di Simonetta Fiori
Ridotte a didascalia o trattate come fossero uomini. Perché i testi scolastici ignorano il ruolo femminile collettivo: i risultati di un’indagine della Sis
Nei manuali di storia per ragazzi le donne sono solo una didascalia, un paragrafo isolato o “una vita eccezionale”. Comunque un soggetto che non fa parte del racconto collettivo ma viene confinato in un angolo della pagina per fare colore o destare meraviglia. In linguaggio teatrale potremmo paragonarla a una figurante che solo in rari casi avanza sul proscenio perché giudicessa o santa, regina o imperatrice, oppure perché imbellettata e profumata e rilucente di piume dorate, ma quasi mai nella veste anonima di gente comune, parte che spetta solo agli uomini insieme a quella di eroi e guerrieri. E questa regìa perdura per milioni di anni, dalla Preistoria al Novecento, dall’età dei cavernicoli alla Grande Guerra quando finalmente «le donne entrano nella storia», come sentenzia un manuale Mondadori sulla cittadinanza per la quinta elementare (una curiosità: prima dov’erano nascoste?). Ma, attenzione, entrano nella storia «perché dimostrano di saper prendere il posto degli uomini». Altrimenti chissà quanto avrebbero dovuto aspettare per diventare visibili anche agli autori dei sussidiari. Il quadro appena tratteggiato emerge da un’originale ricerca che sarà presentata oggi a Pisa, al VII congresso internazionale della Società italiana delle Storiche, l’associazione che da circa trent’anni promuove la ricerca sulle donne. Elisabetta Serafini, dottoranda dell’Università di Tor Vergata e responsabile per la Sis della didattica, ha selezionato sedici testi scolastici dei più importanti editori nazionali, i titoli maggiormente adottati tra sussidiari di terza, quarta e quinta elementare e manuali delle medie. Letture fondamentali, libri di formazione che forgiano la conoscenza e l’immaginario di ragazzini e ragazzine dagli otto ai quattordici anni, delicatissima stagione in cui si matura coscienza di sé e degli altri.
Che “genere di storia” circola sui banchi di scuola? Sintetizzando in modo brusco, potremmo dire che è una storia senza donne, o dove le donne compaiono di straforo in paragrafetti aggiunti o note laterali, dando l’impressione di non avere alcuna influenza sul corso degli eventi. Una narrazione definita giustamente “anacronistica” perché ignara dei contributi offerti dai women’s studies negli ultimi vent’anni. E ignara di imprese storiche come quella curata da Georges Duby e Michelle Perrot per la storia delle donne. E soprattutto una narrazione distratta rispetto alle battaglie politiche sfociate in un codice di autoregolamentazione sottoscritto nel 1999 dagli editori scolastici in materia di pari opportunità. «A partire da quel momento », denuncia Serafini, «gli editori si sono limitati a un’aggiunta politicamente corretta di paragrafi a fine capitolo oppure al racconto di vite eccezionali, tutti elementi che contribuiscono a rafforzare l’immagine di un’indistinta immobilità femminile nel resto della società».
La storia non è certo una questione di quote rosa, ma i numeri servono a inquadrare una vistosa lacuna. Secondo l’indagine svolta dalla Sis, è difficile imbattersi in una rappresentazione femminile che vada oltre il 20 per cento delle pagine dedicate alla storia, con maggiori difficoltà per l’età preistorica e “le civiltà dei grandi fiumi e del Mediterraneo”, dove le donne considerate sono la Dea Madre oppure le figure infiorettate che occhieggiano dai riquadri dedicati ai culti di bellezza. O materna nutrice onnipotente o corpo sensuale assai desiderabile, pare non esserci altra scelta. L’universo femminile evoca un unico modello fatto di specchi, balsami, unguenti, pettinature e fermagli, avulso dall’organizzazione sociale dove invece compare una varietà di ruoli maschili, come nella piramide egiziana di un manuale Cetem di quarta elementare che ritrae faraoni, sacerdoti, scribi, soldati, artigiani, contadini e schiavi; e per trovare la donna scriba bisogna cercare nel box a parte, sconsolante conferma di una storia d’appendice. In qualche caso la donna scompare del tutto dall’apparato iconografico: in un’illustrazione tratta dal manuale di terza elementare dell’editore La Spiga, nerboruti cavernicoli cacciano, preparano da mangiare, cuciono le pelli, riflettono pensosi intorno al fuoco e infine si dedicano ai riti di sepoltura – il morto per fortuna è sempre un uomo – come se le loro compagne non fossero contemplate dalla specie umana. Il problema non è solo delle fonti, perché anche là dove gli studi sono più avanti – il mondo greco-romano – il ruolo femminile risulta condannato alla marginalità, il più delle volte relegato al reparto “trucco e parrucco”. L’ossessione sessista sembra estendersi alle professioni che studiano il passato remoto, tanto che in un testo di terza elementare (La Scuola) sono rappresentati “l’archeologo”, “il paleontologo”, il paleantropologo e il “geologo” con faccette solo maschili.
Dal Medioevo la presenza femminile sembra animarsi, ma la Società delle storiche ci mette in guardia da un eccesso di entusiasmo. A parte figure come Giovanna d’Arco o Caterina da Siena – e per l’età moderna Isabella di Castiglia o Elisabetta I – mancano le donne come soggetto collettivo, capaci di agire dentro le gabbie giuridiche e sociali del loro tempo. Dove sono le lavoratrici? «Inutile mettere in pagina l’affresco del Buon e Cattivo governo dove Lorenzetti ritrae le donne muratore se non si fa cenno a queste categorie», lamenta Serafini. Il lavoro sembra che le donne lo scoprano solo nel Novecento, quando vanno a sostituire i maschi accorsi in guerra. E per gli autori dei manuali è esistito solo il femminismo primonovecentesco delle suffragette, mentre viene ignorato quello che negli anni Sessanta e Settanta ha cambiato la storia del Paese. L’unica rivoluzione che abbiamo avuto in Italia, forse per questo è meglio non raccontarla ai bambini.
(La Repubblica, 2 febbraio 2017)