4 Aprile 2004
il manifesto

L’Africa in autoscatto

«Made in Africa», seconda edizione italiana della Biennale di fotografia africana di Bamako, in Mali. Fino al 25 aprile, a Milano, sogni, vita quotidiana e creatività di un intero continente raccontati attraverso dieci fotografi e oltre cento immagini
Marisa Paolucci

La mostra Made in Africa, alla sua seconda edizione, offre la possibilità anche in Italia di vedere la creatività artistica africana, il suo stile, la sua sperimentazione, il suo modo di catturare la realtà e di rielaborla con una rassegna dei migliori sguardi sull’Africa della Biennale di Bamako, in Mali. La città di due maestri indiscussi dell’obiettivo come Seydou Keïta e Malick Sidibè che ospita questo grande laboratorio creativo che mette in dialogo le culture più lontane e diverse dell’intero continente. Sono 127 le opere esposte a Milano per Made in Africa (fino al 25 aprile, Musei di Porta Romana, Galleria Arteutopia, viale Sabotino 22, info: tel. 02 89055278, www.arteutopia.it; www.afritudine.org) di undici fotografi provenienti da ogni parte dell’Africa. Città, volti, corpi, emozioni, paesaggi, riti, catturati da sguardi mai superficiali, attraverso un percorso espositivo tripartito: la sezione internazionale, la sezione Egitto e la sezione Zimbabwe.

 

Nella sezione internazionale – un lungo viaggio attraverso nove paesi, dal Marocco al Sudafrica, dal Gabon all’Algeria -, il marocchino Jamal Benabdesslam sceglie la sacralità del rito restituita in un rigoroso bianco e nero. La preparazione del tè, o le antiche pratiche guaritrici diventano attimi di un quotidiano immerso in una tradizione millenaria. Il bianco e nero seduce anche il nigeriano Emeka Okerete che, con il sapiente uso della luce, riesce a far emergere dall’ombra armoniosi intrecci di corpi nudi.

 

Quattro le donne presenti in questa sezione. Negli scatti di Maha Maamoun un Egitto caotico dove le donne, con i loro abiti floreali, richiamano all’antico rapporto con la natura. Inquietanti invece i piedi e le mani sapientemente legati, della fotografa Myriam Mihinduou del Gabon. Bloccati in una realtà che non permette alcun movimento. Particolarmente elaborata, infine, la ricerca di Sophie Elbaz e Samta Benyahia.

 

Franco-algerina, fotogiornalista per Reuters e Sygma, a un certo punto della sua vita Sophie Elbaz decide di interrompere, per «saturazione emotiva», il suo lavoro e sceglie in maniera radicale di occuparsi di fotografia in modo diverso: «Sono nomade d’origine e il legame che ho con il lavoro è il viaggio, che mi definisce come persona. Ho iniziato quindi come fotogiornalista poi mi sono stancata dei giochi e delle manipolazioni che vedevo crescere intorno a questa professione. Non riuscivo più a emozionare le persone in un mondo in cui c’è una vera lotta delle immagini e c’è una sovrabbondanza di emozioni che finisce per annullarle. Allora ho cominciato a scoprire un immaginario più poetico, e metaforico, che mi ha sedotto e ha cambiato completamente il mio modo di vedere le cose». E di restituirlo nelle sue foto anche grazie a una tecnica innovativa scoperta casualmente: «Si tratta di un processo organico che trasforma i colori e i contorni dell’immagine. Il tempo è il fattore essenziale in questo processo di trasformazione. La serie africana rappresenta un periodo di dieci anni. La maturità avviene lentamente. Ho scoperto in questo modo che all’interno di questo processo organico c’erano molte altre cose, si trattava di un nuovo modo di esplorare la fotografia. Questa nuova lettura della materia e dell’immagine rendono le mie fotografie rappresentazioni immaginarie».

 

Il mondo immaginario delle sue foto è legato al simbolismo della cultura africana segnato da un legame tra presente e passato, tradizione e modernità, maschile e femminile. «Le donne hanno un ruolo molto importante nella trasformazione del continente africano. Lucy è una foto che ho scattato nel 1988, durante una cerimonia animista; all’inizio era soltanto una donna che passava davanti ad alcune persone, dopo il processo organico l’immagine è stata trasformata rivelando il senso di questa cerimonia: c’era il richiamo agli antenati e agli spiriti, e c’è l’immagine di Lucy prima madre dell’umanità. Nella culla dell’umanità l’Africa, che cammina davanti al mondo degli spiriti e dei morti, ricordando che in questo continente la cultura non può essere staccata dall’idea del mondo dei morti e degli spiriti. La metafora di questa immagine è questa donna che cammina portando il suo destino e quello dell’umanità tra due mondi, il visibile e l’invisibile».

