 

Se facessimo una proporzione fra rapporti d’amore e rapporti violenti, la bilancia penderebbe sicuramente a favore dei primi. Gelosia, manie possessive? Esistono, eccome. La ferrea sicurezza che le donne non possano avere opinioni e tantomeno rivendicazioni è purtroppo dura ad estinguersi. Come dimenticare poi l’alcoolismo, i raptus di follia, i “padri padroni”? Insomma, le spiegazioni sono molteplici, potremmo trovarne una diversa per ogni caso di violenza accaduto.

 

 

Il confine che separa gli uomini che picchiano le donne da quelli che non lo fanno si basa soprattutto su una differente scala di valori e su una differente capacità di auto-controllo. Però è un confine molto labile perché credo che la volontà di imporsi faccia parte della natura umana. E credo che questo dovrebbe interessare anche le donne, perché solo loro potrebbero insegnarci ad imporci senza dover necessariamente ricorrere alla forza bruta.

 


Gli uomini non sanno stare in coppia

di Daniele Zaccaria

 

Perché picchiamo, violentiamo e spesso assassiniamo le donne? Perché lo stimato chirurgo, il proletario senza avvenire, la celebre rockstar e l’anonimo impiegato, si assomigliano in modo così sinistro quando si tratta di elargire randellate alla propria compagna-amante-consorte?

 

 

Proviamo a dare una risposta schematica: gli uomini uccidono le donne perché sono fisicamente più forti. Perché, stricto sensu, possono permetterselo. Il ragionamento in teoria funziona, ma non rende ragione di un fenomeno che per molti aspetti trascende il mero “stato di natura” e chiama in causa lo sviluppo storico e l’organizzazione delle civiltà complesse.

 

 

Aggiungiamo allora un elemento culturale: gli uomini uccidono le donne perché lo hanno sempre fatto, legittimati da una società concepita e governata dai maschi, i cui tempi venivano scanditi dal metronomo dolente della discriminazione, dall’esclusione sistematica dai luoghi del potere o della semplice discussione. In tal senso, i violentatori di oggi non sono altro che i figli dei loro padri, i degni pronipoti dei loro brutali antenati. Solo una questione di retaggio, di crudeli eredità dunque?

 

 

Eppure, negli ultimi 50 anni la donna (almeno in Occidente) ha conquistato con fatica diritti e libertà impensabili appena un secolo prima. Un’emancipazione senz’altro parziale e incompiuta ma visibile ad occhio nudo in molti campi della vita attiva e della sfera pubblica. Però all’ombra del focolare nulla sembra cambiato. Perché?

 

 

Avanzo un’altra ipotesi, per così dire, fattuale: credo che gli uomini uccidano le donne perché semplicemente non sanno stare in coppia. Convivere significa condividere spazio e tempo, piccole miserie e grandi speranze, è un esercizio permanente di simmetrie emotive e di intimità più o meno amorose.

 

 

Vivere questa reciprocità non è un fatto scontato soprattutto per chi crede che la morosa di turno sia un’allegra protesi della propria persona, un oggetto di cui disporre a piacimento o addirittura una trasfigurazione coniugale della figura materna.

 

Se i rigidi codici della famiglia patriarcale e del matrimonio religioso garantivano a loro

modo uno “squilibrato equilibrio”, oggi quel compromesso è saltato in aria, soppiantato da un modello domestico che prevede uguaglianza di diritti e di doveri. Le donne se ne sono appropriate da decenni, gli uomini no.

 

 

E’ ora di mettersi al lavoro.

 

 

Qualcosa di profondo e diverso, che è solo maschile
di Claudio Jampaglia

 

Si alzano le mani per comodità, per non capire, ammettere, per non guardare, per dolore e ignoranza di sé, per bullismo, machismo, diseducazione, odio e travisato amore. Sempre su un* altr*, che sia diverso, nemico o consanguineo. Ma quando l’altr* è una donna si alzano pugni e calci, per qualcosa di più e profondo e diverso, che è solo maschile e sta nella sfera della gigantesca confusione del “mi appartiene” (perché maschio mi appartiene la violenza, la mia donna, il mio piacere…).

 

 

Mia nonna me l’ha ripetuto incessantemente: “Una donna non si picchia nemmeno con un fiore”. Unico ragazzo in una famiglia maternale a maggioranza femminile, ho conosciuto uomini miti e ho un padre per cui ho provato timore per la sua autorevolezza ma che non ha mai alzato una mano su di me, mai (e mi ha abbracciato molto). Io odio la violenza fisica, i branchi e l’ira. Ne sono quasi terrorizzato. Così più che darle le ho prese, ai giardinetti, in piazza e anche un paio di schiaffi di ritorsione femminile a qualche mia prepotenza.

 

 

Sono diverso? No. Sono solo stato protetto, accompagnato. Perché maschio rimango e benché non alzi le mani, rimane intatto quel mix complesso di forza, potere, conquista, certezza sull’altra che accompagna molta parte dell’amore maschile, almeno nei suoi inizi, nel modo di intenderlo “comunemente”.

 

 

La famiglia, la coppia, “l’altra un po’ tua” sono la discarica di un copione già scritto: aspettativa delusa, frustrazione e rifiuto sono la molla della forza, del ripiegamento, della negazione. Tutta la vita maschile è una battaglia per essere accolti, compresi, così come ne sentiamo il bisogno. Nell’amore ho trovato il mio egoismo, il mio modo unico di volere l’affetto, per me. Nella sessualità ho sempre vissuto la necessità di passare dal mio fuori a un dentro che non mi apparteneva e che volevo.

 

 

È invidia, possesso, di un sesso tutto esterno da sbandierare e stappare, che si deve far vedere gaudente? Una lotta inutile per non morire così come si è stati, unici solo a se stessi? L’altra scatena nell’uomo un’interrogazione costante, continua di quello che è. E l’uomo “mena” la sua immagine più vera. Lo specchio.

 

 

Come battere questo orrendo malinteso di genere? C’è tanta felicità e gioia per un funerale laico da celebrare in piazza e a letto, il funerale al possesso di sé che passa sul dominio dell’altr*, il corteo funebre del coito mal riuscito che ti ha inciso l’autostima, la veglia cantata dell’io, io, io, senza l’altr*. “Ciascuno di noi, da solo, non vale niente”.

 

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