29 Novembre 2013

“Scardiniamo l’istituzione dentro di noi”: uomini e donne a scuola di femminismo

di Antonietta Lelario, Laura Colombo e Sara Gandini

 

C’è la mamma col gonnellone (questa è Sara) e quella con il tailleurino, c’è quello in giacca e cravatta e il sessantottino col codino. C’è la mamma sudamericana che fortunatamente quest’anno non lavora di sabato e può organizzare il laboratorio per cuocere i biscotti, e il papà professore, che si arrabbia perché la locandina per il mercatino di Natale non ha una grafica accattivante. C’è la mamma con il figlio dislessico, che non si accontenta che diano dei compiti più facili ma pretende che a scuola ci sia una biblioteca con libri adatti. E poi la “commissione disabilità”, creata dai genitori ma che pretende interlocutori attenti anche tra i professori. È stato pure inventato l’Aperilibro: aperitivo e libro per un’offerta. I soldi andranno spesi per comprare le lavagne multimediali (ogni classe ne ha una), i pc, lezioni extra per fare i compiti per chi ne ha bisogno.

I genitori ci sono a scuola e sono molto vivaci. Vogliono esserci e portare idee e progetti.

Sono cambiate molte cose negli ultimi trenta, quarant’anni. Ieri le insegnanti cercavano in tutti i modi di coinvolgere i genitori. Oggi madri e padri chiedono di partecipare e spesso è l’istituzione che si ritira, bloccata da regolamenti, programmi, tempistiche. Questo cambiamento già in atto si è visto bene nel laboratorio Pedagogia della differenza di Paestum 2013, il convegno femminista Libera: ergo sum. Nel laboratorio, pensato da donne e uomini, circolava intelligenza e passione. Mamme, ricercatrici, insegnanti e chi lavora nella formazione ci siamo messe e messi in gioco, noi con la nostra libertà, con le differenti soggettività e parzialità.

Da una voce maschile – Alessio – è arrivato l’invito a far proprie le pratiche del femminismo e “scardinare l’istituzione dentro di sé”. Agiamo fuori dalle strettoie delle regole, dei voti e dei tempi imposti dei programmi, dice un professore. “Se io non ci credo, posso darmi l’autorità di insegnare tenendo presenti le domande di senso che sono alla base dei saperi, senza inseguire tassonomie, posso non farmi ingabbiare dalle rigidità burocratiche.” Un bell’esempio maschile di tenere insieme lotta al potere e assunzione di autorità, imparando dal sapere delle maestre, sapientemente narrato nel dvd L’amore che non scordo. E così, forse proprio perché l’esperienza politica che è stata fatta  a scuola e all’università è forte, nel laboratorio Pedagogia della differenza di Paestum 2013 abbiamo potuto superare quella fastidiosa impressione di cominciare sempre daccapo.

Qual è il campo di battaglia? Lo disegna una mamma, insoddisfatta del comportamento della maestra di sua figlia, che si chiede se non sia possibile “obbligare le maestre ad agire tenendo presente la differenza”, e altre che mostrano l’esigenza di andare oltre gli stereotipi. Cercare soluzioni imposte dall’alto? Non è questa la strada.

L’unica strada è scommettere sulla soggettività e sulle relazioni: una pratica che ci mette in gioco profondamente e produce cambiamenti radicali. E così interviene una mamma – Laura – che invita a “non essere schematici perfino nella lotta agli stereotipi, perché i bambini e le bambine attraversano tante fasi di crescita e di ricerca per capire chi vogliono essere e questo loro percorso va seguito con cautela e attenzione senza preconcetti su principesse e cavalieri”. Non si tratta quindi di negare gli stereotipi, ma di affrontare i nodi della crescita in modo meno semplicistico, interrogandosi sul filo che corre tra lo stereotipo e la ricerca che bambine e bambini hanno la necessità di fare, in quanto esseri sessuati che si muovono in un mondo profondamente mutato dalla libertà femminile. La trasformazione è così grande che, se da una parte una bambina di cinque anni ha già consapevolezza del valore della propria differenza, dall’altra un insegnante sottolinea che “oggi sono i ragazzi ad aver più bisogno della differenza maschile, sono loro ad aver bisogno di sapere chi sono”.

I temi si rincorrono, il tempo è poco e sono tante le cose da dire in ogni intervento, ma l’attenzione all’uso (sessuato) della lingua emerge continuamente. Molte mostrano una rabbia crescente verso un uso della lingua che rende visibile una strategia di potere. Perché si usa tranquillamente “segretaria”, “cameriera”, “infermiera” ma non “ingegnera”, “notaia”, “primaria”? Il riconoscimento sociale dei ruoli influenza il nostro linguaggio, tentando di riassorbire la domanda femminile di cambiamento. Per questo non basta “ribadire che l’uso sessuato della lingua è una questione di correttezza”, ha insistito Marirì, perché è fondamentale l’assunzione della propria autorità che plasma la società in cui viviamo. Infatti a Paestum circola la consapevolezza che il linguaggio si modifica con noi, perché grazie al linguaggio passa il simbolico, cioè il senso che diamo al nostro muoverci nel mondo.

L’abbandono della lente catastrofista, nonostante le difficoltà oggettive che la scuola italiana attraversa, ci ha consentito di uscire dalla logica del lamento. Le politiche degli ultimi anni sono riuscite a smorzare l’entusiasmo di molti insegnanti, ma Pia ci ha ricordato che se, come è evidente, tutti continuano a parlarne è perché a scuola si gioca una partita importante per la società intera.

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