 

Ci sono altre figure femminili nelle foto di Sophie. La donna con la bambola sulla schiena, (Porteuse de vie), rappresenta la fertilità. La donna che esce dalla barca (La Passerelle) con il suo vestito quasi anacronistico rispetto alla barca così vecchia e malandata racconta l’Africa tra passato coloniale e futuro in trasformazione. L’immagine dello sciamano (Chaman Hic un Nunc), rappresenta invece tutto il potere animista, con il divertente anacronismo dell’orologio al polso a riprova che si tratta di uno stregone attivo e contemporaneo.

 

L’algerina Samta Benyahia affronta un viaggio nell’immaginario femminile, partendo da un manuale scolastico diffuso durante l’epoca coloniale, per poi arrivare ai ritratti delle donne di oggi che hanno studiato su quel manuale. «Sentivo che era il momento di lavorare sulla memoria, sulle tradizioni ancestrali, per arrivare all’attualità. Ho conservato i miei manuali scolastici dell’epoca coloniale e ho creato l’installazione. Ho realizzato una ricerca su quarant’anni di storia personale di queste donne perché volevo evidenziare i diversi percorsi: dopo la scuola, per l’uomo c’è la libertà, per la donna i lavori a casa». Così è andata a cercare queste sue vecchie compagne di scuola e ha chiesto loro di scrivere un testo sull’infanzia e sul presente. Un lavoro importante di legame con la sua generazione di cinquantenni: «Abbiamo vissuto bambine in un’Algeria francese e poi l’indipendenza quando eravamo al liceo con i sogni di libertà di istruzione, indipendenza delle donne, ed è questo legame che mi ha affascinato. Le giovani algerine vivono in un mondo evoluto, con le sue difficoltà, ma immerso in una realtà internazionale con i media, internet… Le donne della mia generazione sono ancora troppo legate a un’educazione vecchio stile».

 

Samta ha un’idea molto chiara sulla situazione dell’arte contemporanea africana, oggi diventata una realtà importante «nonostante il percorso sia ancora lungo, anche se comincia a esserci da parte dell’occidente un interesse per gli artisti africani. Bamako ne è un eccezionale esempio».

 

Nella sezione Egitto sono in mostra gli scatti di Nabil Boutros, pittore e scenografo che si dedica alla fotografia dal 1986. Soggetto delle sue immagini sono i cristiani copti presenti in Egitto con la loro storia diversa da quella degli altri cristiani d’oriente e con il loro attaccamento viscerale al paese e ai rituali ancora vivissimi. Un lavoro fatto «per conoscere, per scoprire quello che cerco, in questo caso i pellegrinaggi come eventi importanti sia religiosi che sociali, feste popolari, ricche di situazioni umane, un mondo ancora autentico». Il suo è un Egitto da scoprire attraverso foto in bianco e nero – «perché il bianco e nero hanno uno spazio più denso, più profondo, il colore è più descrittivo» – non immediate, non ammiccanti, dove l’obiettivo è puntato a cercare di catturare il tempo. «L’immagine non deve essere qualcosa di facilmente digeribile – spiega – per poi essere facilmente dimenticata. Ho sempre cercato di fare fotografie meditate dove il tempo è un elemento importante, cerco di entrare nell’immagine, nel mistero, nella luce e nell’ombra e portare in questo mio viaggio chi guarda la foto».

 

Infine la sezione sullo Zimbabwe, il paese dell’Africa australe che scopre la fotografia con i primi esploratori in cerca delle cascate Vittoria e delle rovine archeologiche di Great Zimbabwe. Risalgono ai primi del ‘900 le prime testimonianze fotografiche di questa terra. Negli anni `80 le fotografie raccolte nella collettiva «Thatha Camera», memoria delle township di Bulawayo, sono il documento originale dell’epoca, una raccolta di immagini resa possibile dal contributo della popolazione. Si tratta di uno spaccato del popolo delle periferie, coinvolto nella battaglia per la democrazia e l’indipendenza.

 

I tre percorsi della mostra rappresentano un efficace mosaico della fotografia del continente attraverso forme, colori e tecniche di artisti di generazioni diverse; con il loro sguardo raccontano la memoria, i sogni, la realtà rigorosamente Made in Africa.

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